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Storie di sport, cinema e politica. Adriano Panatta e Tony Manero
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Nel 1976 Tony Manero (quello americano) è un ragazzone che guarda le donne e non scruta il futuro. È un italiano che vaga e tarantola, morso dal ballo. Nel 1976 i Bee Gees stanno scaldando le ugole, in vista dei futuri gorgheggi. Nel 1976 il Cile è un paese malato (di febbre, gravissima febbre politica, non necessariamente confinata alle opache speranze dei sabati sera) ed il Tony Manero cileno è un mediocre che non si occupa di politica, ma che la politica ha reso strumento inconsapevole del potere, un parvenu senza le contrite speranze dei parvenu, un uomo che attende sereno un’icona di riscatto. La troverà di lì a poco, in quel giovanotto americano che si dimena, lucertola al sole delle luci stroboscopiche. È il 1977: sarò come lui, si dice il cileno dalla faccia color sabbia delle Ande. Sarò io quello che gli somiglia, il volto esportabile del Cile, l’America (non Lamerica, che verrà molto più tardi) che vince i concorsi della disperazione travestita da lustrino. Nel 1976 l’Italia è paese ad alto tasso di consenso plebiscitario: DC, PSI, PCI si reggevano ancora, prima che un ragazzo di Crotone ne decretasse la satirica fine. Andreotti governa, domina, regge fila e poltrone. Demanda, rimanda, ascolta senza decidere e decide senza ascoltare. Nel 1976 l’Italia è piccolo feudo delle grandi potenze, di fronte al quale si pone una scelta di coscienza; perché, in una delle provincie del feudo, un ragazzo con i capelli lunghi, la mano calda e il polso fermo, declina tennis e bellezza, incanta donne ed altri sessi, piroetta su campi verdi e di terra battuta. Lui ed altri compari degnissimi. Nel 1976 la nazionale italiana di tennis deve giocare la finale Davis in territorio cileno. Primo: che fare? Secondo: a chi lasciare la scelta? Terzo: come combinare esigenze di realpolitik internazionale con il sano sentimento popolare, quello che fa cantare la gens italica, da Verdi a Mario Merola?

 

 

In una Santiago livida e fuligginosa, si aggira un personaggio che ha le movenze dei mustelidi. Piccoli furti, che esplodono presto nell’omicidio, noia esistenziale poco sartriana, molto mediocre. Un uomo che soffre e non sa di soffrire, paradigma di una società che ha appaltato i pensieri al pensiero militare, un uomo che tenta di amare e non ci riesce, impotente come ogni suo simile. Settembre 1973: il Cile ha perso uno statista leggero ed un poeta virtuosissimo. Allende, Neruda, Pinochet. Le cose cambiano, le cose insegnano, le cose non imparano (arriverà Videla, di lì a poco, poco lontano. E saranno nuovi tragicomici interrogativi sul ruolo dello sport: oppio dei popoli? Territorio cuscinetto? Volano di riscatto socioeconomico? Farsa da non assecondare?). Il Tony Manero del Cile, nel 1979. Se non vinco il concorso per sosia non mi ammazzo, no. Non ammazzo. Mi siedo su una panchina, prendo un tram e lancio il mio sguardo nel vuoto, a riflettere sul nulla che mi circonda, sul nulla che io stesso sono, sui compatrioti, sulla politica. E tutto questo senza pensare poi troppo: pensare fa male, agire è meglio. Io ho agito e ho perso, non son degno della mia patria di vincenti. Panatta (e Bertolucci e Zugarelli e Barazzutti) avevano intanto vinto, 3 anni prima. A Santiago c’eravamo andati, a esportare bellezza triste, a far rimbalzare le palline del cerchiobottismo. Decida la Federazione Italiana Tennis (Acquaiolo, l’acqua è fresca?). Andreotti ed il CONI non possono perdere tempo e fiato in polemiche. A quelle ci pensano i giornali, i pro e i contro, gli innocentisti ed i colpevolisti, quelli che non possono tollerare il generale Pinochet, quelli che non sanno chi è Pinochet, quelli che tanto sono tutti uguali, quelli che basta sentire l’inno nazionale e non le urla dei desaparecidos. Sabato 18 dicembre 1976: Panatta batte Cornejo. 2-0 per noi, è quasi fatta. Saturday night fever, a noi non ci fotte nessuno, tantomeno una dittatura militare. Stayin’ alive: non è vero , Tony Manero di tutto il mondo, perdenti sognatori di ogni latitudine?

 

Mimmo Calopresti ne avrebbe fatto un documentario. La resilienza, la resistenza, la differenza della spedizione tennistica italiana rispetto al regime di Pinochet la fece una nota di colore, semplicissima, più che discreta, bella nella sua capacità di parlare senza parole inutili, quelle che si erano già spese a profusione. Una maglietta rossa. Panatta indossò una maglietta rossa, sul campo di terra battuta (rossa). Poi anche gli altri. Una maglietta rossa contro il caos, contro il nero del regime e delle anime, contro una guerra ampiamente in corso, che esplodeva proiettili invisibili, che inquinava le limpide acque di ogni pensiero antagonista, che bruciava ogni residuo di resilienza, resistenza, speranza (un falò senza fuoco, non rosso, senza colore. Triste, tetro nella sua convinzione di onnipotenza). Gli italiani non videro quella maglietta rossa. Non la videro in tv, probabilmente non la sentirono nemmeno raccontare. Il cerchio e la botte dell’italico discernimento furono ampiamente saccheggiati: l’Italia beghina, bigotta, timorosa, l’Italia andreottiana dei silenzi rumorosissimi e delle parole come temibili battiti d’ala scelse (mercé la RAI-TV, lottizzata ca va sans dire) di mandare in onda una sintesi delle gare, commentata dall’algido Guido Oddo. Top spin di Panatta, dritto di Bertolucci, rovescio a due mani di Barazzutti. Cronaca, perché la storia si faceva fuori dallo stadio. La storia era un paese a brandelli, un’idea di patria deviata e deviante, un capo, un pifferaio magico, un popolo anestetizzato con o senza brutalità. Quel commento era il compito inevitabile affidato ad un qualsiasi impiegato non di concetto: la faccio ma non vorrei, la faccio perché devo. Era l’italianissima arte di arrangiarsi, l’onorare gli dei del compromesso. Non sappiamo perché siamo qui, ma ci siamo e dobbiamo raccontare. Forse di stessa matrice era anche quella maglietta rossa: un compromesso, tuttavia un po’ più elevato perché figlio di una scelta (cromatica e non) che appariva sincera, che sparigliava i sofismi dei tartufi di ogni appartenenza, le partigianerie, le consorterie, le convenienze. Dove non poté la politica, l’intelletto, il coraggio della scelta radicale, in un senso o nell’altro, poté un accessorio di abbigliamento. Siamo qui per sport, e lo sport è capace di testimoniare. Muto, senza orpelli. Danzava quella maglietta rossa nel 1976. Danzava quel ballerino impazzito, nel 1977, vestito di bianco. Danzava quell’essere inutile, nella Santiago del Cile del 1979. Ancora vestito di bianco, un colore totalmente incongruo, una presa in giro alla Storia, un affronto alla leggerezza che non c’era, un canto di speranza maledetta e malata. Lentamente muore chi preferisce il nero su bianco, diceva Pablo Neruda. Forse immaginava, ma ancora non sapeva.  

 

 

 

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