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Addio Ermanno!
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 Oggi ci ha salutati un personaggio speciale, una sorta di alieno nel mondo del cinema. Una figura marginale, faticosamente e opportunisticamente eletta a status di “Maestro”, ma fondamentalmente snobbata quando non criticata per larga parte della sua lunga carriera. Nonostante i favori del compianto decano Morandini e di enricoghezzi, nessuno citerà mai Olmi fra i grandissimi del cinema italiano. Molti giovani (e meno giovani) appassionati di cinema e giornalisti in erba neanche lo conoscono. Paga il fatto di essere sempre stato estraneo a quell’ambiente. Figlio di famiglie contadine e operaie, ha fatto l’impiegato alla Edison e ha cominciato coi documentari industriali, veniva da quel mondo lì. Non era un borghese come la quasi totalità dei cineasti italiani; di conseguenza i suoi interessi e il suo carattere erano del tutto diversi da quelli dei suoi colleghi. E’ stato uno dei pochi cineasti a costruire, ad inizio carriera, una poetica centrata sul tema del lavoro e sul suo impatto sulle relazioni interpersonali, cosa che normalmente i registi marxisti si guardavano bene dal fare. Olmi si definiva un “aspirante cristiano”, definizione che racchiude sinteticamente tanto la sua umiltà quanto il sostrato culturale che sorregge le sue opere. Il tema del cristianesimo, spesso trattato in modo anticonvenzionale, permea gran parte del suo cinema, altro motivo che lo ha relegato al margine della scena cinematografica nazionale. Figuriamoci che considerazione poteva avere un cane sciolto come lui, in un sistema che si muoveva su precise ed ineludibili coordinate ideologiche!

 Olmi è stato anche un regista parecchio equivocato, persino dalla parte di critica a lui favorevole, che lo inquadrava quasi sempre come “erede del neorealismo”, “cantore dei semplici e degli umili”, “sobrio narratore di vita agreste” etc...Sì, certo, tutte definizioni che potrebbero anche andar bene per i suoi titoli più celebrati, come “Il posto” e “L’albero degli zoccoli”. Ma Olmi non era solo questo. Olmi era anche e soprattutto un modernista, un innovatore del linguaggio, uno sperimentatore. Prendiamo “I fidanzati” ad esempio. Sembra un film di Alain Resnais, per come reinventa i concetti di Tempo e di Spazio, creando una dimensione puramente mentale ed emotiva. O “Un certo giorno”, con quel montaggio nevrotico e soffocante che trasforma la vicenda del protagonista in un angoscioso flusso di coscienza. Erano gli anni 60, gli anni delle “nuove onde” e Olmi ha dato il suo insostituibile contributo con opere che interpretavano lo spirito del tempo e ne elaboravano le forme, sempre rimanendo fedele alla propria poetica, al proprio sentimento. Opere tra le più mature, insolite e coraggiose del nostro cinema.

 Con gli anni 70, il modernismo impetuoso e sregolato del decennio precedente lasciava il posto agli apologhi, alle parabole, alle metafore. Il cinema si fa allusivo ed enigmatico, e Olmi rimane al passo coi tempi rispettivamente coi “I recuperanti” e “La circostanza”, tanto sarcastico e morale il primo quanto onirico e sfuggente il secondo. Tutte suggestioni che si coagulano nella grottesca satira del potere di “Lunga vita alla signora”, ennesimo suo film trattato con sufficienza dalla critica. Che dire poi della sua seconda giovinezza iniziata all’alba del terzo millennio, che ci ha regalato un film magnifico come “Il mestiere delle armi”, che ha alzato non di poco l’asticella in fatto temi e forme, nel contesto di un cinema italiano che in quegli anni volava bassissimo? E infine i suoi film-testamento, talora imperfetti ma preziosi come diamanti: “Centochiodi”, eresia papa-francescana ante-litteram; “Il villaggio di cartone”, film-forum brechtiano sull’immigrazione, fino al capolavoro “Torneranno i prati”, saggio accorato, proteiforme, poetico e visionario sull’orrore degli orrori, la guerra. Altro film che difficilmente alloggia nelle varie Top 10 dell’anno in cui uscì.

 Ermanno Olmi, come l’altro grande rimosso del nostro cinema: Marco Ferreri. Due figure che più distanti non si può immaginare. Uno (aspirante) cristiano, l’altro ateo; uno pudico, l’altro svergognato; uno umanista, l’altro nichilista; uno francescano, l’altro materialista. Ma entrambi anarchici, provocatori, scandalosi. Entrambi coccolati e poi dimenticati (Ferreri) o, viceversa, sottovalutati, fraintesi e poi tardivamente riabilitati senza troppo entusiasmo (Olmi). Li accosto perché sono i miei due registi italiani del cuore, quelli in cui mi riconosco, nonostante le loro reciproche differenze. Quelli che mi hanno dato di più, che mi hanno suggerito idee di mondo e di vita in cui mi ritrovo. Entrambi lombardi, come me. E quindi a me ulteriormente vicini. Appena letto della morte di Olmi stamane ho sentito l’esigenza di buttare giù frettolosamente queste due righe, nonostante negli ultimi tempi il mio interesse per il cinema sia scemato fino quasi a scomparire. Nessuna analisi però, né playlist o classifiche. Solo la volontà di condividere un ricordo, nella certezza che molti di voi oggi saranno intristiti come me da questa notizia. Olmi non c’è più ma per fortuna la sua opera resta intatta. Riposa in pace, caro Ermanno!

 

 

 

 

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