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Nomen Omen - Quando chi sei si riflette nel nome che porti
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Provare a leggere un film dalla sua locandina

 

 

La promessa olimpica dello sci, Molly Bloom, atleta americana dei nostri giorni è, come ogni vero sportivo al di là dei riconoscimenti ufficiali e delle medaglie vinte, fedele al concetto che ottime performances possano conseguirsi soltanto attraverso una condotta disciplinata, un costante allenamento, volontà e spirito di sacrificio, cui aggiungere una buona dose di razionalità e sangue freddo. Ma se il destino o la dea bendata ci mettono lo zampino nel modo più beffardo che si possa concepire mandandole all’aria una carriera faticosamente costruita, Molly, da sportiva nell’animo prima ancora che nel fisico mozzafiato, si rialza dalla rovinosa caduta, si rimbocca le mani pronta a riprendersi la sua rivincita. E si avvia verso un sensazionale, assai redditizio quanto trasversale successo in un campo solo apparentemente distante anni luce dalle gare agonistiche sulla neve, in una specialità da tavolo che predilige l’azione mentale a quella fisica, in cui l’eccellente rendimento è somma di più fattori insieme: strategia, decisioni ed intelletto (e, perché no, pure un pizzico di fortuna): è il poker clandestino, rigorosamente d’élite, per gente ricca anzi ricchissima, disciplina dove Molly si aggiudica con merito il gradino più alto del podio, consapevole di sbaragliare possibili rivali, sicura di possedere il pieno controllo di ogni mossa del suo gioco privato e certa di essersi finalmente conquistata quel posto nel mondo cui tanto aspirava (e chi non lo desidera?), di essersi costruita una propria, sicuramente peculiare, identità.

La locandina (questa in particolare tra le tante in circolazione) riassume al meglio il senso del film.

Molly (Jessica Chastain), un Paperon de’ Paperoni in gonnella, siede al centro dell’istantanea su un trono fatto di mazzette da centinaia di migliaia di dollari. I soldi praticamente la circondano, sono il frutto del suo lavoro cui dedica anima e corpo. In una sola parola, la sua vita. Non c’è nient’altro intorno; del resto i contorni oscurati dell’immagine ben rafforzano questa convinzione.

Lei, l’idea che all’impronta ci facciamo di lei, è quella di una versione aggiornata e femminista della vedova nera, e l’elegante tailleur di seta (lucido come il manto del ragno) non può che confermarlo: siamo di fronte ad una donna capace, potente, giovane, bellissima, intelligente, una provetta ammaliatrice che utilizza il proprio fascino conturbante per far cadere nella sua tela, minuziosamente intessuta, le prede - tutti maschi - che accalappia col gioco d’azzardo (la fiche che stringe nella mano ne è chiara deduzione), così da trarne sostanziosi profitti materiali. Ma Molly, infranta l’ingannevole superficie, è in realtà una figura che ricorda molto da vicino (come d’altronde dice di sé nel film) la Circe della mitologia greca, perché i suoi occhi diventano vigili testimoni delle più svariate metamorfosi da parte degli ospiti che intrattiene, i quali al tavolo da gioco svelano ben presto la loro reale natura di esseri bestiali.

Nell’Odissea di Omero si racconta che la maga Circe, nella fitta boscaglia circostante la propria dimora, facesse abitare festose creature selvatiche una volta esseri umani caduti vittima delle loro stesse debolezze. Quando offrì ad Ulisse e ai suoi compagni in segno di ospitalità una bevanda, il ciceone, ridusse in porci tutti gli altri uomini, essendosi rivelato l’istinto sessuale più forte della loro volontà, tranne il re di Itaca, rimasto immune al terribile sortilegio per aver assunto il moli (in greco μωλυ), l’antidoto fornitogli dal dio Ermes, con cui riuscì a mettere in salvo se stesso restituendo, altresì, ai suoi i compagni d’avventura le sembianze umane perdute.

Si legge:

[…] l’erba salubre

porsemi già dal suol per lui divelta,

e la natura divisonne:

bruna n’è la radice;

il fior bianco di latte;

Moli i Numi la chiamano […]

Moli (o Môly) come Molly. Il che vuol dire che la pianta miracolosa capace di rendere innocui i veleni - in questo caso il vizio e la depravazione morale che è la lussuosa bisca clandestina - è Molly stessa. Nera alla radice e color del latte il fiore, come l’abito che indossa. La camicetta sotto la giacca ha il colore dell’anima candida. Perché Molly Bloom, nel suo momento di massimo rigoglio (bloom in inglese vuol dire fioritura), splendore ed affermazione individuale agli occhi del mondo, del suo castello dorato è la regina vergine, la mosca bianca, l’eccezione alla regola. Rigorosa, ferma nella sua integrità, in quella rettitudine morale che si fa invisibile corazza contro la perdizione senza ritorno del contesto in cui si muove, Molly non nuota nei soldi che accumula, né ci sguazza fino a goderne fisicamente, come appuriamo invece osservando le vignette del taccagno zio pennuto.

Nel suo accomodarsi con levità e compostezza sul trono di mazzette, quei soldi pare sfiorarli soltanto; di certo non si fonde e tantomeno si confonde con essi. Ne è circondata ma non vi sprofonda dentro né da questi viene sommersa e nemmeno sopraffatta.

C’è una distanza sottile, impalpabile ma evidente tra lei e quel tesoro di banconote che, ad un’attenta osservazione, è possibile notare in maniera distinta. Perché quel denaro per lei rappresenta il mezzo e non il fine. Molly seduta sul suo podio esibisce se stessa. È il trofeo di se stessa. E come il nome che porta, rimane fedele fino in fondo alla sua natura di antidoto contro il marciume che la circonda e che vuole trascinarla con sé per inghiottirla, contro gli infimi livelli di miserabilità umana che è arrivata a tastare con mano. Rimane fedele, fino alla fine, al suo essere (una) sportiva, una campionessa sana, leale, responsabile, ostinata, che non si abbatte alla prima grande difficoltà, che non cerca scorciatoie di comodo per aggiudicarsi la vittoria. Piuttosto che infangare, spezzare vite in modo irreversibile, si rivela per queste stesse una sorta di nume tutelare, quell’essenza medicamentosa senza la quale sopravvivere sarebbe impresa impossibile. La ricchezza dello sportivo si chiama etica. Le vittime del vizio non la posseggono, non l’hanno mai posseduta o l’hanno smarrita strada facendo.

 

 

 

 

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