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Carlo Vanzina e la commedia all'italiana
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Il problema è sempre quello, e di estrema semplicità: come rappresentare il popolo italiano, da che parte porsi per analizzarlo meglio? Schierarsi al suo fianco, con fare complice, comprensivo, tollerante, oppure mantenere una certa giusta distanza che consenta una visione/valutazione tale da astrarsi dai pregiudizi e dalle facili suggestioni? Ma poi, ancora e soprattutto: che popolo è quello italiano, può essere davvero ridotto nello spazio breve come un battito d’ala di un film o nella narrazione appena più composita di una collana di oggetti filmici che ne definiscano il carattere, dettino le coordinate di un comportamento, abbraccino una totalità forse impossibile da perseguire? Sì: popolo strano, quello italiano, diviso, rancoroso, forte coi deboli e debole con i forti, alla ricerca di una guida spiritual-materiale, tetragono, sostanzialmente xenofobo (e, più che davvero sovranista, regionalista, il che può essere ancora più devastante). Uno strano animale dal corpo cangiante e camaleontico, in fondo perfetto per una letteratura che ne narrasse, configurasse, isolasse (con le opportune e inevitabili parzialità) l’anima, l’essenza, il porsi di fronte alle cose.

Commedia all’italiana: la riduzione al mero aspetto definitorio di una congerie di punti di vista. Registi e sceneggiatori/scrittori di grande acume e profondità, in grado di cogliere, con la risata amara della disillusione, la follia postbellica di un popolo immaturo, frescone e debole, travolto da improvviso benessere, e di segnalarne sardonicamente ogni vizio ed ogni virtù. Giusta distanza, appunto: mai parteggiare troppo con i tipi rappresentati, mai seppellirli sotto la coltre del moralismo tout-court. Sempre scavare alla ricerca delle motivazioni, dei motori psicologici nascosti, lasciare in eredità una serie di racconti amarognoli ed affascinanti, in cui ciascuno potesse riconoscersi ma anche (ri)pensarsi e criticarsi: migliorarsi, in una parola.

 

 

Esaurita la prima gloriosa stagione, con l’avvento dei ’70, l’emersione di confuse istanze palingenetiche e il dipanarsi di una socialità che pagava dazio alle prime concrete difficoltà economiche, la commedia all’italiana avvertì forte il desiderio di rinnovarsi. Accantonare le penne che avevano scelto l’opzione distanza di sicurezza/analisi profonda, affidarsi a sceneggiatori che mostrassero il lato pacioso di un popolo (pacioso ma anche sconnesso, scombussolato, giocosamente razzista, intriso di un senso di superiorità che nascondeva un ancestrale sentire subalterno) senza troppo affondare nella satira, nell’ironia, nel sarcasmo lenitivo. Corrività, è questa la parola: accostarsi ai tipi, ai personaggi, blandirli con cattiveria all’acqua di rose, dire, declamare, urlare: In fondo siamo tutti così, c’è di peggio. L’italiano in famiglia (misogino, frustrato/a, depresso/a), l’italiano nel contesto sociale (pacioccone, servile, profittatore di piccola insignificante meschinità), l’italiano all’estero (provinciale, chiassoso, irrispettoso). Difetti che, previa messa in scena, innescavano un meccanismo di identificazione acritico, un’osmosi tra spettatore e agitatore di sentimenti, una facile immersione nel lavacro autoassolutorio. Sorge una domanda, allora: prevale, nell’ottica di un’analisi critica, il fastidio nel constatare la deriva della enucleazione polemica dei caratteri in lascivo bozzettismo oppure una sana ammirazione per la capacità dei nuovi scrittori/registi di cogliere così pianamente la dissoluzione minima dei costumi, di replicare pedissequamente la volgarità dei comportamenti in operine che, dunque, non potevano che cedere esse stesse alla volgarità, in un corto circuito voluto e consapevole?

E poi, domanda ineliminabile e consequenziale: che regista è stato Carlo Vanzina? È stato, in primis, autore di grande prolificità e regista a cavallo tra i generi, capace di percorrerli senza abbandonare il vizio/virtù di un sostanziale artigianato. È stato, naturalmente, uno dei nuovi padri della seconda vita della commedia all’italiana. Un papà buono e tollerante, tale da porre nei suoi film un raffinato sistema di specchi, pur senza colorarli di un proprio esergo morale (in altri termini: specchiati, spettatore. Io ti faccio vedere cose che, senza esserne cosciente, già sai e già fai. Quindi scegli tu se indignarti o ridere. Di loro, di te, di noi). Uno scrittore di grossolanità consapevole, lungo quella strada della corrività di cui sopra. Eppure, al di là delle polemiche sulla grana artistica e morale di quei film (alcuni anche riusciti e dotati di rigogliosa buffoneria – Eccezzziunale...veramente – o soffice malinconia – Il pranzo della domenica -), il problema dei film vanziniani sta proprio nella scrittura. Vanzina si accontenta di schizzare modellini, come uno stilista che poi, annoiato, passa ad altro. Dà ai personaggi una dialettica basica, bassa, li rende quasi autistici, persi nelle spire di un DNA che l’intelletto, la maturità non riescono a contaminare (a ben guardare, tutti i personaggi sembrano eterni ragazzoni, e dei ragazzoni hanno i sogni confusi ed il caotico approccio alla vita, forse la stessa incapacità e inettitudine a vivere: Boldi pasticcione, De Sica paraculo, le donne bone o confinate in una nuvola di invisibilità, prive anche di qualsiasi richiamo intellettuale, figurine funzionali alla famiglia o ai sogni erotici, gli adolescenti, di regola migliori dei padri, che immaginano l’amore romantico e ne scopriranno presto la sostanziale impossibilità)

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Tipi, topoi, a volte capaci di farsi capostipiti (la saga dei Sapore di mare e delle Vacanze, poi portata a sviluppo ma anche a deflagrazione e picchiata da altri autori), altre destinati a restare i modesti orchestrali di un direttore svogliato e senza cattiveria, incapaci di suonare e diffondere nell’aria vera melodia. Vanzina sceglie, più che di screziare i personaggi, di trascinarli in contesti esotico-erotici in cui disperderne una possibile complessità: le spiagge assolate come contraltare di un diffuso provincialismo, le alcove improvvisate come altro cono di una sostanziale impotenza di pensiero. Lo spettatore guarda, si riconosce, epperò non sceglie di rimodulare il pensiero, distratto da una crassa risata, da una tetta, da un capitombolo, da un innocuo rosario di peti e assortite flatulenze. Adesso vi faccio vedere come sono gli italiani: missione compiuta, al prezzo di un cinema che basta a se stesso, asfittico e autoreferenziale, comico come una barzelletta, incapace di spingersi oltre, a cogliere la malinconia di un Tognazzi, la tristezza ciarliera di un Gassman, a dare a chi guarda gli strumenti verso un’ascensione che passi attraverso un reale castigat ridendo mores.

 

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