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Venezia 2018: Giorno 5
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La domenica al Festival di Venezia rappresenta da sempre il giorno in cui tutto cambia: è il giro di boa per eccellenza, quello che apre le danze verso la cerimonia finale di sabato prossimo. I titoli in concorso iniziano a scemare e la pazienza di chi sta in coda per le proiezioni comincia a venir meno. I ritmi si mantengono frenetici ma arriva una sorta di stanca che rende apatiche le visioni. A chi vi scrive è accaduto ad esempio oggi di non entusiasmarsi per nulla di fronte al bel western di Jacques Audiard.

Chiamato a lavorare negli Stati Uniti su commissione, il francese Jacques Audiard – il cui nome non ha di certo bisogno di alcuna presentazione – si cimenta con The Sisters Brothers con un genere alquanto pericoloso: il western. Il genere è pericoloso perché i suoi sostenitori sono i più estremisti dei cinefili. Non sempre chi tenta oggi un’operazione nostalgia viene accolto tra gli applausi: capita sovente il contrario, ovvero che venga attaccato, fischiato e rifiutato. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’ovazione pressoché unanime nei confronti di Tarantino, che il western lo ha coniugato al pulp riscrivendo ad esempio la storia dell’immortale Django. Difficile allora pensare fino a ieri che un’ulteriore via alla reinvenzione del genere sia possibile. Audiard riesce nell’impossibile e inventa quello che possiamo definire il western freudiano, in cui entrano in gioco, tra un colpo di pistola e una visita a un saloon, i fattori psicologici e psichiatrici tanto amati dall’illustre specialista del settore.

In The Sisters Brothers, tratto dal romanzo Arrivano i Sisters di Patrick De Witt (edito fortunatamente anche in Italia), si racconta la storia di Charlie ed Eli Sisters, due fratelli che per vivere lavorano al saldo di uno spietato e potente Commodoro come assassini. Alle spalle hanno una reputazione di cui Charlie, il minore dei due, va fiero e ama vantarsi. Conosciuti in tutto il vecchio e selvaggio West, i Sisters non hanno remore nello sparare a chiunque si mette in mezzo tra loro e l’obiettivo da raggiungere: l’efferata violenza e la nomea che li accompagna sono del resto un punto a favore e non rappresentano uno svantaggio. Il Commodoro punta su loro per catturare Hermann Kermit Warm, un cacciatore d’oro e chimico che ha messo a punto una formula “divinatoria” che lo aiuterà a trovare in maniera veloce la ricchezza a cui aspira. Il tramite per arrivare a Warm è John Morris, una sorta di detective ante litteram con la passione per la scrittura. I Sister e Morris si danno appuntamento in due differenti città, Jacksonville e Mayfield, con l’intenzione di arrivare alla seconda solo nel caso in cui Morris non acciuffasse Warm prima. I viaggi dei Sisters e di Morris procedono in maniera parallela: da un lato vediamo i fratelli farsi strada tra praterie, boschi e canyon, affrontare gli attacchi delle bestie selvatiche (un orso e un ragno, in primis) e fermarsi a divertirsi un po’; dall’altro lato, invece, assistiamo all’avvicinamento di Morris a Warm, le sue tattiche di aggancio e il suo finir ammaliato da colui che avrebbe dovuto limitarsi a catturare.

I Sisters durante la traversata del West parlano molto tra di loro, raccontando squarci del loro passato e spogliandosi dei luoghi comuni che rivestono le figure dei cowboy. Scopriamo così che Eli, il maggiore, ha lasciato al villaggio una donna di cui è innamorato e che gli ha regalato uno scialle (indumento al centro di una delle scene più divertenti della pellicola) e che Charlie ha cambiato carattere, divenendo violento e alcolizzato, negli anni a causa di quanto occorso con l’odiato padre. In più, apprendiamo che nonostante la differenza di età, a prendere il posto del defunto genitore è stato Charlie, che da più piccolo è diventato una figura paterna sui generis per il fratello.

Il tormentato rapporto che i Sisters hanno avuto con il padre si riflette anche in quello che sia Warm sia Morris hanno avuto con il proprio genitore. Il primo è stato abbandonato mentre il secondo se n’è andato di casa per via delle divergenze. Il condividere tale status di figli incompresi fa sì che tra Warm e Morris si formi uno strano legame amicale, che in certi frangenti diviene ambiguo e dai contorni poco chiari. Morris necessita di qualcuno che gli proponga una prospettiva di vita diversa e Warm ha ciò che potrebbe garantirgli stabilità. Insieme progettano di fondare una nuova compagnia, ne disegnano persino il logo e sognano. Ma soprattutto parlano della fondazione di uno tipo di società civile in Texas, a Dallas, immaginandola come un regno utopico in cui tutti si è liberi, felici e uguali. In pratica, Warm si prefigura come una sorta di socialista rivoluzionario ante litteram.

