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Storia della Messa in Scena.

Fino al Settecento, con le eventuali contestualizzazioni, il teatro non aveva ancora subito chissà che evoluzioni scenografiche e il principio di base dell’attore declamatorio era quello più in voga e cercato. Soprattutto per ciò che riguarda la commedia e la tragedia, i due generi alti, la scenografia rappresentava sempre un luogo ricorrente convenzionale, costituito per lo più dalla facciata di un palazzo dipinta sul fondale per le tragedie, e dalle pareti di una camera per le commedie. I costumi erano altrettanto convenzionali e la scena era essenzialmente sgombra. Gli attori si trovavano perciò a recitare su una piattaforma pressoché vuota, il palco, senza alcunché a portata di mano. Si piazzavano preferibilmente al centro, nella zona anteriore del palcoscenico, in modo da essere visti e uditi nel modo migliore possibile, e recitavano le loro parti rivolgendosi più al pubblico che agli altri attori. L’attore, insomma, declamava di fronte al pubblico.

Tutto questo non avveniva certo per caso. Per il gusto teatrale dell’epoca l’azione rappresentata doveva essere esemplare e mostrare il conflitto dei personaggi e delle passioni umane nei loro caratteri universali. Qualsiasi riferimento concreto a luoghi o ambienti particolari avrebbe compromesso l’esemplarità del dramma. Il modo di recitare era quindi basato sulla declamazione, sulle variazioni di tono, sulle variazioni di tempo e ritmo dell’emissione delle parole, e sull’accompagnamento di opportuni gesti. Questo impianto scenico e recitativo era comunque molto rigido e i tentativi di inserire qualche elemento che rendesse più spettacolare la rappresentazione erano guardati con estremo sospetto.

Le cose cambiano nella seconda metà del Settecento. Il pubblico sembra gradire le novità che rendono le rappresentazioni un po’ più spettacolari, e allora si cerca di soddisfarlo. Arrivano masse di comparse, addobbi, ornamenti vari, effetti speciali per riprodurre temporali, tempeste, terremoti, eruzioni vulcaniche ed inondazioni. Aumentano e diventano a volte centrali i colpi di scena, gli agguati, le fughe, i duelli, gli inseguimenti, gli scontri e le battaglie. Con il gusto romantico si diffonde una nuova sensibilità per il fascino e le atmosfere dei tempi passati e dei luoghi esotici. Il pubblico esige allora una precisa riproduzione della località e dell’epoca in cui l’azione si svolge. Inoltre, per rendere più realisticamente gli ambienti domestici, le quinte e il fondale vengono a poco a poco sostituiti da tre  pareti continue su cui si aprono porte e finestre. Mobili e oggetti devono essere esatti e autentici.

L’attore si trova così a recitare utilizzando l’intero spazio del palcoscenico, e deve coordinare i suoi gesti e i suoi spostamenti con la disposizione degli elementi della scena e con i movimenti e i gesti di tutti gli altri attori. Abituati a declamare nello spazio vuoto di un palco rivolti verso il pubblico, ora devono imparare a recitare in rapporto alle scenografie, agli oggetti e ai movimenti degli altri attori. Ma il passo definitivo in questa evoluzione tecnico-metodologica si compie verso la fine dell’800 con il teatro naturalista.

Questo nuovo modo di impostare i drammi prevede che la scena sia la perfetta riproduzione della vita quotidiana, della realtà oggettiva. Innanzi tutto sul palco devono essere evitati tutti i gesti e i movimenti che non appartengono alla vita reale. L’attore deve rinunciare a una lunga serie di tradizioni sceniche, a qualsiasi abbellimento dell’azione o del comportamento, a ogni trucco del mestiere diretto a impressionare il pubblico. L’impianto della recitazione veniva così radicalmente cambiato. Recitare non significa più rendere le battute del testo con la dovuta intonazione ed efficacia. Significa invece compiere sul palcoscenico delle azioni concrete, in stretto contatto con tutti gli altri attori e con gli strumenti a portata di mano. A questo punto, ed è l’acquisizione più importante e fondamentale, il carattere e gli stati d’animo del personaggio non si rivelano più solo attraverso quello che l’attore dice, ma attraverso quello che l’attore fa: i suoi movimenti nello spazio, le relazioni che stabilisce con l’ambiente della scena e con gli attori, oltre che la maniera in cui utilizza gli oggetti reali che lo circondano. È da qui che prendono le mosse le nuove teorie sull’attore che, tra fine 800 e inizi 900, vedono tra i più importanti studiosi Kostantin Stanislavskij che con la sua psicotecnica dà vita all’attore immedesimato.

