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Uno sguardo a Est. Far East Film Festival #20.
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Dopo l'esperienza (felicissima) dello scorso anno – edizione n. 19 – sono tornato sul luogo del delitto. Udine. Far East Film Festival, ricorrenza “speciale”: venti anni di una manifestazione così caratterizzata, mirata, che ha permesso non solo un legame preziosissimo tra due terre talmente diverse, distanti, ma anche di creare un nutrito, multiforme, militante, consistente, ritornante manipolo di cinefili e non pronti a nutrirsi come famelici onnivori di cinema orientale.
Di quello quasi esclusivamente “lontano”, invisibile – se non ai festival o in rete, ammesso che ve ne sia conoscenza –, che attraversa le varie anime delle cinematografie asiatiche, da quelle celebri provenienti da Cina, Hong Kong, Giappone, Sud Corea, a quelle meno conosciute (Thailandia, Singapore, Indonesia, Malaysia).
Un ventaglio di offerte spettacolare, un crocevia magmatico tra genere/i, dramma, action, commedia, fantasy, sci-fi (non così raro trovare tutto in un'unica opera: all you can see …): insomma, imperdibile.
[Difatti, tra pause volley femminili, non l'ho perso; persino, come uno zombie disperato bramante carne filmica in salsa teriyaki, sono ritornato al sabato per il gran finale dopo essere spirato il mercoledì all'alba: una cosa pazzesca]
Poi: stessa atmosfera, stesso spirito, stesse folli corse già vissute nel 2017. Gli ospiti portati di peso a presentare le loro opere (sempre gentili, sinceramente commossi, traboccanti simpatia e grazia, talora ebbri confessi di grappa e senz'altro ingozzati di “italian food”), tra i quali mi preme ricordare la grande Moon So-ri e la taiwanese Sung Hsin Yin; gli spettatori e il loro compiuto bagaglio di emozioni/espressioni dipinte in volto (ora assopiti ora eccitati ora sperduti ora estenuati ora frementi ora incontinenti); i sottotitoli ubriachi; i brani sparati tra una proiezione e l'altra (perlopiù rivenienti dal rock alternative targato anni novanta: Pearl Jam, Nirvana, Blur, My Bloody Valentine!); il corpo dei giovanissimi, validi volontari (ribadisco il pensiero espresso un anno fa: date loro giusto riconoscimento, per tutti gli udon!); la direttrice del festival, Sabrina Baracetti, sgambettante e dall'entusiasmo contagioso (ma anche dai vestiti non proprio impeccabili e armata di scarpe improponibili).
Eccetera. Fate un salto. O due.

Superfluo sottolineare quanto impagabile sia avere accesso a una tale prospettiva di visioni. Anche le più sciocche, fuffose (e ce ne sono, eccome!). Mi limiterò, quindi, come di consueto, a elencare quanto i miei bulbi oculari hanno visto con annesse breve considerazioni personali.
Gli inviati sul campo – agli infaticabili replicanti Alan Smithee e Supadany si sono uniti il giovine, appassionato EightAndHalf e il saggio, vulcanico nonché (s)phonato Rototom – hanno documentato con i loro brillanti resoconti i film a cui hanno assistito.
Divergenze di opinioni, convergenze inaspettate (il musical-drama filippino …), ricorrenze immancabili (pausa-bagno, pausa-spuntino, pausa-sole, pausa-smartphone, pausa per osservare la fauna umana, in particolar modo femminile …) ma soprattutto voluttuose pause ristoratrici (sushi, hamburger, focacce, panini: che altro?) hanno animato il dibattito, cementato il gruppo, effuso armonia.
Tradotto: filmtv.it ha invaso e conquistato pure Udine (ok, ai f#@@*=i ro@@i in c£&# di mymovies lasciamoli pure inventare premi ad minchiam prontamente sbeffeggiati dal premiato!).
Che ci manca, ancora? Il Sundance? Toronto? Il festival della porchetta di Pork City? Casa vostra?
Right, la pianto qui. Qui: Qui: Qui: Proprio qui: qui.

A seguire, come si accennava poc'anzi, i film visti in rigoroso peloso ordine cronologico, con relativi commenti e voti. Insindacabili.
A meno che voi non siate la bassista supersexy di City of Rock.