A rivelare la complicità tra Warm e Morris ai Sisters è la sosta dei due fratelli a Mayfield, cittadina che deve il suo nome alla nerboruta proprietaria di un saloon. Dopo l’ennesima strage, i Sisters giungono anche loro a San Francisco, moderna Babilonia e punto più lontano in cui si sono spinti in vita loro. In città, Charlie manifesta la voglia di smetterla con le uccisioni. La decisione, pur non ben vista dal fratello, diviene quasi realtà quando i due vengono a contatto con Warm e Morris. L’incontro, lontano dall’essere uno spargimento di sangue, si trasforma in un nuovo accordo che viene suggellato dalla potenza della parola e della fiducia. Il precipitare degli eventi, la cupidigia e la voglia di troppa libertà finiscono per cambiare il corso delle loro strade.

Rimasti ancora una volta soli, i Sisters vedono il loro rapporto ribaltarsi. Scegliendo la nuova vita prospettata in primis da Eli, il maggiore si riappropria del suo ruolo e diviene colui che porta sulle spalle il fardello della decisione e della protezione. Superata l’insicurezza di qualche anno prima, Eli diviene capofamiglia e uomo, assumendosi il compito di guidare il più piccolo verso un futuro migliore, semplice e, perché no, romantico.

Guardando più ai western di Penn e, inevitabilmente, a quel capolavoro che è L’uomo che uccise Liberty Valance, Audiard riesce laddove a Venezia hanno fallito i fratelli Coen. Nel suo The Sisters Brothers si respira la polvere degli ultimi giorni della frontiera, si percepisce il profumo della polvere da sparo, si condividono i timori delle prostitute dei saloon e ci si lega ai propri cavalli, annullando nello spettatore ogni distacco sia razionale sia semantico. Catapultato nei grandi spazi aperti che diventano simbolicamente claustrofobici, si vivono gli ultimi effetti della caccia all’oro mentre si affrontano i primi discorsi sulla democrazia, si affacciano i primi cenni al potere della parola (in cauda venenum) e si mette in discussione il valore della violenza fine a se stessa. I valori tradizionali del vecchio western e le abitudini delle passate generazioni vengono rimesse in discussione e rifiutate dai figli, che nei loro padri non trovano un modello da seguire ma esempi da rigettare. Pur sempre ossessionato dai corpi e dalle loro funzioni, Audiard si affida a un cast di protagonisti di prim’ordine, su cui spicca John C. Reilly, lontano da certi ruoli piacioni a cui la sua stazza negli ultimi anni lo ha costretto. Joaquin Phoenix, sempre a suo agio nel ruolo del borderline, trova ottimi compagni anche in Riz Ahmed e Jake Gyllenhaal (ancora una volta cowboy). Occhio poi ai camei di Rutger Hauer e Carol Kane, nei panni del Commodoro e della mamma dei Sisters.

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LA PAROLA AL REGISTA

«Da un punto di vista narrativo, il western è molto lineare, senza suspense, epico. Io amo invece le storie più tese e con sceneggiature ad effetto. The Sisters Brothers mi ha attirato perché presenta al suo interno dei temi a me familiari come quelli della filiazione e della fraternità, mischiati a tematiche tipiche del genere: l'eredità della violenza degli antenati e come controllarla. L'idea di adattare il romanzo di De Witt non è mia. Viene dall'attore John C. Reilly e da sua moglie, la produttrice Alison Dickey. Ci siamo incontrati nel 2012 al Festival di Toronto, dove presentavo Un sapore di ruggine e ossa. Mi hanno chiesto di leggere il romanzo, di cui avevano già acquisito i diritti. L'ho letto e mi ha entusiasmato. All'epoca, non me ne sono reso conto ma è stata la prima volta che mi è stato chiesto di mettere in scena un argomento non scelto da me ma che mi piaceva. Fino a quel momento, avevo sempre lavorato sulle mie idee. Confesso anche che, se avessi scoperto da solo il romanzo, non avrei mai avuto il coraggio di cimentarmi in un western da solo. Mentre preparavo la sceneggiatura, ho lavorato alla realizzazione di Dheepan - Una nuova vita: ecco perché, quando si è aperto il set, mi è sembrato tutto piuttosto esotico. Mai avrei immaginato di dover dirigere un western. Il genere in sé non mi ha mai entusiasmato».

Joaquin Phoenix, John C. Reilly

The Sisters Brothers (2018): Joaquin Phoenix, John C. Reilly

 

Dai fratelli di Audiard si passa direttamente alle sorelle protagoniste di La quietud dell’argentino Pablo Trapero. In concorso al Festival di Venezia nel 2015 con il sottostimato The Clan, Trapero porta in laguna fuori concorso una vicenda che ha al centro una famiglia argentina chiamata a fare i conti con i propri segreti e tabù. La storia, ambientata ai giorni nostri, vede la giovane Eugenia tornare da Parigi a Buenos Aires, dove il padre ha appena avuto un ictus a causa di un’inchiesta da parte della magistratura su come lui e un altro suo amico avvocato siano entrati in possesso di prestigiosi beni immobiliari. Tra i beni contestati dalle autorità vi è La Quietud, uno splendido ranch nella campagna in cui l’uomo vive con la moglie Esmeralda e la loro secondo figlia, Mia.

