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TOHorror Film Fest 2018. Toccata e fuga.
di M Valdemar ultimo aggiornamento
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Si tiene a Torino (un mesetto prima del più noto TFF), si ispira – per bocca degli stessi organizzatori – al Sitges, è misconosciuto e piccolo, si è appena concluso con verdetti invero prevedibili come il due di picche quando lei ti scambia per un pezzo di arredo, raccoglie una compatta fauna umana assetata di sangue, splatter, arti mozzati, apparizioni fantasmatiche, manifestazioni soprannaturali, anticristi e diavolacci vari: è il TOHorror Film Fest, giunto quest'anno alla diciottesima edizione.
Un festival adulto, quindi.
Mah, anche no. Si sa: l'horror brama corpi freschi e menti acerbe di giovini non propriamente sveglissimi, ecco.
Dunque. Roba in concorso, altra fuori, corti ed eventi e incontri al BLAH BLAH, una sala piccola (150 posti) per le proiezioni, premi e premietti.
Di puro horror, in realtà, se n'è visto poco. Per quello, d'altronde, basta accendere la tv, o lo smartphone, o buttare lo sguardo sulle prime pagine dei quotidiani. Tipo vedi la faccia del nostro Ministro delle Interiora e ai bambini non ordini di andare a letto ma di emigrare direttamente in un universo parallelo. Meglio l'ignoto finanche di un buco nero che quella Cosa lì.
Ma conta lo spirito: deathpunk anarcoide al punto giusto, con aperture sinfoniche e sospensioni art rock.
Splendida la sigla di apertura, fottutamente spassoso il sistema di votazione del pubblico: dei denti («prelevati dagli spettatori delle edizioni precedenti», ci tengono a precisare) da gettare nel barattolo corrispondente al giudizio (a occhio, direi: film di merda, film così così, merce buona).
Io non ho lasciato né molari né canini né denti del giudizio (non avendone granché, peraltro). Giusto un dito medio grondante rosso sangue (mai avrei immaginato fosse così arduo digitare i tastini sulla tastiera del pc, senza).
Visti otto film in due giorni … Ben allenato ai ritmi infernali dei festival di Torino e Udine, mi è parsa un'amena scampagnata durante il quale praticare la nobile arte del gnocca-watching.
Eh. Dalla commedia nera al fantastico al thriller psicologico al pulp nostalgico all'impensabile teorico. Cose brutte, articoli sconclusionati, un paio di perle. Di cui una già vista proprio al FEFF: il ritorno sul luogo del delitto è un classico.
Purché il delitto riguardi qualcuno di voi e non il sottoscritto, per dire.
Di seguito elenco i titoli a cui ho assistito, ebbro di febbrili visioni e lebbrose delusioni, con relativo breve commento nonché insindacabile voto finale espresso con complicatissimi algoritmi quantistici che manco Einstein avrebbe esternato o starnutito.
Da 1 a 10.
[mi serve come promemoria, ché oltre a una cronica scemaggine s'aggiunge un inibente inebetimento. Non fracassate l'arcata dentale]


[Aggiunta. Nota extra-festival.
Cominciando le proiezioni alle ore 16, ho avuto l'opportunità di vivere un po' la città nelle ore mattutine. Le vie del centro, chiese, sinagoghe, palazzi storici, mercatini, parchi, il lungofiume ... Splendida davvero, Torino.
Doverosi i ringraziamenti all'infaticabile-instancabile-indistruttibile Roberto/Roger Tornhill, perennemente in ritardo anche se non deve andare da nessuna parte. Saluto inoltre la pattuglia cinefila col quale ho condiviso film e nottate nonché mangiate e bevute all'insegna del puro salutismo (ehm ...), tra cui gli amici Fabio/Alan Smithee e Fabio/Port Cros (potete leggere le loro recensioni qui sul sito), e quelli del "cerchio magico" perugino del vulcanico Giuseppe (già Ohdaesoo): Vieri, Paola, Vincenzo, Alice, Stefano ... Rimarrà ancora per un po' nella mia testa l'interrogatorio notturno da parte del poliziotto cattivo e del poliziotto più cattivo (Giuseppe, Vieri, una coppia (anche di fatto? ...) esplosiva) alla "povera" Alice, deliziosa, che, stoica e per nulla intimorita, rispondeva colpo su colpo. Colpita semmai la mia faccia, ora stranita ora interessata ora sperduta ora alienata. Un po' come trovarsi a guardare un film filippino sottotitolato in ci-rillico. Alla prossima.]