[i migliori: Night Bus, On Happiness Road, The Portrait, City of Rock; i peggiori: Trascendent, Forgotten, Gatao 2: The Rise of the King]

«Spaghetti? No, noodles



1) Midnight Runners.
Action comedy sudcoreana convenzionale ma non priva di momenti divertenti, è una versione moderna, spinta e a rotto di collo (i due protagonisti corrono, appunto, anche per andare in bagno), di Scuola di polizia. Il fattore “impegnato” (i pivelli cercano di sventare una pericolosa organizzazione criminale che traffica in schiave) per darsi un tono, l'interfaccia esclusiva con le due simpatiche canaglie e loro (prevedibili) disavventure (accademiche, lavorative, sentimentali), la subalternità dei comprimari appena abbozzati (l'inflessibile superiore, “Medusa”, avrebbe certo meritato maggior minutaggio), l'animo buono/buonista e il lieto fine condito di morale e lezione “imparata” (da tutti, ottuse alte autorità in primis) sono congegni classici di un prodotto di mero intrattenimento ben eseguito e godibile il tempo della visione.
voto : 6

2) Side Job.
Probabilmente la prima opera in assoluto che affronta le conseguenze del disastro nucleare di Fukushima (nei cui pressi “decontaminati” vi è altresì ambientato) concepita e realizzata da un autore originario di quelle terre, Ry?ichi Hiroki , navigato regista (un lungo curriculum tra tv e cinema, tra cui Tokyo Love Hotel del 2004) che con Side Job parla di/a coscienze interrotte, ferite nell'intimo, a galla in una terra di nessuno, dimensione nella quale le tragedie subite e la stagnazione del presente indirizzano verso un'agognata via di fuga. Il “secondo lavoro”: passare la giornata alle slot, fare la escort nella marea umana di Tokyo. Dialoghi essenziali, atmosfere sospese, musiche suggestive, tematiche profonde, partecipazione intensa: un oggetto prezioso, in punta di piedi, che colpisce dritto al cuore.
voto : 7

3) The Outlaws.
Un budspencerizzato Ma Dong-seok (faccia vista tante volte, noto da noi in particolare per One on One di Kim Ki-duk e Train to Busan) abita questo film di azione tutto cazzotti. Stucchevole fino all'esasperazione per l'assenza di armi da fuoco, The Outlaws si caratterizza più che altro per l'elevato tasso di derivatività: tutto risaputo – dalle dinamiche gangsteristiche e poliziesche ai sussulti di ritmo – tutto già visto e prevedibile. Il massiccio attore domina la scena ed è azzeccatissimo. Ma non basta a salvare il film dalla medietà.
voto : 5

4) Take me to the moon.
La luna è un pretesto buono per dare luce a una commedia romantica innervata di fibre fantasy: il vecchio amore mai dichiarato del liceo trapassa, dopo un'esistenza per nulla da diva pop come talento e bellezza avevano lasciato presagire, allora a Wang è “concesso” di tornare indietro nel tempo (grazie a dei fiori magici datigli da una vecchia male in arnese sputa-sentenze) e sistemare le cose, anche a costo di ferirla. Vivian Sung è presenza deliziosa, la ragazza sempre al centro dell'attenzione di cui a scuola ti saresti inevitabilmente innamorato. Superfluo dire che – visto che dal corredo sentimentale giovanilistico emergono solo capi arcinoti mentre si gioca tra paradossi temporali e sospiri in odor di melodramma – Take me to the Moon è destinato esclusivamente a un pubblico di adolescenti.
voto : 5

5) The 8-Year Engagement.
Da un punto di vista narrativo siamo a un incrocio tra La memoria del cuore e The Big Sick più The Five-Year Engagement con assunto “ispirato a fatti veri”. Il tocco però è squisitamente giapponese: il rigore della messa in scena (la mdp evita enfasi di sorta), il garbo e la sensibilità nel trattare tracce rischiose (la malattia, l'amore dimenticato, i rapporti con la famiglia della promessa sposa, la solitudine, il tempo che inesorabilmente scorre) nonché l'asciuttezza di dialoghi e volti definiscono un'opera strutturata che non mancherà di emozionare sinceramente il pubblico.
voto : 7