 

L’Attore Immedesimato.

Con l’800 la recitazione passa a considerare prepotentemente l’aspetto individuale del personaggio, e per farlo si crede che l’unica soluzione sia quella di dotare i personaggi di realismo quotidiano, in netto contrasto con l’esemplarità e l’idealizzazione delle figure tipiche. Una prima modalità per arrivare a questa esteriorizzazione dell’individualità del personaggio è interagire con gli oggetti scenici in modo che il contrasto con i personaggi della classicità teatrale, soliti a declamare impostati verso il pubblico, risultasse netto e distinto. Ed è qui che Stanislavkij intuisce che l’unico modo per esprimere l’individualità del personaggio è di esprimere l’individualità dell’attore che lo interpreta. Il procedimento è quello ormai celebre dell’autoimmedesimazione.

Problematiche: controllare la propria recitazione, conservare la freddezza e la lucidità per rispettare le esigenze dell’azione teatrale, calcolare esattamente gli spostamenti in scena, regolare i tempi della dizione, calibrarsi rispetto agli altri attori. Ma soprattutto, il vero problema per un attore immedesimato è il procedimento attraverso cui far nascere l’emozione necessaria. Con i primi del Novecento è Stanislavskij ad aiutare chi, lungo l’800, si era preoccupato semplicemente di inserire nella recitazione gesti e movimenti “esterni” presi dalla quotidianità. Attraverso l’autosuggestione l’attore s’immedesima nel suo personaggio. Lo fa, stando agli insegnamenti di Stanilavskij, attraverso due procedimenti in particolare: il “magico se”, e la memoria emotiva.

Il “magico se” permette all’attore di immaginare la situazione in cui il personaggio si trova ad agire. Il “magico se” si compone della precisione con cui l’attore definisce ogni particolare della situazione, e dell’immediata vivacità con cui riesce ad immaginare la situazione, in modo da avvertirla concreta e presente davanti a sé. A capo di ciò può infine chiedersi: “io che cosa farei se fossi in quella situazione?”.

La memoria emotiva è il grande serbatoio emozionale del nostro passato. Ricordando un evento del nostro passato riusciamo a riviverne le emozioni e le sensazioni. Per farlo, un attore deve prodigarsi in due esercizi precisi e difficili: rintracciare le condizioni ambientali e le percezioni fisiche dell’accaduto (memoria dei sensi) e recuperare infine lo stato d’animo al tempo dell’accaduto (memoria emotiva) per poterlo così rievocare. Complessi edipici, blocchi psicologici e verità rimosse sono i leitmotiv dell’immedesimazione. Ma sono anche il grosso problema di rimozione che affronta non senza vere difficoltà l’attore immedesimato, o che almeno tenta di esserlo. É un problema arrivato solo dopo le prime teorizzazioni sul metodo e che vede nelle due principali scuole post-stanislaschiane due diversi atteggiamenti risolutivi. In quella americana di Lee Strasberg, per esempio, ci si concentra sull’eliminazione o almeno sulla riduzione degli ostacoli psicologici che l’attore incontra nel lavoro su se stesso. Esercizi quindi, mirati a rimuovere i blocchi interiori prodotti dalla pressione sociale, dall’educazione, dal rapporto con l’autorità in famiglia e fuori, dalle esperienze repressive che si attraversano nell’infanzia e nell’adolescenza. La scuola russa invece, lavora di più sull’attività fisica dell’interprete cercando di sviluppare una sorta di sintonia tra la produzione degli stati d’animo e l’esecuzione di azioni esterne (Vicentini, 2007: 174-175).