[i Quattro dell'Ave Maria. Da sinistra a destra: Roberto/Roger, Fabio/Alan Smithee, il sottoscritto, Fabio/Port Cros]




1 - Pig. [Concorso]
Una black comedy iraniana che dalla sinossi (il regista finito nella lista nera si ritrova invischiato nella caccia al serial killer di registi) sembrava promettere mari e monti e monti e mari e invece si rivela un'estenuante, tediosa, verbosa sarabanda troppo lunga di stranezze assortite, colpi di scena stitici, risoluzioni che perplimono oltre il dovuto, riflessioni politiche perlopiù pretestuose, tempi morti mortificanti, rari guizzi. Simpatico il protagonista, interessante il contesto sociopolitico, ma davvero troppo poco per salvare un'opera sostanzialmente insignificante.
Voto: 3.


2 - St. Agatha [Concorso]
In sala erano presenti il produttore-attore Seth Michaels e la co-sceneggiatrice italiana Sara Sometti. Spiace (vabbè, si fa per dire, su …) essere così tranchant proprio nel giudicare la scrittura di St. Agatha. Dilettantesca, a larghi tratti, involontariamente ridicola, incredibilmente scombinata (a memoria si contano almeno cinque-sei scene che lasciano di stucco per la faciloneria e l'approssimazione). Oltre a ciò, cliché a non finire in tema di suore-cattivissime-che-fanno-cose-brutte-brutte: l'ambientazione del convento isolato pregno di rumori inquietanti nel quale accadono cose inquietanti e le pie donne fanno facce inquietanti è una (quasi) inquietante pagina bloccata sul catalogo di déjà-vu copincollato dal web. Darren Lynn Bousman, il regista di qualche Saw, evidentemente retrocesso, cerca di ridurre un po' il carico fognario calcando la mano sulle atmosfere e le inquadrature ma frana pure lui in flashback didascalici fuori fuoco. Inoltre spicca (quasi) per assenza di presenza scenica la protagonista, scopa rinsecchita buona al massimo per agitare le foglie cadute.
Che sòla.
Voto: 2.


3 - One Cut of the Dead [Concorso]
Pom! Ne avevo già cantato le lodi in occasione del FEFF. Rivistolo (il vero cinefilo ama zombeggiare in eterni giorni della marmotta), non ho potuto che constatarne la complessità teorica unità alla chirurgica demenzialità. Prevedibilmente ha vinto il primo premio. Sala in giubilo, campane a festa, divertimento assicurato e garantito. Non mi dilungo oltre ché già ne scrissi. Ah, sarà a breve distribuito nel nostro Paese. Il 7-8-9 novembre. Titolo: Zombie contro zombie.
Devono morire male (e non tornare in vesti zombesche) …
Voto: 8.

scena

Zombie contro zombie (2017): scena



4 - Housewife [Fuori Concorso]
Non disperata né nemmeno casalinga, a dirla tutta. Ad ogni modo, il film diretto da Can Evremol, regista turco dell'acclamato Baskin: La porta dell'inferno è un Frankenstein di membra e filamenti e organi prelevati un po' ovunque, nel panorama horror. Parte in una direzione, ne prende altre, ne fa intravedere altre ancora, si perde, svia, aggiunge e aggiunge e ancora aggiunge elementi. Un corpo segnato dall'accumulo confuso e convulso di materiale di risulta fino a giungere a una posticcia coda che evoca riti e venute innominabili. Ma poi: il capo della setta ispirata a Scientology ha il carisma di una lucertola stecchita al sole, gli eventi traumatici a inizio film lasciano intendere tutt'altro perdendosi per strada, il gioco tra realtà e fughe oniriche è vacuo, l'andamento singhiozzante e la narrazione pesante. Notevole solo, in un cast di attori turchi, la protagonista francese Clémentine Poidatz, bellissima.
Voto: 3.

