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Credo che la frase sopra sia di Goering. È vera? 
Domenica sarà la Giornata della Memoria e io ho il compito di ricordare. Ricordo che a maggio sono andato, per la prima volta, in Andalusia. Non è stato solo un viaggio di piacere in una terra bellissima. Andavo segretamente anche a cercare tracce perdute della mia famiglia: quella materna, a cui sono più legato. La famiglia di mia madre era di ebrei livornesi, sefarditi. Venivano dalla Spagna (in ebraico “Sefarad”), il cognome di mia nonna era Varios. Che tuttavia non sembra proprio un cognome ebraico: piuttosto ispanico. Eppure che fossero ebrei non era in dubbio. Praticanti. Ma il cognome mi ha sempre incuriosito. Quelli degli altri parenti di quel ramo sono più evidenti nelle loro origini: i Guetta, dal Nordafrica (molto probabilmente dalla Libia), i Tedeschi da Askhenaz - la Germania - verosimilmente. Ma i Varios? 
Ho cercato su internet: non vi sono tracce - se non appunto nel ghetto di Livorno (che grazie ai Medici accolse gli ebrei scappati dalla Spagna) - di quel cognome. Non in Israele, non altrove. Qualcuno in Sudamerica, ma chiaramente non ebreo: latinos dispersi qua e là nel continente sudamericano. Pochi, tra l’altro.
Mi mancava un pezzo, un collegamento. E in quel viaggio una parte della mia attenzione vagava costantemente alla ricerca di un indizio. È stato così alla juderia di Siviglia: il quartiere che anticamente era popolato dagli ebrei quando l’Andalusia era ancora al-Andalus, una delle civiltà più splendenti - e tolleranti - della storia Europea (una civiltà islamica, guarda un po’!). È stato così anche alla juderia di Granada. Ma dovevo arrivare a Cordoba per incontrare il pezzo mancante del puzzle. Al piccolo museo della juderia di Cordoba, non lontano dalla spettacolare Mezquita, la Grande moschea, il mistero si è svelato, come in un film. In quel museo, che manco a farlo apposta si chiama Casa de Sefarad - Casa de la memoria, ho incontrato un mio antenato, o meglio colui che mi piace pensare tale e che mi ha svelato il mistero del cognome. Mi è apparso in una piccola didascalia: Miguel De Barrios, figlio di Simon de Barrios. E che in realtà si chiamava in altro modo: Levi Caniso. Un personaggio importante - militare, poeta, storico e filosofo - ritratto anche da Rembrandt. Uno che scappò, come tanti altri, dalla Spagna perché aveva alle calcagna l’Inquisizione, finendo, tra gli altri posti, proprio a Livorno. E che come tanti altri ebrei spagnoli, “indossò” un falso cognome per confondersi tra la folla: De Barrios. Sarà stato un suo figlio a restare a Livorno e a dare vita al ceppo dei Varios (italianizzazione più che evidente del cognome Barrios)? Sarà stato un fratello, un parente, un cugino? Non lo so. Forse all’archivio di Livorno potrei capirlo, prima o poi lo farò.
Ma scappare, nascondersi, cambiar cognome, non è servito. Non ai miei due cugini, Alberto e Pier Luigi Guetta, uccisi dai tedeschi nell’agosto del 1944 vicino a Perugia, dove si nascondevano. Non a mia nonna Clelia Varios, che dovette scappare e nascondersi anche lei. Non a mia mamma che fu nascosta bambina in un orfanotrofio e che rimase traumatizzata. Mi spiace Miguel, non è servita, non è bastata, nemmeno 400 anni dopo: era meglio se mantenevamo con orgoglio il cognome Levi, almeno eravamo in ottima compagnia. Rivedere i nomi dei miei parenti tutti schedati dopo le leggi razziali (è la foto sotto, che mostra il file con segnate le abitazioni dei miei parenti e di altri ebrei a Milano) non mi fa rabbrividire: tanto da sempre qui si scappa e ci si nasconde. Chiedete a zio Miguel.

 



La questione qui però è un’altra. È che in quello stesso viaggio alla Cattedrale di Granada, barocca come una sposa siciliana, ho incontrato la tomba di Isabella di Castiglia. E poco più in là, il monumento con lei e Colombo. Ma Isabella - gran puta - fu a quel tempo per ebrei e musulmani (marrani e Moriscos) quel che nel secolo scorso fu di nuovo Hitler. Certo, fu lei a unificare la Spagna insieme a suo marito Ferdinando d’Aragona. Fu lei a dare le navi a Colombo, certo. Ma fu anche lei a perseguitare e disperdere tutti quelli che non le andavano, a bruciarli sul rogo, a sottrarre loro ogni possesso, Ma Isabella non viene ricordata come un mostro. Anzi. Era la Regina, seppellita con tutti gli onori nella Capilla Real della Cattedrale della città che devastò, immortalata in bronzo davanti alle vie che videro fiorire biblioteche e università e monumenti incantevoli e che lei distrusse. Un posto tra l’altro dove tutti si viveva piuttosto d’accordo, prima che arrivassero i Re Cattolici. 

La storia la scrivono i vincitori. Credo lo disse Goering a Norimberga. È vera? Non lo so. Ma Isabella di statue ne ha a bizzeffe, Goering non credo. Proprio lui che poco prima di uccidersi col cianuro disse a Richard Sonnefeldt, giovane traduttore al processo di Norimberga ed ebreo. “Tra trent'anni ci saranno statue di me in tutta la Germania”. 
Questa volta non è andata così. Ma sarebbe anche potuta andare diversamente. Magari tra quattrocento anni un mio discendente - o più facilmente un vostro, io probabilmente in questa storia manco sarei esistito - avrebbe potuto andare da turista a Berlino e mangiare un currywurst sedendosi su una panchina davanti alla statua di Goering, chissà. E avrebbe potuto non accorgersi di nulla: “è storia lontana, è passata” avrebbe pensato. O magari non l’avrebbe nemmeno pensato, distratto dalla normalità del mondo intorno a sé.
Ancora una volta per tanto penso che sia giusto celebrare la Giornata della Memoria, anche in una newsletter di un sito di cinema, parlando poco o nulla di cinema, per una volta. Ricordandosi per questa volta anche di Isabella, oltre che di Goering.
Ricordatevene anche voi. E state attenti a chi fate vincere: poi la storia diventa loro. Forse. Non lo so.

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