La nostra drammaturgia si basa sull’esteriorizzazione di due sentimenti in conflitto. Per Rikard Boleslavskij è impossibile per un attore riprodurre a freddo simultaneamente le espressioni di due sentimenti diversi. L’unico modo è riviverli. Questo suo principio non è affatto nuovo rispetto agli insegnamenti del suo maestro Stanislavskij, solo che lo sancisce in forma inequivocabile. Un attore immedesimato ricorre all’effetto di trascinamento sia per esprimere uno tra i due sentimenti opposti, sia per il passaggio da un sentimento ad un altro, sia per l’entrata in scena e per ogni altra occasione di recitazione a freddo. Nei primi due casi il segreto è di tenere le tracce del primo sentimento avvertito sullo sfondo del secondo. Negli altri due casi si ricorre all’eco emotiva per la quale anche l’atteggiamento emotivo iniziale del personaggio, e sconosciuto al pubblico, deve fondarsi sulla rievocazione di un sentimento ricercato all’interno dell’attore. Un attore imitativo, invece, per manifestare due sentimenti diversi e opposti o per esprimere un’emozione che il pubblico ignora, non farà altro che accostare, giustapporre, sostituire con abilità e tempestività, nonché con maestria e professionalità, i due sentimenti.

 

L’Attore Imitativo.

I livelli di percezione della “persona incontrata” sono due: collocare la persona in una classe di genere, come per esempio un avaro, un dongiovanni, un corrotto, un povero, e in seguito individuare caratteri, gesti, tic, nevrosi, atteggiamenti e gusti particolari esclusivi di quella persona (le piace sorseggiare il tè a piccoli sorsi, si gratta di continuo la testa, guarda le donne con occhi sgranati, s’addormenta in un secondo, etc).

Questo è quello che fa l’attore imitativo, ma anche l’immedesimato, quando deve creare il “vestito”, il “costume”, l’intelaiatura di sostegno del suo personaggio, che potrà così essere un avaro che s’addormenta in un secondo, un dongiovanni che si gratta di continuo la testa, un povero che sorseggia il tè a piccoli sorsi, e così via. Non può esistere un personaggio che rappresenti limitatamente una categoria generale, ma esisterà sempre un personaggio che aggiungerà qualcosa di personale ed esclusivo ai caratteri generali della categoria antropologica a cui si rifà. Questo personaggio è il tipo, che solo con Shakespeare potrà assumere il titolo di individuo grazie all’approfondimento psicologico fatto dall’autore in un’epoca ancora concentrata sui tipi.

Quando con l’800 entra di prepotenza il personaggio-individuo, e agli attori sono richiesti sforzi nuovi e mai sperimentati per rendere il personaggio più reale e più vicino alla sensibilità di un pubblico nuovo ed esigente, trova grande risonanza il metodo Stanislavskij. Difatti, prima gli attori si limitavano ad inserire nella recitazione gesti e atteggiamenti della vita quotidiana. Con Stanislavskij e con il metodo dell’immedesimazione tutto cambia. L’attore immedesimato diventa la novità teatrale della modernità, ma è l’attore imitativo, forte di secoli di percorso professionale, che può, che deve e che sa ancora dire la sua. Come postulava Coquelin: l’attore, letto e riletto il copione, deve fantasticare sulla storia, gli ambienti e le vicende fino ad avvertirli tutti molto vicini, ma anziché fissarsi sugli stati d’animo, l’attore deve concentrarsi sull’aspetto e il comportamento esteriore da dare al personaggio. Essendo che nessun attore è in grado di imitare se stesso, è fondamentale che l’attore riconosca, individuandole sia nel testo che nelle sue immaginazioni, le differenze tra se stesso e il suo personaggio. Imitativamente quindi, attraverso l’intelaiatura di sostegno l’attore rappresenta esteriormente i tratti interiori ricorrendo anche all’ausilio, non sempre necessario, del trucco e  del costume.

