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Excellent, Gérard!
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EXCELLENT, GERARD!

 

Mentre scrivevo il post su Delon, non riuscivo a scrollarmi di dosso la figura imponente (in tutti i sensi) di Depardieu. Scrivere un post su Delon porta, quasi inconsapevolmente, ad affrontare la figura di questo grande attore francese. Come sono solito fare, questo post non vuole assolutamente abbozzare un profilo critico, in certa parte scontato. A me interessa cercare di parlare di Depardieu in modo per quanto possibile slegato dalla galleria critica delle sue interpretazioni. Questo compito lo lascio ad altri.

Anzitutto, chi è il vero Depardieu? E’ Olmo, il ragazzo di campagna, rozzo, sanguigno di NOVECENTO? O è invece il vicino di casa romantico e appassionato di LA DONNA DELLA PORTA ACCANTO o il poliziotto rude, brutale ma anche sorprendentemente sensibile di POLICE oppure il giovane e fragile René, chiamato ad un compito (direttore di fabbrica) per il quale si sente inadeguato? E’ il poeta Cyrano, poeta prigioniero in un corpo non affascinante, oppure il rivoluzionario Danton amato dal popolo che si diverte a umiliare l’incorruttibile nel film omonimo, oppure ancora lo struggente Conrad, vecchio, malato di A SMALL WORLD di Bruno Chiche?

Gérard non proviene dalla borghesia, ma dal popolo e queste sue origini sono il segreto o uno dei segreti delle sue interpretazioni riguardanti i vari personaggi popolari della sua carriera.

Quando, ad esempio, interpreta Danton, diretto da Wajda, non mi viene in mente un altro attore in grado di interpretare meglio quel personaggio storico. Quando Danton affronta Robespierre, ne mette a nudo le debolezze, i difetti patologici e l’abnorme distanza fra il rigorismo giustizialista e l’incapacità di capire il popolo, quel popolo che egli dice di difendere a tutti i costi, anche a costo di ghigliottinare mezza Francia. Danton lo smaschera e lo deride, provocandone la fredda vendetta. Come si può non amare alla follia questo attore quando si difende davanti ai giudici cui è stato ordinato di condannarlo a morte e lui invece si erge a vero protagonista mettendo in stato d’accusa lo stesso tribunale rivoluzionario, suscitando il delirio di un’intera folla che decide in pochi istanti da che parte stare. Un’interpretazione memorabile.

Come si può non abbracciare il buon Renè Ragueneau di MIO ZIO D’AMERICA di Alain Resnais, e provare grande empatia per questo ragazzo dolce, chiamato a dirigere una fabbrica con delle innovazioni tecnologiche che egli non è in grado di gestire, abituato com’è a un tipo di fabbrica dal volto umano e non una macchina infernale che tutto stritola e devasta? Quel giovanotto di campagna, gentile, educato e deriso, umiliato da un capo che lo demolisce poco a poco e gli spiattella tutta sua inadeguatezza, siamo noi, siamo ancora i (pochi ?) umani ancora esistenti. Un film modello in cui la filosofia si allea magistralmente con la settima arte.

E’ questo il tipo di personaggio che amo di più, quello anche, per capirci, del buon Conrad, disconosciuto da una madre opportunista e costretto a una vita di umiliazioni, solo perché nato quando non doveva, per le ambizioni di una madre degenere, capace di affidarlo ad un’altra persona e dichiarare figlio suo invece la creatura nata dalla relazione fra lei e il ricco Arthur. Quel Conrad, divenuto un peso per tutti, per le sue origini, per le sue stranezze, trova un’inaspettata amica in Simone, la moglie dell’erede, che si prende cura di lui, ormai aggredito dall’Alzheimer, ma ancoracapace di far riemergere lontani ricordi che ristabiliranno la verità.

Vedi quest’uomo, prigioniero di un corpaccione inverecondo, relegato ai confini del decoro umano da miserie morali orrende, ancora capace di provare sentimenti, di non provare rancore, condannato dalla malattia al buio della conoscenza, eppure capace di rinnovare giorno per giorno le sue piccole abitudini, le sue emozioni, che trova nel suo ritorno all’essere come un bambino i propri ricordi di bambino che saranno come lance nella coscienza di chi lo ha rinnegato come figlio e come fratellastro.

 

Depardieu non gode di una reputazione specchiata in Francia. Anche da noi si conoscono le sue stranezze, come quella di prendere la cittadinanza russa, orgoglioso della sua amicizia con Putin, o quella di trasferire la sua dimora appena al di là del confine col Belgio, per sottrarsi al fisco. Si conosce la sua infanzia turbolenta, si conosce la sua passione per il vino (possiede un podere a Pantelleria), si conoscono le sue donne, la sua esuberanza, ma tutto questo non impedisce che la gente lo ami ancora e si riconosca in lui in alcune delle sue interpretazioni più note e amate come LA SIGNORA DALLA PORTA ACCANTO. Depardieu è un po' l’uomo medio, non certo come Delon che, appena si presenta, espone quasi arrogantemente la sua avvenenza, il suo glamour a cui il successo arride quasi senza sforzo, mentre Gérard capisci che si è dovuto fare largo a spintoni per farsi avanti. Delon è il francese che assapora in punta di forchetta, mentre Gérard è colui che s’ingolla a tutto spiano baguette spalmate di burro, incurante di diete e consigli medici. E’ un Danton de noantri, appassionato, volgare, rozzo e gaudente, pieno di gioia di vivere, un Olmo Dalcò che sta tra la gente e la difende anche a costo di prendere a badilate i signorini e i signoroni “dali beli braghi bianchi” della villa accanto che si prendono senza fatica i raccolti, lasciando ai braccianti le briciole.

 

In Italia, si conosce Gérard, senza ombra di dubbio, ma non lo si conosce forse come lui meriterebbe. Tranne quei tre o quattro titoli (quelli commercialmente più di successo), il grande pubblico non ha visto molto altro. Il pubblico italiano, l’ho già scritto altre volte, non ama il cinema francese. Lo giudica noioso, verboso, poco interessante, altezzoso.

Da un punto di vista puramente cinematografico, sono d’accordo solo in parte. Le commedie francesi, ad esempio, non mi appassionano. C’è un senso dell’umorismo che qui da noi non funziona. Sono commedie che, a differenza di quelle italiane, cercano di evitare la volgarità gratuita e i localismi e si basano soprattutto su intrecci amorosi e su situazioni paradossali. Ma da noi, il pubblico è più smaliziato e le situazioni sono più crude, spesso condite di sarcasmo. Questo rende le nostre commedie meno raffinate ma preferite dal grosso pubblico. Un genere che invece da noi quasi non esiste, se non nelle fiction tv, sono i polizieschi, che invece godono in Francia di molto favore, come ad esempio i famosi “polar”, eredi della grande tradizione francese di Melville, Giovanni e Becker, dove ora eccellono autori come Marchal, fra gli altri. Ma quanti, da noi, conoscono i suoi film? Forse il peso peso della fu Nouvelle Vague è troppo oneroso e ancora non si intravedono autori, quelli veramente notevoli sono ormai vecchiotti (Pialat, Assayas, Philippe Garrel, Duras, Besson e Leconte). Poi magari scopri giovani registi come Lucas Belvaux con SARA’ IL MIO TIPO? o Christophe Barratier con LES CHORISTES e nutri la speranza che qualcosa si muove. Il problema è che Claude Sautet non c’è più e non riesco ad accettarlo.

Non mi avventuro in considerazioni extra-cinematografiche perché il terreno è minato. D’altronde qui abbiamo ben poco di cui vantarci.

 

 

 

 

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