6) City of Rock.
Una fottuta catarsi per tutti gli amanti del rock! Demenziale finché si vuole (e lo si vuole, eccome!) ma diretto, coinvolgente ed esplosivo come un pezzo che ti entra nel cervello ed esce a pieni polmoni. In City of Rock il florilegio ragionato e succulento di citazioni (da Zakk Wilde ai Def Leppard a Jack Black ai Blind Melon ai Nirvana, mentre il cantante della vecchia band di medici intona come fosse Phil Anselmo, per dire) è una corona che cinge teste danzanti a suon di musica del diavolo. Di cui coglie splendidamente lo spirito riottoso: il protagonista, un ciccione un po' tardo un po' gaio un po' disperato tantissimissimo divertente, è in missione per conto degli dei del rock. Ritmo infernale, personaggi ben congegnati (tutti hanno un corrispettivo, o più d'uno, con vere star …), storia genuinamente strumentale, camei di divi cinesi e un umorismo idiota/esilarante rendono uno spettacolo travolgente che manderesti in loop come uno dei tuoi brani preferiti. E quella bassista sexy e alcolizzata …
voto : 7,5

scena

City of Rock (2017): scena

scena

City of Rock (2017): scena

scena

City of Rock (2017): scena



7) The Battleship Island.
Vero e proprio filmone, The Battleship Island: Director's cut (attenzione: rispetto alla scheda presente in database questa dura 151 minuti): per dimensioni produttive (sebbene quei ben “21 milioni” di budget facciano sorridere: è proprio un altro mondo), per ambizioni, per il tentativo di tracciare il solco definitivo in una delle pagine più buie e sanguinose della Storia. Isola giapponese di Hashima, sul finire della seconda guerra mondiale, teatro di deportazione di cittadini sudcoreani resi schiavi minatori delle risorse del luogo (rifornimento essenziale per fabbricare armi). La ricostruzione del set è impressionante; e impressionanti sono le scene di massa, il côté guerresco, il realismo estremo, la portata spettacolare dell'azione, i risvolti drammatici, il ritmo impetuoso, il nero, viscoso carbone che pare attraversare lo schermo, la bambina protagonista (un talento pazzesco, un'espressività fuori dai canoni), la crudeltà dei tiranni (giapponesi e non solo, vista la presenza di fiancheggiatori, infiltrati compatrioti). E l'epicità lirica della sequenza finale di combattimento: toglie il respiro, letteralmente. Certo sono presenti accenni retorici, accettabili nel complesso. Ripeto: filmone.
voto : 7,5

8) Forgotten.
Fino a mezz'ora, regge. Poi s'incarta. Più o meno quando deve iniziare a tirare le fila del discorso, tenuto su da un'impalcatura thriller suggestiva che semina indizi e apre porte un po' ovunque. Quella al centro del film – si fa per dire – è una porta che apre uno scenario a cui non avresti pensato. Forse perché è impensabile il modo in cui ci si arriva, in effetti. La ricerca spasmodica dell'effetto-sorpresa, peraltro innescata da un tema evidentemente caro (vedasi H, o quel Bluebeard passato un anno fa proprio al Feff) – come ad alzare l'asticella in un genere ormai saturo, che in patria (la terra di Memories of Murder, per dire) sembra essere scemato da un po' –, genera confusione narrativa e rivela mancanza di idee. Valide alcune singole sequenze ma è troppo poco.
voto : 4

9) All Because of Love.
Vabbè, tipica operetta teen che nel tipico linguaggio pop contaminato (musical, comedy, dramma, manga, romance, fantasy) cerca un modo per evadere da una gabbia narrativa tanto gonfia di fatti quanto scontata nelle sue diramazioni. Tentativo che non va a buon fine: risoluzioni ridicole si alternano a momenti più riusciti (invero, pochi), mentre la sensazione di sostanziale disinteresse non abbandona mai la visione del film. Interessante, unicamente, il volto della ragazza che legge nel pensiero, interpretata da Dara Hanfman (i geni misti occidentali e orientali hanno prodotto una bellezza notevole).
voto : 4

scena

All Because of Love (2017): scena



10) Transcendent.
Tra flashback, toni esaspera(n)ti e idee rubacchiate un po' qua un po' là (praticamente tutto quello vi possa venire in mente in un catalogo sci-fi, immancabilmente c'è), un film che non trascende la sua natura di pacco. Siamo in territorio di fantascienza emozionale, riflessiva: due palle, in sintesi. Se il racconto è farraginoso all'ennesima potenza, la rappresentazione urla tronfia da ogni pixel; risibili, infine, il portato teorico e l'enfatica materia melodrammatica. Una fuffa indigeribile e indigesta. Astenersi esseri non trascesi già nell'aldilà.
voto : 2

