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Storie italiane. Il divorzio
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Volete che sia abrogata la legge del 1° dicembre 1970 numero 898, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio? Si/No”. Già immaginiamo la risposta di un coevo barone Fefè, in quell’angolo meraviglioso di Sicilia, il quale, qualche anno prima, ha visto incarnare le sue speranze di libertà, le sue possibilità di ripartenza, così, semplicemente, senza condizioni, unicamente per un rigurgito di civiltà di un paese democraticamente ancora infante quale era l’Italia del 1970 (e allora: al bando la faticosa costruzione di una storia alternativa, la ricerca degli spasimanti, degli amanti, l’appiglio a quel codice penale che garantiva impunità a molti mariti, grazie alla fattispecie del delitto d’onore, abrogata soltanto nel 1981.  Semplicemente divorzio, l’uomo e la donna legittimati a separare ciò che Dio ha unito, senza sensi di colpa che non siano retaggio del cattolicesimo e della cristianità democratica – altrimenti detta Democrazia Cristiana -). Peccato che il barone Fefè sia vissuto qualche anno prima (e meno male, diremmo da un punto di vista strettamente cinematografico).

 

È domenica 12 maggio 1974. La Lazio sta per vincere il suo primo scudetto, grazie al pareggio casalingo contro il Foggia (1-1, rigore di Chinaglia. La Lazio: squadra figlia dei tempi, divisa in clan, giocatori che si odiavano tra loro, fino all’uso delle pistole negli spogliatoi trasformati in poligoni di tiro, squadra maledetta e dannata, nella figura mite di Luciano Re Cecconi morto tre anni dopo in circostanze di assurda meccanicità – anni di piombo, con annessi e connessi anche psicologici - . Squadra che pure sapeva ritrovare in campo la perduta unità, un miracolo di belluina genuinità, di ricerca e rinvenimento di un obiettivo comune, che superasse le peculiarità di quell’arcobaleno di temperamenti tempestosi). Tre giorni prima, nel carcere di Alessandria, una rivolta dei detenuti fa ostaggi e vittime (“è stata un’azione meravigliosa condotta magistralmente dai carabinieri”, commenta il procuratore generale della città). Sedici giorni dopo una bomba scoppierà in Piazza della Loggia a Brescia, mentre è in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. E l’Italia perderà un altro pezzetto di quella innocenza entusiastica che aveva iniziato a smarrire nel 1969, con la strage di Piazza Fontana: processo irreversibile che culminerà, nel 1978, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della scorta. Il voto sul referendum abrogativo acquista un’importanza che va oltre le contingenze del momento: è scelta politica e morale, opzione di ritorno al passato o necessità di proiettarsi in un ambito che possegga respiro europeo. È banco di prova di un intero popolo e dei suoi rappresentanti, plasticamente suddivisibili tra fautori della legge e suoi avversari, questi ultimi animati da un ipercombattivo spirito da Crociata. Da un lato settori progressisti della società e della politica (con in prima fila un giovane Marco Pannella, alla prima entusiasmante avventura nell’impervio territorio dei diritti civili), dall’altro l’ala cattolica del paese, capeggiata dall’aretino Amintore Fanfani, furetto che si agita e si dimena a difesa della sacralità ed indissolubilità del vincolo del matrimonio concordatario. E come la mettiamo con quegli esponenti del popolo che, pur essendo profondamente religiosi (beh sì, anche Fefè pregava, magari un po’ svogliatamente,  e tuttavia avvertiva tutto il peso e l’angoscia dell’amore che si allontanava, fino a trasformarsi in arguto e nerissimo facitore del proprio ed altrui destino), non potevano non capire che il fallimento di un matrimonio indissolubile avrebbe rappresentato un vitalizio di inutili sofferenze e rancori? Molti dissero: libertà di coscienza. Il Papa, nell’Angelus domenicale di quel 12 maggio, affidò la scelta del popolo alla Madonna. E il tutto si ridusse ad una questione di croci su una casella e di presenze al seggio. Massicce come non mai.  

 

Uscendo dalla sua casa di Agramonte (in realtà Ragusa), Fefè pensa e ripensa. Devastato da un tic facciale che, secondo vulgata, fu inventato da Mastroianni sul set (e si rivelò un colpo di genio, la raffigurazione per mimica e nevrosi di un’angoscia temperata dalla diabolica scaltrezza), non ha altro pensiero che liberarsi della moglie Rosalia e coronare il sogno d’amore con la giovanissima Angela. Gli vengono in soccorso un nome (Carmelo Patanè) ed il Codice Rocco del 1930, con le sue elucubrazioni sul delitto d’onore. Bisognerà superare soltanto l’ostacolo della flagranza del reato. Poi non ci saranno che sorrisi ed approvazioni dell’intero paese, essendo l’uomo in grado di vendicare correttamente il proprio onore tradito figura degna del massimo rispetto. Nel 1961 Pietro Germi (uomo durissimo, tenace, coerente, problematico) seppe infliggere una salutare coltellata al costato delle convinzioni italiche, ridicolizzandole in un contesto da commedia dell’arte ma dall’altissimo potenziale drammatico, degno di una analisi sociologica condotta con (finti) frizzi e lazzi, in realtà cupissima fotografia dell’epoca. Come e più che in Signore e Signori (ritratto spietato della borghesia bianca del cattolicissimo ed ipocrita Veneto, Treviso quale sineddoche però di un’intera nazione), in Divorzio all’italiana Germi fa politica sotto le mentite spoglie del vaudeville, si dimostra visionario e veggente, confida nella capacità di cambiare le cose con una risata amarissima. Il divorzio era ancora di là da venire, sorta di Godot che nessuno si era ancora preso la briga di aspettare. Il regista lo stilizzò in filigrana, Moloch impossibile, affascinante Totem. Castigat ridendo mores: nella scena finale il raggiante Fefè non si accorge delle effusioni tra Angela ed un giovane ragazzo. Chi la fa l’aspetti: ove non poté il delitto d’onore, potrà (avrebbe potuto) il divorzio.

 

 

E gli italiani lo capirono. 19.138.929 voti per il No (59,26%), 13.157.558 voti per il Sì (40,74%). Il barone Fefè diventa modernariato, le pagine del Codice Rocco iniziano ad ingiallire. Germi ha vinto, la satira ha vinto, l’Italia si lecca le ferite delle lotte intestine, cerca di ripartire da un timido sole di modernità. Ne avrà di strada da compiere e sarà profondamente impervia.

 

 

“Le odiose immagini suggerite da quella infame lettera anonima gli sconvolgevano la mente. Con estrema riluttanza egli però cedette all'impulso di correre a casa per sincerarsi... gli sembrava troppo offensivo verso la diletta compagna della sua vita, ma il tarlo del sospetto si era ormai incuneato nell'animo suo dolente. I suoi passi incerti ed esitanti lo condussero fatalmente davanti alla casa. Tutto sembrava normale, quieto, caldo e riposante. Aveva trovato la casa vuota, il talamo disertato. Travolto dal natural impulso della vendetta era uscito come un pazzo e correva, correva verso la stazione, avanti, avanti, per uccidere... forse! Ma forse anche nella disperata speranza di raggiungere l'infedele e trattenerla, chissà? Ma quando li vide insieme, tutti e due lì, lei e il suo amante…”

 

 

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