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Intersezioni: Godard e Visconti
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"La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza."

Queste erano le parole di Mao riprese dai giovani della cellula terroristica Aden Arabia nel corso del film di Jean-Luc Godard del 1967, La cinese. Ma ci sono almeno due motivi per cui la rivoluzione da loro propugnata non solo rimane confinata nel campo della pura idealità, è anche una finzione. In accordo coi paradigmi brechtiani, Godard fa mostra degli artifici che stanno dietro la messa in scena. Quindi fanno la loro comparsa sul profilmico gli operatori, la macchina da presa, persino i ciak. Gli attori spesso rivolgono lo sguardo verso la macchina da presa, e recitano in maniera quasi assente, denunciando la loro natura di attori totalmente estranea alle azioni e ai discorsi delineati sullo schermo. Il secondo motivo per cui la proposta rivoluzionaria dei giovani non è credibile è di tipo narrativo. C’è un profondissimo scarto fra l’impegno a favore dei proletari di cui i giovani pretendono di farsi portatori, e la flemma accademica con cui trattano il problema; come pure il loro credersi e fingersi degli emarginati bohémien, è in conflitto con uno stile di vita palesemente borghese, a partire dall’appartamento che viene gentilmente prestato loro per l’estate da una ragazza figlia di “padroni”, fino alla presenza di una domestica, che è sì pazientemente iniziata ai principi maoisti su cui si fonda il gruppo, ma è pure sempre trattata con modi lievemente classisti. Il film si svolge quasi interamente in interni: i giovani discettano di letteratura, teatro, politica internazionale, di cinema, e ovviamente di lotte di classe. Ma al profluvio di parole non corrisponde l’azione e soprattutto non corrisponde un progetto a lungo raggio. Intendono sì assassinare un ministro dell’ormai nemica Unione Sovietica, simbolo di un comunismo non più pericoloso per l’Occidente e per il capitalismo: ma non hanno idea del perché, non hanno idea del che cosa faranno dopo, non hanno idea del per chi lo fanno. Anche in questa azione, l’unica che negli effetti compiranno, risulta evidente il distacco rispetto alla questione operaia. L’ingenuità giovanile e l’indissolubile respiro intellettualistico, avulso dai problemi trattati, condannano l’esperienza della cellula a un fallimento probabilmente annunciato. Un difetto comune a certa sinistra, a tanta sinistra, è quello di non sporcarsi le mani con la materia trattata, di fraintendere i fatti, di lasciare che l’idea diventi ozioso panegirico al posto che azione, di credere che la propria urgenza specifica sia una urgenza universale.

Il barattolo di vermi va aperto dal di dentro, questo l’abbiamo capito. Le rivoluzioni che fermentano in ambienti estranei a quello della miseria collettiva e proletaria finiscono al massimo sui libri di storia (Godard nel suo film preconizza magnificamente premesse e risultati del Sessantotto), ma spesso non producono svolte nei rapporti di forza fra oppresso e oppressore. Eppure vent’anni prima una straordinaria sferzata sul tema era arrivata proprio da una personalità che per estrazione sociale è la più avulsa che si possa immaginare dalla dialettica operaia: il Duca più famoso della storia del cinema, Luchino Visconti. Il film in questione è ovviamente La terra trema. Il protagonista, ‘Ntoni Valastro, supera gli errori dei giovinastri godardiani. In primis, è parte attiva nella lotta di classe, non è un attore esterno al conflitto: è un pescatore facente parte di una stirpe di pescatori, che praticamente da sempre sono costretti a subire le vessazioni dei più forti. ‘Ntoni inoltre agisce rifacendosi a una legge di natura, antica quanto il mestiere di pescatore, antica quanto le scogliere di Aci Trezza, antica quanto l’uomo: il diritto all’uguaglianza.  Mentre il gruppo sovversivo di Godard scaturiva le proprie linee di pensiero e d’azione – più di pensiero che d’azione - da un evento storico, ovvero la rivoluzione culturale che aveva messo alla sbarra la parte considerata più conservatrice e remissiva del Partito, quindi da un fatto puramente umano, Valastro risale a qualcosa che esisteva già prima dell’Uomo. Da ultimo, ‘Ntoni esce fuori dalla sequela inenarrabile di sventure che colpiscono lui e la sua famiglia limpido come uno smeraldo. Non è il vinto verghiano, che dichiara la sua resa davanti al destino cinico e baro. Ma uno “sconfitto vincitore”, che sebbene schiacciato dal peso della Storia e anche dal peso dei propri errori, ha intravisto una smagliatura nel Sistema monolitico, ha scalato il primo gradino nella lunga e perigliosa salita. E ha anche chiara nella mente la soluzione. Prefigura in qualche modo il personaggio della Magnani in Bellissima, pure lei atrocemente scottata dal contatto col potente, con chi gestisce le regole del gioco, ma pure lei sicura nel suo agire, e vincitrice morale del film.

La diversità nello sviluppo e negli esiti, fra la rivoluzione violenta, pensata e subito abortita dai personaggi di Godard, e invece la rivoluzione non-violenta di ‘Ntoni è amplificata dagli elementi extradiegetici. Godard nei montaggi alternati quasi prende in giro i suoi studentelli sovrapponendo immagini di supereroi dei fumetti ai loro verbosissimi brainstorming: siete degli eroi finti che combattono contro nemici inesistenti (che difatti, nel film, non compaiono mai). Dall’altra parte, il commento parlato accompagna i pescatori nella ricerca del proprio angolo di paradiso: è il commento che faremmo tutti noi, quasi sempre non è necessario alla comprensione del testo, ma piuttosto funziona da duplicazione rispetto alla già scioccante forza dell’immagine. Inoltre, tanto è fatuo e improvvisato il montaggio di Godard, quanto è concreto, solido, geometricamente concepito quello del Luchinaccio. La stessa proporzione che sussiste fra la provvisorietà dell’esperienza del gruppo d’azione (e più in senso lato, dei movimenti giovanili) e l’eternità della lotta per l’autoaffermazione del debole e del povero, che silenziosamente e con compostezza si oppone all’autorità costituita.  

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