11) The Promise.
Ok, storia di fantasmi. Quello di un'amica (rievocata per caso) morta suicida vent'anni addietro, che intende far rispettare alla ex sodale (e alla di lei figlia …) il patto, sorto anche a causa della devastante crisi economica asiatica che colpì i genitori, soci costruttori di un grande palazzo. Un soggetto che i tipi della Blumhouse trasformerebbero in oro al botteghino. Realizzando l'ennesimo prodotto standardizzato. Invece – per fortuna – The Promise è terra thailandese: quantunque i meccanismi horrorifici siano tasselli noti, l'abilità da parte del regista nel creare atmosfere inquietanti e sfruttare location (dal grattacielo infestato all'appartamento in cui vivono madre e figlia perseguitate) nonché ad amalgamare un discorso nient'affatto banale sugli effetti delle crisi (economiche, familiari, relazionali, esistenziali) cementifica solidità e struttura del film, senza fare sconti (il bambino terrorizzato a morte ha tutta la solidarietà del mondo) e sapendo altresì utilizzare la mdp e i formati attraverso i quali veicolare brividi e tensione.
voto : 7

12) On Happiness Road.
Racconto con cenni autobiografici in forma di animazione: da Taiwan la regista Sung Hsin Yin compone un originale, sincero affresco tanto identitario quanto formativo e politico. Il disegno dalle linee essenziali, spontaneamente elementari (nei personaggi, mentre è florido in sfondi e dettagli e volteggi fantasiosi), dai toni colorati e superbamente vivaci, restituisce un'idea viva e vibrante, poetica e concreta, pop e riflessiva. Nella storia di Chi – plasmata tra il passato da bambina appena trasferitasi con i genitori in Happiness Road e il presente di un ritorno da adulta dagli Usa per il funerale dell'amata nonna – albergano i pensieri e le oscillazioni emozionali di una giovane donna che riflette su sé stessa, i conflitti interiori, i sogni, la realtà, i ricordi, la famiglia, il suo (complicatissimo) Paese. Con sguardo lucido, sensibile, tenace: la costruzione animata del racconto svela un'anima capace di toccare le corde giuste dell'animo umano. Astenersi fan della Disney.
voto : 8

locandina

On Happiness Road (2017): locandina


13) 1987: When the Day Comes.
Vincitore del concorso (e di un altro premio collaterale), 1987: When the Day Comes è un solido dramma politico-storico che pone al centro dell'attenzione gli accadimenti che portarono alla massiccia protesta contro il brutale regime militare di Chun Doo-hwan, a un anno dalla rinascita democratica simboleggiata dalle Olimpiadi di Seul del 1988. Gli accenni alla vicenda di Gwangju (attraverso brevi filmati d'epoca), narrata in A Taxi Driver, passato anche all'ultimo Torino Film Festival, più che creare un (curioso) collegamento, rivelano quanto quel passato sia ancora oggi sentito in Corea del Sud dalla collettività tutta. Un collante attorno al quale si muovono i personaggi, che siano realmente esistiti (i due studenti uccisi dal reparto di polizia investigativa anticomunista) o inventati ma funzionali al racconto: la coralità dell'operazione permette all'opera, stretta tra inevitabili esigenze del cinema di impegno civile (narrative, contenutistiche, estetiche), di respirare, di compiersi, di articolarsi e interfacciarsi con lo spettatore in maniera efficace. Buono il lavoro in cabina di regia di Jang Joon-hwan. I maggiori applausi sentiti in sala …
voto : 6,5

14) Gatao 2: Rise of the King.
Non ho idea di come fosse il primo Gatao. Mi dicono un pochino meglio, ma comunque orribile. Lanciato come “nuova era del gangster movie” (sic!), Gatao 2: Rise of the King, da Taiwan, è un'accozzaglia incredibile di residuati da altri simili, scritta malissimo e diretta peggio. L'azione latita, le sequenze di scontri tra gang generano ulteriore caos, la ricercata seriosità ammorba, le Lamborghini affascinano ma basterebbe un'esposizione, non un (presunto) film. Pessimo.
voto : 3