La produzione di espressioni chiare e incisive, l’abilità di alternarle in successione, la tendenza a intendere i personaggi come tipi: sono le tre caratteristiche delle tecniche dell’imitazione. L’attore imitativo deve quindi indicare al pubblico la sua figura, i suoi gesti e le sue espressioni più caratteristiche. Segni chiari, netti, precisi, inconfondibili. Se questi segni sono resi al minimo della loro incisività ed efficacia si parla appunto di stile minimo. Nel crescendo dell’accentuazione delle caratteristiche tipiche dell’imitazione si arriva ai caratteristi, attori ricercati perché capaci, perpetuando la propria creazione artistica, di iconizzare un personaggio tipo di particolare successo e presa sul pubblico: il detective duro e puro, il mostro, il serial-killer, il pistolero di poche parole, e così via. Se accentuiamo ulteriormente l’enfasi con cui l’attore indica i gesti e le sue espressioni, incontriamo la macchietta. Personaggi grotteschi, fantastici, esagerati, sono quelli partoriti da questi attori che portano all’ennesima potenza le tecniche imitative deformandole in modo antinaturalistico. Sembra una categoria di attori molto estrema e dai tratti peggiorativi, in realtà macchiette sono stati alcuni tra i nomi più celebri e significativi dell’attorialità del Novecento: Totò, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Stallio e Ollio, Groucho Marx. Le loro figure tipo impediscono un preciso riferimento a qualsiasi categoria di essere umani. Si differenziano in questo dai caratteristi. Oggi i residui di questa terza tipologia di attori imitativi li troviamo negli sketches televisivi come nei film del terrore.

Oggi, complice il cinema, la stragrande maggioranza di attori si colloca tra lo stile minimo e il caratterista, due delle tre modalità delle tecniche imitative. Sono di meno gli attori che s’inseriscono lungo i procedimenti psicoterapeutici e pedagogici del metodo Stanislavskij. Magari in molti studiano questo metodo, ma all’atto pratico solo alcuni attori ne sono veri e propri puristi; gli altri commistionano, e non senza successo, le due tecniche di base: imitazione e immedesimazione. Ma è una pratica più che scontata quella della commistione tra le due metodologie. Primo perché è impossibile recitare a freddo, quindi qualsiasi attore, imitativo o immedesimato, dovrà fare i conti con le tecniche dell’imitazione per rendere efficace e immediato un personaggio. Secondo, perché chiunque, ed è umanamente comprovabile, imitando finisce poi per avvertire anche leggermente le emozioni del suo modello. Nel primo caso gli immedesimati imitano, nel secondo caso gli imitativi s’immedesimano. Si parla di sensibilità fittizia quando appunto un attore imitativo inizia ad avvertire le pulsioni intime del suo personaggio. É una sensibilità a volte rischiosa per un attore di questo tipo, perché potrebbero turbarne la concentrazione sul personaggio. Per altri invece può aiutare l’interpretazione: rievocando un sentimento generico, l’attore imitativo può apportare un valore aggiunto al suo lavoro sull’espressione esterna del personaggio.

Un’ultima considerazione pratica riguardante l’attore imitativo nello spazio scenico. Proprio su questo argomento si riconoscono immediatamente le due tecniche base. Infatti, un uso degli oggetti e dello spazio scenico continuo, fisico, concreto, è tipico dell’immedesimazione; un uso degli oggetti e dello spazio scenico minimo è tipico dell’imitazione, con diversa applicazione a mano a mano che dallo stile minimo si passa al caratterista e alla macchietta; un uso degli oggetti e dello spazio scenico sottolineato riguarda entrambe, imitazione ed immedesimazione; una scena vuota con nessun oggetto in scena è prerogativa di quegli attori, muti o no, che presentano al pubblico un fatto attraverso una semplice evocazione. Questa breve schematizzazione serve per riconfermare come un attore imitativo, dedotti e praticati i segni che gli servono, non ha bisogno di interagire con chissà quanti oggetti in scena od occupare tutta la scena stessa. Tutt’al più sottolineerà alcuni gesti, alcuni oggetti e alcuni spazi per aumentare spessore al personaggio. Un attore immedesimato invece, sarà impegnato con gli oggetti e lo spazio. Interagendo con loro Stanislavskij combatteva il rischio di cadere nel cliché dei personaggi tipo.

 

 

L’Interpretazione: l’Attore come Segno.