Sin dall’arrivo è chiaro il tipo di rapporto delle due sorelle. Eugenia è indispensabile per Mia, rappresenta la sua ancora di salvezza e le regala quell’amore di cui necessita. Il loro legame, solido e invidiabile, rasenta l’incestuoso e in molti possono rimanere colpiti da una prima anche forte scena di sesso di cui le due donne si rendono protagoniste. Sebbene siamo legate quasi in maniera morbosa ai loro ricordi di adolescenza, Eugenia e Mia sono andate avanti con le loro vite. O, meglio, Eugenia è andata avanti mentre Mia ha raggiunto una sorta di punto di non ritorno da cui non si schioda, anche a causa del difficile rapporto che ha con la madre, una donna che approfitta di ogni momento per manifestarle a prima vista un insensato rancore. Man mano che l’intreccio procede, scopriamo che la più grande è incinta e che ha una relazione clandestina con Esteban, primo amore da ragazzina. Che si tratti di sesso spinto o di sentimenti non ha importanza, per Eugenia il legame è da nascondere a causa del compagno Vincent. Trattenuto da impegni di lavoro a Parigi, Vincent si palesa qualche giorno dopo, rivelando sin da subito la sua natura: da primo amore di Mia, ha continuato negli a intrattenersi con lei in maniera intima.

La situazione a La Quietud precipita di fronte a due eventi inattesi: la morte (o, meglio, l’omicidio) del padre dopo un secondo ictus e il trasporto a casa, e la gravidanza di Eugenia, che si rivela essere di origine patologica.

La Quietud è in primo luogo un film sull’amore. Irrequieto, drogato e incompleto, come canta una canzone che compare per ben due volte nella colonna sonora, l’amore muove i passi delle due sorelle. La più introversa Eugenia e la più sofferente Mia (ha tentato più volte il suicidio) si amano come sorelle talmente tanto da non volersi ferire. Sono una a conoscenza dei segreti dell’altra, li condividono in silenzio, agiscono soltanto per sentirsi più vicine e non lascerebbero mai separarsi da nulla. Vivono in simbiosi anche da lontano e sono un esempio di cosa significhi crescere in una famiglia problematica. Dalle sembianze uguali (dai capelli al fisico alla risata, risulta quasi difficile riconoscerle), le due sorelle vivono apparentemente nella bambagia ma pagano lo scotto della Storia argentina sulla loro pelle: i legami del padre con la dittatura argentina e i delitti di cui si è macchiato all’interno dell’ESMA (dove con la tortura e violenza costringeva con l’aiuto della moglie i detenuti illegali a firmare procure false) tornano alla luce in maniera inaspettata e sconvolgono ogni equilibrio. La scoperta della violenza, a cui l’uomo si scopre ricorrere anche in casa, mina ulteriormente la psicologia di Mia, chiamata a decostruire la figura del padre che l’ha sempre tanto amata e a capire meglio qualcosa della madre, una donna che non l’ha mai amata e con ha mai perso l’occasione di denigrarla in pubblico, di farla sentire inferiore alla sorella (I primi figli sono quelli che più si amano, sentenzia Esmeralda, a suo modo vittima e carnefice al tempo stesso) o di ferirla.

L’amore che racconta Trapero è moderno, non si perde nei limiti delle relazioni monogame e accetta il tradimento come prezzo da pagare per un amore più grande ancora, un amore in grado di dare origine a una nuova vita. Nel finale, le due sorelle trovano un modo per rinascere e per congiungersi in eterno, appellandosi a quella maternità di Eugenia che una gravidanza isterica ha rivelato essere inesistente. Le figure femminili escono più forti di prima mentre quelle maschili soccombono al loro cospetto, finendo con l’essere marginali.

Ottima la prova delle attrici Bérénice Bejo (sentirla recitare in spagnolo è un piacere per le orecchie) e Martina Gusman, la cui somiglianza è impressionante, ma non si può non applaudire di fronte alla bravura di Graciela Borges (colei che la rivista Vogue in Francia ha definito la grande attrice del cinema argentino), una madre dalla doppia natura che, ora benigna ora maligna, finisce con il commuovere nella sua spietatezza.

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LA PAROLA AL REGISTA

«Questo è un film intimo sull’universo femminile e la sorellanza. All’inizio della storia i personaggi principali, Eugenia e Mia, presentati dalla stessa prospettiva, sono molto simili. La vicenda prende poi direzioni diverse, seguendo i differenti percorsi che i personaggi scelgono nel corso delle loro vite, mentre si confrontano con l’inquietante passato dei loro genitori. il film si svolge in un’enorme, magnifica tenuta di campagna chiamata La Quietud. Un’atmosfera piena di ricordi, un presente ostile e segreti che erano rimasti sepolti per anni interferiscono con le scene e con i legami tra i personaggi. La Quietud invita gli spettatori a condividere le peculiarità dei protagonisti, la loro storia e il loro ambiente, e a immergersi nei labirinti emotivi di questi disperati e magnifici personaggi».

Martina Gusman, Bérénice Bejo

The Quietude (2018): Martina Gusman, Bérénice Bejo

 

 

5 - Continua

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