15) The Tailor.
Giusto per uscire un attimo dal triangolo Giappone-Cina-Sud Corea, una commedia battente bandiera Vietnam. Colorata, esotica, leggera. Femminile. Come il dannato Áo dài, tradizionale vestito vietnamita, che la giovane ribelle Nhu Y, rampolla della più celebrata casa di moda della Saigon degli anni sessanta, si ostina a non voler imparare a realizzare, presa com'è dal fashion occidentale. La catapulta nella stessa città nell'anno di grazia 2017 per mezzo di un amuleto “magico” (vabbè, una costante) è l'innesco di una intuibilissima sarabanda dal registro brillante e dal buon ritmo; non priva, ovviamente, di “messaggio”. Tra un plagio spudorato de Il diavolo veste Prada, siparietti comici (e almeno una battuta da ricordare riguardante l'uso di google come mezzo per trovare un accessorio perduto anni addietro …), canzoncine e le innumerevoli cuciture citazioniste, il film, pur non elevandosi manco per un secondo da quel che è – ovvero una normalissima commedia – se non altro ha il merito di alleggerire il carico delle (troppe) pellicole pretenziose passate in rassegna …
voto : 6

16) The Portrait.
“Musical drama filippino di due ore” (in aggiunta tratto da un'opera teatrale) deve aver spaventato molti. Compreso il sottoscritto. E invece. Posto che, personalmente, ci ho messo parecchio a “entrare” nel film, una volta varcata la soglia ne ho potuto apprezzare la costruzione, le interpretazioni, il lavoro sul set, persino il canto. Tutto ruota intorno a un ritratto dal soggetto “omerico” realizzato da Lorenzo 'il Grande' e ora possibile oggetto di riscatto da una vita divenuta povera per le due figlie del pittore Candida e Paula. Il ritratto si vede pochissimo, fuori fuoco (a un certo punto ho sperato che nemmeno esistesse, come fosse un'astrazione, un effetto straniante dalla rappresentazione che ne irrobustisse, per paradosso, la carica ideologica e critica): il focus è la condizione delle sorelle nella casa paterna e nella Manila alla vigilia della seconda guerra mondiale, la ricerca “verghiana” di migliorare la propria esistenza in uno stato delle cose paludoso, immobile. Il cantato si fa vettore essenziale di un lirismo che è sostanza e forma, convogliate nel teatro-luogo di scena (il film è quasi interamente ambientato in casa) nel quale la mdp, con dinamismo e fluidità sorprendenti, compie una superba opera di avvolgimento e propagazione. Fondamentale l'ironia, impagabili attrici e attori.
voto : 8

[Sabrina Baracetti, assieme all'attrice Rachel Alejandro (Paula - la terza nel gruppo) e al regista Loy Arcenas (il quarto)] 

17) The Scythian Lamb.
Black comedy nipponica tratta da un manga, The Scythian Lamb parte da un assunto curioso: una piccola cittadina sulla costa per fronteggiare una situazione demografica a rischio (il popolo invecchia, i giovani emigrano nelle grandi città), stringe un accordo con le autorità per far scontare dieci anni di libertà vigilata a detenuti rilasciati anzitempo. Il giovane protagonista, impiegato comunale incaricato di mettere a proprio agio i nuovi abitanti, è all'oscuro (così come chiunque altro): dalla scoperta del fatto nasce quello che prima è un gioco degli equivoci e poi un thriller. Meglio il versante comedy che non quello crime (risolto comunque grazie a un inserimento “soprannaturale” riguardante la statua raffigurante il mito Nororo), ma l'eleganza e la compostezza degli autori nel trattare soprattutto (con) il grottesco, e la galleria variopinta di personaggi convincenti, rendono l'opera riuscita, stratificata. Tra gli attori da segnalare il divo Ryuhei Matsuda (visto al FEFF 19 con My Uncle, e interprete noto per Izo, Tabù – Gohatto, Nightmare Detective) che qui fa suo il temibile ex detenuto Miyakoshi.
voto : 7