Il distacco dal proprio personaggio è importante. L’attore, che è operatore di atti secondo il suo etimo originale, è per me il segno, il significante di un significato sì profondo, ma non da ricercare nella propria memoria affettiva attraverso l’autosuggestione e l’autoimmedesimazione alla Stanislavskij. Nonostante le prove magistrali di attori seguaci del metodo, uno su tutti Marlon Brando, concordo piuttosto con De Sica quando diceva che l’attore non “recita”, bensì “prova” ad essere attore. Prendo le distanze da questo assunto solo per precisare che nella prova non si deve tener conto che poi ci sarà una mdp a imprimerti su pellicola e in seguito un pubblico che ti giudicherà, ma bisogna invece tener conto dell’essere un segno, un significante. Con questo, non voglio dire che l’unico attore possibile è l’attore meccanico di Mejerchol’d, ma che l’attore, nella sua essenzialità, trasmette allo spettatore i codici che gli permettono di comprenderne la performance e riempire così il non detto, che è lo scarto tra la recitazione e la maschera.

Tra l’attore che recita e quello che, seguendo il metodo Stanislavskij-Strasberg, si trasforma e si autoimmedesima, io preferisco l’attore che interpreta. L’atto attoriale è rappresentazione di sé e dell’altro; è rappresentazione della vita, non sua registrazione. Rappresentare quindi non è né recitare né autoimmedesimarsi. Rappresentare è invece interpretare. Recitare significa declamare, narrare, raccontare, simulare, teatralizzare ed enfatizzare la performance dell’attore. Autoimmedesimarsi significa ricercare dentro di sé quelle emozioni che permettono così all’attore di emozionarsi in modo diretto e coinvolgente. Interpretare, invece, significa spiegare, attribuire, intendere, rappresentare: e il cerchio si chiude. Interpretazione è sinonimo di esegesi e di ermeneutica, che a loro volta sono: l’esegesi, lo studio e l’interpretazione di un testo, e guarda caso non c’è film o spettacolo senza testo; l’ermeneutica, l’arte di interpretare i libri e i documenti antichi come dimensione costitutiva dell’esistenza umana che si rapporta al mondo attraverso i segni.

Ecco che non appare poi tanto ermetica questa mia idea sulla recitazione come interpretazione, perché l’attore deve tradurre gli elementi interiori con elementi esteriori. Semplicemente. Senza per forza di cose scavare in se stesso con l’autosuggestione, che è e rimane un’arte vera e propria, ma circoscritta a talenti predisposti, e senza teatralizzare la propria performance.

Mentre Stanislavskij pretende un viaggio introspettivo dell’attore per rievocare esternamente i sentimenti del suo personaggio attraverso la memoria emotiva; mentre la tradizione teatrale europea sostiene l’idea di imitare attraverso un preciso e diligente lavoro di artigianalità attoriale le caratteristiche di un’immagine mentale ai cui segni si danno significati diversi; io credo che l’attore debba, sempre in seno alla tecnica dell’imitazione, interpretare una figura tipo attraverso l’uso di un linguaggio prettamente fisico i cui segni sono i significanti di un universo emotivo interiore e altrimenti intraducibile che toccherà poi allo spettatore decodificare.

Questa mia riflessione trova dei precedenti autorevoli. Già in Francia, a partire dal 1680, epoca in cui la Comédie Française è il primo teatro europeo, come nell’Inghilterra postscespiriana, si considerava come primo compito dell’attore l’interpretazione, quindi la ri-presentazione, di opere di alta poesia appartenenti ad un glorioso passato. Inoltre, nel 1750, Francesco Riccoboni esporrà in L’art du théâtre à Madame *** che l’attore è colui che imita i gesti, i movimenti e le azioni nella loro pura fenomenologia, senza cioè che la propria psiche sia in alcun modo partecipe degli stati d’animo che essi esprimono (Molinari, 2005: 34). Questo discorso verrà poi formulato più analiticamente da Johan Jakob Engel in Ideen zu Einer Mimik nel 1785, in cui precisa che tali espressioni sono da considerarsi “naturali” solo quando vengono depurate dalle loro caratterizzazioni individuali, cioè solo quando vengono ridotte a segni universali, anche se non arbitrari. Quindi, l’attore sviluppa il suo discorso scenico assemblando e organizzando una serie di segni.

