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The Last One. Questa è l’ultima recita.
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È giunta mezzanotte / Si spengono i rumori, / Si spegne anche l'insegna / Di quell'ultimo caffè.

Le strade son deserte / Deserte e silenziose, / Un ultima carrozza cigolando se ne va.

Il fiume scorre lento / Frusciando sotto i ponti / La luna splende in cielo / Dorme tutta la città

Solo va/ Un uomo / In frack

Così, Domenico Modugno, cantava nel 1955 la dipartita di un signore, un principe moderno, in L’uomo in frack. Oppure la Vanoni, che nel 1967, con un testo di Califano/Salerno coniava un topico dell’intercalare popolare italiano: “La musica è finita / Gli amici se ne vanno”. Sono queste le prime parole che mi vengono alla mente se penso all’ultimo saluto, l’ultima rapina, l’ultimo duello, l’ultimo viaggio, l’ultima sfida, il the last one di ogni attore che ad un certo punto decide che è ora di chiudere il sipario, spegnere le luci e ridare le chiavi al custode.

Amarezza, nostalgia, tenerezza, anche delusione e un po’ di rabbia, sono invece i sentimenti che mi si agitano dentro quando so, con ben conscia rassegnazione, che sto per assistere all’ultima recita di un grande attore. Uscire di scena non è da tutti. A molti, ai più, succede perché purtroppo se ne vanno via prima, a volte troppo presto, rubati a questo mondo dal destino. Altri invece, salutano le scene quando ormai credono di essere arrivati al momento giusto per farlo e, per parafrasare Peckinpah che fa se stesso in Pat Garrett & Billy the Kid (1973), ammettono stanchi, ma dignitosi: «Avanti, facciamola finita».

C’è una grande generazione di attori, inimitabili e inarrivabili, nati negli anni ’30 del Novecento e diventati icone cinematografiche in un’epoca di rivoluzioni e cambiamenti sociali e culturali così forti da non poter essere in alcun modo rimpiazzati nel contemporaneo. Erano gli ultimi anni ’60 e per tutti i ’70 hanno fortemente inciso sull’immaginario mondiale, non solo occidentale, sconfinando il mondo cinematografico e penetrando nel tessuto sociale, culturale, politico, ludico e popolare dell’uomo moderno.

Questi giganti, oggi, hanno tra gli 80 e i 90 anni, qualcuno di meno, qualcuno di più – Kirk Douglas, di una generazione precedente, ha ormai toccato i 102 anni – e tutti, nessuno escluso, riflettono sul proprio ruolo all’interno dell’industria cinematografica e, per esteso e per mano di critici e studiosi vari, riflettono anche sul significato del loro corpo attoriale nell’immaginario contemporaneo interrogandosi su vecchiaia, salute, morte, eredità e testamenti ideologici come estetici. Quasi tutti decidono di restare in scena finché il diavolo non verrà a tirargli i piedi di notte, come l’inossidabile Robert Duvall (1931) o come Harrison Ford (1942) che a quasi ottant’anni è ancora un action hero o come Pacino (1940), Caan (1940), Hoffman (1937), Hopkins (1937), Freeman (1937), Kristofferson (1936), Caine (1933); qualcun’altro invece, annuncia l’addio alle scene con la saggezza e l’umiltà che il mestiere gli ha regalato.

A seguire, i grandi attori che si sono congedati dal grande pubblico interpretando il loro ultimo ruolo, l’ultima battuta, l’ultimo sguardo alla loro ultima recita.

Sean Connery (1930), in The League of Extraordinary Gentlemen (Stephen Norrington, 2003).

A tre anni da questo pastiche letterario e cinematografico tratto dalla celebre graphic novel, Sir Sean Connery, l’inossidabile agente 007 ha ufficializzato il suo ritiro dalle scene durante la consegna del premio alla carriera agli American Film Institute Awards del 2006. Nel film di Norrington ci regala un’interpretazione giocosa e gigionesca, anche se stanca, diciamolo. È stato comunque uno dei più grandi interpreti del secolo.

Gene Hackman (1930), in Welcome to Mooseport (Donald Petrie, 2004).