18) The Running Actress.
Accolta giustamente dal tripudio del Teatro Nuovo, la grande Moon So-ri esordisce alla regia con un film che parla di una grande attrice non più giovanissima in fase discendente … Ci ha tenuto a sottolineare la finzionalità dell'opera (altrimenti ne avremmo tutti scorso la filmografia al fine di rintracciare tra i registi quello molesto e incapace …), ma è impossibile che non vi siano cenni autobiografici. Ciò detto, felici risultano la misura con la quale impagina i tre atti, ricolmi delle situazioni assurde, delle contraddizioni e dei momenti grotteschi nella vita (lavorativa e personale) di una donna-attrice, così come tutto il corredo ironico e autoironico e la capacità/volontà di mettersi a nudo. In controtendenza – per fortuna, una volta tanto! – l'esiguità del minutaggio.
voto : 7



19) The Blood of Wolves.
Schemi risaputi e dinamiche già viste in questo yakuza movie. Luogo-genere di criminali e crimini efferati, guerre sanguinose tra bande rivali, poliziotti corrotti, danni collaterali. Non manca niente, c'è tutto (di troppo). Pure i metodi, l'aspetto e la conformazione di Ogami – il detective corrotto – sono cosa nota. Però. Sebbene il film non si discosti né dalle norme del genere né da una convenzionalità rassicurante, da salvare almeno una certa dose di violenza gratuita che non risparmia dettagli cruenti (tipo l'asportazione di un testicolo) scatenando un minimo il guilty pleasure.
voto : 5,5

20) One Cut of the Dead.
Lanciato – con infingarda provocazione – come “il pianosequenza definitivo”, One Cut of the Dead – presentato in anteprima mondiale con ben otto individui tra regista, produttori e attori (tutti facendolo in italiano e con forte sospetto di grandi bevute di grappa, prima e dopo …) – è un'intelligente operazione teorica a bassissimo budget e con impiego (palese) di materiale umano non proprio di prima scelta. In sintesi, è un pov che però non è/non può essere un pov. Diviso, diciamo, in tre “atti”. Il secondo, quello mostrato/filmato dopo la trasmissione in diretta del finto making of di un film di zombie (il primo), chiarisce le cose. Il terzo, brevissimo, sui titoli di coda, scava ancor più nella metatestualità dell'opera. Se i primi quaranta minuti sono una scorribanda frenetica, esilarante, incontenibile, la (troppo lunga) stasi successiva – per quanto necessaria a fornire il contesto – corrispondono a un'infiltrazione mortifera, per poi risollevarsi con un carico sempre esilarante, di irresistibile portata, ma anche riflessivo, fino alla spettacolare chiusa. L'acerbità delle forze in campo è evidente ma non è un male, in fondo.
voto : 7,5

[il nutrito manipolo di One Cut of the Dead. Poi si so' fatti un selfie. E altre bevute, a occhio e croce ...]

21) The Legend of the Demon Cat.
Diretto dal Chen Kaige di Addio mia concubina, The Legend of the Demon Cat è un fantasy-mistery film in costume ambientato durante la dinastia Tang e che attiene a una delle tante leggende cinesi. Con la figura del gatto nero indemoniato, autore di atroci delitti e portatore/vittima di una terribile maledizione, si poteva pregustare qualcosa di insolito, particolarmente folle e grottesco. Invece è il solito fantasy manierato appesantito da una CGI pessima, da una componente estetica tronfia, da una verbosità ammorbante, da flashback pesanti. Il minimo di fascino risiede nella storia, tipicamente appartenente alla mitologia cinese, per temi e tempi. Splendida la concubina imperiale Yang Guifei (la cui leggendaria bellezza accende il precipitare degli eventi) interpretata dalla taiwanese Sandrine Pinna.
voto : 4

scena

The Legend of the Demon Cat (2017): scena



22) Last Child.
Caratteristico dramma sudcoreano a tinte forti diretto dall'esordiente Shin Dong-seok, Last Child si dipana tra esistenze interrotte in seguito alla morte di Eunchan: i genitori, annientati, e il coetaneo del ragazzo defunto Kihyun, salvato proprio dallo stesso Eunchan. L'incrocio casuale tra l'introverso, tormentato Kihyun e la coppia genera un cortocircuito nel quale trovano sede naturale sensi di colpa e verità sepolte, vendetta e rimorsi, elaborazione del lutto e incapacità di affrontare la quotidianità, vuoto angoscioso e grovigli familiari, dolore e disperazione. Messa in scena rigorosa e commozione imperativa: tutto un po' troppo automatico, ma i meriti non mancano. Finale troppo elaborato, pecca in credibilità.
voto : 6,5