 


5 - Dhogs [Concorso]
Mmhhh. A molti è piaciuto. Il finale, va detto, è veramente bello e ha il merito di far quadrare conti ed ellissi narrative, oltre che portare a compimento uno studio condivisibile sull'animalesca natura umana nell'epoca dell'impero delle immagini, sugli irrefrenabili impulsi voyeuristici che abitano l'uomo, governandone azioni e decisioni. Furbesca e di fin troppo facile lettura la presenza del finto pubblico in sala che assiste alla visione (noi che guardiamo loro guardare ecc.). Però l'intero impianto non convince, perché troppo prima si è lasciato alla deriva, con una gestione dei tempi zoppicante, con un assemblaggio forzato di elementi utili unicamente allo sviluppo della tesi, con una rappresentazione fallace che si autogiustifica e autoalimenta i livelli. Di letture e del gioco. Buono il girato (il segmento “western” in particolare), ma nulla che lasci gridare al miracolo.
Voto : 5.


6 - Tigers are not afraid [Concorso]
Che botta. Non ha paura, la messicana Issa López, “protetta” di Guillermo del Toro, di comporre una meravigliosa favola nera intrisa di bellezza ferina e dolce orrore, innocenza e violenza, tragicità e poesia: il suo (l'autrice scrive, produce, sceneggia) è uno sguardo autentico, profondo, sul mondo del narcotraffico riflesso sugli/dagli occhi dei bambini, ovvero le vittime primarie di quel marciume (brutalmente lucido il modo in cui i piccoli convivono con la "normalità" della mostra delle atrocità quotidiane, come riconoscere il rigor mortis di un corpo o assistere, impotenti e rassegnati, all'indifferenza della polizia), attraverso un côté fantastico intenso, sempre equilibrato e drammaticamente realistico. Una rappresentazione toccante, coinvolgente, di sequenze che sconquassano l'intestino e momenti di potentissima grazia. Tigers are not afraid è un film splendidamente scritto e inscenato, in ogni sua componente. Straordinari i bambini attori (indimenticabile la faccia "vissuta" di El Shine). Imperdibile.
Voto: 8,5.

scena

Tigers Are Not Afraid (2017): scena

scena

Tigers Are Not Afraid (2017): scena



7 - Lassez bronzer les cadavres [Fuori Concorso]
La celebrata coppia Cattet/Forzani (Amer, Lacrime di sangue) ritorna con quest'oggetto iperstilizzato che porta all'estremo un cinema già squilibrato e borderline. Tratto dal romanzo omonimo del 1971 (cosa avrà preso, tre righe di trama?), in Laissez bronzer les cadavres l'atto del ripetere (riprese, scene, azioni, inquadrature, punti di vista) è un salvacondotto autoassolutorio per il parossistico caleidoscopio pulp di immagini e suoni e facce che deviano la sporca faccenda di una rapina di lingotti d'oro verso un non-luogo (stra)fatto e ingordo di roba “forte”. Che alla lunga (cioè dopo una mezz'ora) stanca e ammorba. Buone alcune sequenze, bella l'ambientazione, numerosi i richiami e gli omaggi (dal giallo all'italiana al cinema bis, dal western a Tarantino, da Carpenter all'arte dei videoclip), azzeccata la galleria di corpi e volti (da segnalare la Stéphane Ferrara protagonista di erotici anni ottanta, in formissima). Ma è un involucro dalla patina bronzata dell'oro costantemente esibito che non riesce a non celare il nulla di cui è ripieno.
Voto: 4.

locandina

Let the Corpses Tan (2017): locandina

scena

Let the Corpses Tan (2017): scena



8 - Dog [Fuori Concorso]
Ancora cani. Bau bau. Esplorazione dell'indole cagnesco-canina presente nell'essere umano (di fantozziane rimembranze). Sfortuna (eufemismo) e asservimento totale descrivono il percorso allegorico di un'involuzione che conduce a una condizione inumana. L'iniziale registro comico/grottesco (fulminante la morte del chihuahua che «somiglia a Hitler») lascia presto spazio (troppo) alla discesa negli abissi del protagonista, un gorgo di disperazione e incattivimento che inghiotte ogni residuo di empatia e fagocita il film. Assai bello invece il finale poetico, dalla doppia possibile interpretazione (allo spettatore la scelta).
Voto: 6.




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