Purtroppo è uscito di scena troppo presto. Eugene Allen Hackman, dopo averci regalato un’intera carriera di alto livello, con The Runaway Jury (Gary Fleder, 2003) ci regala il suo miglior testamento: un villain mefistofelico a rappresentanza di tutti i suoi grandi bastardi interpretati lungo l’arco di una lunga carriera iniziata comunque non giovanissimo – esordisce nel 1961 a 31 anni in televisione, per approdare al cinema nel 1964 con Lilith (Robert Rossen), tra l’altro la prima delle cinque nominations agli Oscar, di cui due meritatamente vinte – nel 1972 per The French Connection (William Friedkin, 1971) e nel 1993 per Unforgiven (Clint Eastwood, 1992) – e una strappata al fotofinish dall’amico Dustin Hoffman nel 1989 per Rain Man (Barry Levinson, 1988), quando avrebbe meritato la statuetta per il suo Rupert Anderson di Mississippi Burning (Alan Parker, 1988).

Con Welcome to Mooseport ci saluta con una commedia leggera che senza l’apporto gigantesco dell’attore californiano sarebbe stata insulsa e facilmente dimenticabile. Un addio non annunciato, ma che era già nell’aria. Infatti nelle interviste rilasciate durante la lavorazione di The Runaway Jury, interviste doppie al fianco dell’amico Dustin, Hackman ammette di essere stanco e deluso. Nei film ormai c’è troppa violenza, diceva, e questo lo sconfortava. Solo a qualche anno di distanza e di inattività decide di annunciare il suo ritiro. L’annuncio risale al 2008, durante la promozione del suo terzo romanzo, Escape from Andersonville: A Novel of the Civil War (St. Martin’s Press, 2008) e da quell’anno siamo davvero orfani del più grande attore di sempre.

Jack Nicholson (1937), in How Do You Know (James L. Brooks, 2010).

Una delle migliori maschere del secolo, Jack Nicholson, a parte la partecipazione a The Departed (Martin Scorsese, 2006), si era ormai lanciato in commedie romantiche e leggere, tornando anche a lavorare per il suo ultimo film con un regista a lui caro, James L. Brook. Degli ultimi anni della sua carriera ci restano soprattutto i ruoli a lui più congeniali regalatici con le performance di La promessa (Sean Penn, 2001) e A proposito di Schmidt (Alexander Payne, 2002) oltre a The Departed. Nel 2013 l’annuncio di meritato pensionamento, ritrattato poi nel 2017 in previsione della partecipazione al remake di Vi presento Toni Erdmann (Maren Ade, 2016), partecipazione ritrattata nel 2018 per motivi sconosciuti. Ad oggi Nicholson, si gode la pensione.

Cameron Diaz (1972), in Annie (Will Gluck, 2014).

C’è anche una donna in questo gruppetto di veterani attori della grande Hollywood che fu. E che donna. Cameron Diaz, bellissima e versatile attrice degli anni ’90, protagonista delle commedie americane che hanno cambiato le regole del genere, partendo dall’esordio con The Mask (Chuck Russell, 1994) fino a Very Bad Things (Peter Berg, 1998) passando prima per il cult There's Something About Mary (Farrelly Bros., 1998), annuncia il ritiro ad inizio 2018 sottolineando che non avrebbe preso parte al sequel di The Sweetest Thing (Roger Kumble, 2002). Le motivazioni sono varie, tutte riconducibili allo stress che l’attrice affronterebbe ogni volta che deve spostarsi per lavoro quando preferirebbe pensare alla sua vita come una donna normale. Come darle torto? Ma a noi spiace non rivederla più, soprattutto dopo quello che credo essere il suo ruolo più iconico, il ruolo che fa una carriera, quello della donna del faccendiere malavitoso Javier Bardem in The Counselor (Ridley Scott, 2013).

Daniel Day-Lewis (1957), in Phantom Thread (Paul Thomas Anderson, 2017).