Passando poi per i vari teorici della recitazione, arriviamo al Novecento di Stanislavskij che non concepisce l’attore come segno, bensì come attore-individuo. Il suo teatro, definibile come un “realismo assoluto”, non è mimesi della realtà, ma una realtà effettuale. Questa realtà non si vede, ma accade nell’anima degli attori. Invece, il grande valore fisico, addirittura meccanico dell’attore, tale da renderlo portatore di segni, è rintracciabile in parte nel regista russo Vsevolod Mejerchol’d, in parte in Copeau, che a differenza di Mejerchol’d non accetta il cabotin, ovvero l’attore che non esprime vita interna, ma solo gesti esterni, e lo ritroviamo soprattutto in Charles Dullin, allievo di Jaques Copeau, in Bertold Brecht – l’estraniazione – e in Antonin Artaud – la crudeltà fisica e testuale. Dullin, seguendo Diderot, afferma che l’espressione dei sentimenti deve essere ridotta a segno. Il teatro di Brecht non esprime, ma rappresenta, mostra dei segni di cose, di sentimenti. Artaud, vicino a Stanislavskij nella sua opposizione al teatro come mimesi, intende i gesti e le azioni come pratiche inutili dotandoli però di una bellezza derivante dall’impossibilità di distinguere, a suo parere, segni pratici e segni simbolici.

Così, le mie idee sull’interpretazione e sull’attore come segno, scopro che hanno avuto già una loro trattazione autorevole. Vien da sé che, articolando certe riflessioni quando ne ignoravo l’esistenza, intuisco che in me era predisposto un atteggiamento critico ed intellettuale sul discorso dell’attore. Ma oltre a questo, se il Molinari parla di attore-portatore di segni, come Dullin e altri teorizzavano, io parlo di attore-segno. L’attore è esso stesso un segno. Non solo un veicolo di segni di sentimenti ed emozioni, ma un segno vero e proprio. Ed è qui che la tecnica dell’imitazione diventa fondamentale per la mia idea di interpretazione: proprio perché caratteristica tipica dell’attore imitativo è la ripetizione di segni individuali che, al netto di quelli contestuali del personaggio interpretato, diventano la cifra personale dell’attore e sono stigmate dello stile peculiare dell’attore stesso. Un ulteriore differenza tra l’interpretazione e l’immedesimazione è che in quest’ultima l’attore immedesimato, attraverso la rimozione, trova gli elementi per l’autosuggestione, mentre l’attore-segno trova gli elementi per l’interpretazione attraverso l’esperienza. Io mi pongo, quindi, davanti all’attore come un lettore davanti ad una grafia. Non registro per poi riprodurre la realtà, io la rappresento attraverso l’interpretazione dell’attore.

La messa in scena meriterebbe una trattazione a parte perché a teatro come al cinema può giocare su stili diversi, dal naturalistico all’impressionista, dal barocco all’espressionista fino all’antinaturalista. Così come può variare il punto di vista della mdp, da soggettivo ad oggettivo, come le inquadrature e il montaggio, che al cinema definiscono ulteriormente lo stile ultimo dell’autore.

Restando nel discorso attoriale, io credo all’attore come interprete, come interprete di un segno. Il concetto, l’idea, il sentimento, l’intimo psicologico, l’emozione vengono concretizzati in un segno individuabile e riconoscibile che viene spiegato attraverso il fisico e la corporeità e la gestualità espressiva dell’attore. L’attore interpreta il segno. Il segno racchiude un significato. Se l’attore è segno, l’attore è corpo.

 

L’attore è corpo.

 L’attore è corpo. L’attore è carne. L’attore è fisiologia dell’interpretazione, fisiologia del significante. Il corpo è il significato, come la forma è il contenuto.

Una trattazione dettagliata, scientifica e di taglio accademico, ora, è pressoché inutile ai fini di una proposta di sola riflessione. Si consiglia pertanto la bibliografia a conclusione.  Si può comunque riflettere, rapidamente su come l’essenza dell’attore, che storicamente è considerata la voce, sia o possa essere in realtà il corpo.

Dopotutto, la recitazione si basa sostanzialmente su un testo, un testo che non necessariamente prevede delle battute. Ma anche privato di una vera e propria verbalizzazione, il personaggio, l’attore, infine, il corpo, è pur sempre la concretizzazione del logos. La parola, attraverso il corpo, diventa pensiero, rappresentazione, si incarna letteralmente e simbolicamente. Anche la parola taciuta e inespressa, e quindi i sentimenti, le emozioni, i pensieri, trovano nella loro riproduzione cinesica, ma anche soltanto corporale, di “sola presenza”, la loro forma sensibile. L’uomo, d’altronde, si relaziona con il mondo attraverso il proprio corpo. Nonostante tutte le nuove tecnologie, i vari supporti di riproduzione delle immagini, la virtualità, la realtà aumentata, che oggettivamente minano il primato del materico, l’uomo utilizza sempre il proprio corpo per entrare in relazione con lo spazio e con l’altro umano. Pur utilizzandolo per finalità iconiche, siano esse digitali, cinematografiche, fotografiche o pittoriche, il corpo resta sempre il mezzo tecnico e concreto di decodifica del reale e, per parafrasare Bauman (2005), è l’unica cosa concreta che ci resta nella società liquida. Da qui, l’attenzione/ossessione per il corpo di questi ultimi decenni, come medium privilegiato per definire se stessi e per entrare in relazione con il mondo, rappresentarlo e interpretarlo.

Seppur messo biologicamente in discussione a causa della sua sovraesposizione mediatica che annulla l’ancoraggio al corporeo, alla realtà e quindi anche al reale, il corpo resiste e la sua fisiologia è ancora alla base di ogni tensione ed esperienza sensibile umana. Dall’amore all’odio, dall’orgasmo all’adrenalina, tutto passa sempre dal contatto del nostro corpo con il mondo circostante, la sua natura, gli oggetti, le persone.

Ne concludo che il corpo, essendo un medium, un mezzo, un codice, è quindi un segno all’interno di un sistema di altri segni di varia natura, e se l’attore, come già trattato, è segno, è perché è innanzitutto corpo, materia corporale con una sua fisiologia precisa che attua da discriminante. Una sedia, per esempio, è un oggetto fisico, certo, riempie la scena con la sua presenza fisica, ha un significante e più significati, quindi è anche simbolo, ma non ha una sua fisiologia – a meno che non ci addentrassimo nel territorio del fantastico e vedessimo una sedia piangere, sanguinare o avere un’erezione. È quindi l’insieme delle caratteristiche peculiari di un corpo, la sua fisiologia, ad attuare come discriminante tra attore e resto degli esistenti di una messa in scena. L’attore è corpo perché ha una sua fisiologia e non può sbarazzarsene, sempre in un’ottica di rappresentazione naturalistica e non, per contrario, in ottiche antinaturalistiche o espressionistiche – senza negare a queste ultime l’utilizzo artistico del corpo anche attraverso la sua fisiologia.

Per questo considero fondamentale come elemento di critica, soprattutto tematica, ma anche analitica e intellettuale, di un’interpretazione teatrale e cinematografica o della serialità televisiva, il corpo come principale mezzo di comunicazione dell’attore.

Ecco perché un nudo integrale, un corpo smembrato, una scena di sesso esplicito, un corpo mostruoso, etc., diventano per me immagini indispensabili per la rappresentazione artistica, perché sono i primi significanti con cui giungere a più significati.

Plaudo quindi, quei registi e quegli attori che osano in nudi e sessualità esplicita, in mostruosità e plasticità della violenza, mentre contesto come offesa alla mia intelligenza film in cui si usano protesi, capi intimi invisibili, controfigure pornografiche o l’imbarazzante lenzuolo a coprire la copula e il postcoitum soprattutto nei film a tematica sessuale, oppure l’oltraggio del digitale nella rappresentazione della mostruosità, della deformità e della violenza in luogo dell’effetto plastico profilmico e del trucco prostetico.

Va detto però, che nel terzo millennio si sono triplicati i film in cui la sessualità esplicita o il nudo, soprattutto maschile, non hanno più censure e diventano se non narrativamente funzionali, almeno esteticamente efficaci nell’economia della narrazione – anche perché non esiste mai nulla di gratuito, come vociano molti. Allo stesso modo, si annusa un timido ritorno all’uso totalizzante del profilmico che sa giocare ancora perfettamente sulla sensibilità del nostro sguardo che non è capace, e non credo lo sarà mai, di abituarsi al solo digitale e di considerare reale ciò che non ha una riconoscibilità tridimensionale e volumetrica. Caratteristica questa, per cui il corpo, e quindi l’attore, è insostituibile e, nel caso venga utilizzato nel pieno della propria fisiologia, irrinunciabile.

Mauro Fradegradi – martedì 26 giugno 2018

 

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