Pur non appartenendo ai vegliardi di almeno due generazioni prima, è un ritiro che fa clamore. Un grandissimo attore, celebre per ruoli che hanno fatto la storia del cinema mondiale, come My Left Foot: The Story of Christy Brown (Jim Sheridan, 1989), The Last of the Mohicans (Michael Mann, 1992), In the Name of the Father (Jim Sheridan, 1993), Gangs of New York (Martin Scorsese, 2002), There Will Be Blood (Paul Thomas Anderson, 2007), che decide di andare in pensione improvvisamente, annunciando il ritiro a riprese ultimate del suo ultimo film perché prima non lo sapeva, lascia sempre attoniti. Ci ha comunque abituati a piacevoli rentrée dopo lunghi periodi di assenza del grande schermo, come tra The Boxer (Jim Sheridan, 1997) e Gangs of New York o tra Lincoln (Steven Spielberg, 2012) e appunto The Phantom Thread, ma questa volta sembra davvero essere l’ultimo saluto. Jim Sheridan, pensaci tu…

Clint Eastwood (1930), in The Mule (Clint Eastwood, 2018).

Non c’è nessun addio annunciato, ma la più grande icona cinematografica vivente, Clint Eastwood, aveva già detto di non voler più tornare davanti alla macchina da presa già nel 2008 in occasione di Gran Torino, per poi tornare a sorpresa nel 2012 con Trouble with the Curve (Robert Lorenz), dove di nuovo aveva affermato come questo fosse davvero il suo ultimo ruolo. Poi, ci è ricascato. È anche vero che tutti lo rivogliono in scena e questo l’avrà spinto a trovare la storia giusta, e l’ha trovata. Un vecchio camionista in pensione che ha trascurato la famiglia, con una vena razzista e wasp che lo percorre da sempre nell’intimo, si trova catapultato in un mondo completamente nuovo, quello del narcotraffico messicano. Lo scontro tra due culture e due mondi non può che portare alla riflessione. Come il Walt Kowalski di Gran Torino, anche l’Earl Stone di The Mule farà i conti con se stesso. E sappiamo bene che i conti che fa Clint Eastwood sono i conti che l’America bianca e repubblicana fa con se stessa da sempre, nonostante il regista e attore californiano abbia votato e sostenuto Trump. Sarà poi davvero l’ultimo ruolo? Ha 88 anni, e tra le battute ricorrenti con cui si sta pubblicizzando il film, una mette i brividi: “This is the last one”. Sa già di testamento.

Robert Redford (1936), in The Old Man & the Gun (David Lowery, 2018).

Un’altra icona hollywoodiana di un’epoca di rivoluzioni e nuovi immaginari, Robert Redford, ha deciso di ritirarsi dalle scene. L’annuncio è stato fatto in occasione dell’ultimo film, The Old Man & the Gun, dove interpreta un vecchio rapinatore di banche gentiluomo, ammirato anche dal poliziotto che gli dà la caccia da sempre. Sceneggiatura facile? Déjà vu? No, pura cronaca. È la storia di Forrest Tucker che David Grann del New Yorker raccontò nel 2003 e che fece subito il giro di tutta l’America come al solito affamata di storie di vita grandi e bizzarre come il paese stesso – così come quella di Earl Stone che rivive in The Mule. Redford è il vecchio con la pistola che fa innamorare di sé Sissy Spacek e anche le vittime delle sue rapine. Siamo nei dintorni di Vanishing Point (Richard Sarafian, 1971) o The Sugarland Express (Steven Spielberg, 1974) o Convoy (Sam Peckinpah, 1978)? Forse. Sicuramente è il miglior modo per Redford di uscire di scena: con il sorriso, impeccabilmente elegante e pacifico, ma sempre controcorrente.

Sarebbe entusiasmante sapere che qualcuno abbia i mezzi e la persuasione per rimettere in pista questi pezzi da 90, in tutti i sensi vista l’età, per un ultimo film insieme. Cosa diavolo non sarebbe un film con Hackman, Eastwood, Kristofferson, Connery, Duvall, Hoffman, etc? È anche vero che dopo onorate e straordinarie carriere non possiamo chiedere a un uomo o a una donna di 90 anni di sostenere i ritmi del set, lo stress della vita pubblica e la mancanza di intimità in un’età in cui la fisiologia si accanisce sul nostro corpo. È bello pero pensare, sperare, sognare di rivederli ancora.

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