23) Chedeng and Apple.
Un pene imbustato fa continuamente capolino in scena: in faccia alla figlia che sì, lo conosce benissimo il pene di suo padre probabilmente defunto (ehm …), salutato come “prova” in quanto corrisponde alla parte mancante del morto, sullo sfondo in mano a poliziotti mentre altri in primo piano investigano e fanno domante. Ma non di peni parla Chedeng and Apple, commedia nera filippina assimilabile in parte a Thelma & Louise, di cui riprende due donne in fuga – le ultrasessantenni Chedeng e Apple – dopo una vita passata, l'una accanto al coniuge infermo, l'altra vittima delle violenze reiterate del marito. Di pene, semmai. Una fa finalmente coming out, l'altra – rea dell'uxoricidio di cui sopra – l'accompagna alla ricerca dell'amata perduta decenni prima. Un vortice di humour dissacrante, due splendide protagoniste (la “diva” Elizabeth Oropesa era presente in sala: irresistibile), uno sguardo attento alle istanze femminili, un on the road che è anche viaggio alla scoperta di sé, una borsa di Louis Vuitton contenente la testa del marito trapassato: una ricetta semplice per un film che scatena il plauso generale.
voto : 7

Gloria Diaz, Elizabeth Oropesa

Chedeng and Apple (2018): Gloria Diaz, Elizabeth Oropesa



24) Night Bus.
Dall'Indonesia con furore. Night Bus si staglia lungo i suoi 131 minuti con una formidabile gestione di ogni componente: narrazione e recitazione, tensione e azione, tragedia e lirismo, dinamismo e ritmo, contenuti e forma, sporcizia fisica e morale. Avvincente e adrenalinico, ospitante una fauna umana di straordinaria aderenza e credibilità, il film sa toccare le corde giuste che vibrano impulsi geopolitici e storici; mentre sfreccia superbamente nel precipitarsi ansiogeno degli eventi e veicola con ardore il drammatico crescendo della tensione, con picchi nell'orrore e nell'angoscia più puri che sfociano in un finale superbo, sospeso in un piano di silenzi e ombre che sanciscono la vittoria del male (la guerra) e dei mali (gli uomini e le loro azioni). Un'intensità costante tiene incollati occhi e cuore e pancia allo schermo: Night Bus esplora sia le arterie conflittuali della natura e dell'animo umani che le traiettorie visive ed espressive del genere, con sequenze – ottimo il girato – che si ergono con efficacia e forza impressionanti. Spettacolare.
voto : 8,5


[la Baracetti con il regista Emil Heraldi e il produttore]

25) Throw Down.
Signore e signori, Johnnie To. Posto in chiusura, alla presenza del grande cineasta di Hong Kong (al quale è stato consegnato il dcp oggetto di restauro), Throw Down rimesso a nuovo (sì che è del 2004 …). Un prontuario della maestria registica di To, una partitura illuminata di sequenze memorabili (su tutte, la fuga dalla sala di gioco d'azzardo, da mostrare nelle scuole), un'impetuosa ricerca espressiva: la forza delle immagini contiene un'etica che si libra al di là di qualunque recinto narrativo, di schemi precostituiti. L'azione è avvolgente e penetrante, dotata di fluidità cinetica e respiro ampio; l'atmosfera è pregna di una carica tetra e dolente; il passo è straordinariamente lieve e attraversato da una grazia costante; il concerto delle azioni e scelte dei personaggi terminale e romantico, vivo e vivido. Storia – quintessenza di destini traviate e redenzione – e (meraviglioso) trio di protagonisti completano un affresco sfolgorante, stratificato, suggestivo.
voto : 9

[la consegna del "pacco"-dcp a un attonito, elegantissimo Johnnie To]

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Scorci fareastfilmfestivalieri

 

[come a dire: io c'ero]

[la marea umana al feff]


[cinefili gente affamata ... di film]

[a dieci metri di distanza ci sono praticissimi bidoni, appena fuori dal Teatro ... ma vuoi mettere la soddisfazione di fare canestro con una buccia di banana?]

[quei brutti ceffi di filmtv.it. Vogliamo le t-shirt brandizzate da portare con l'orgoglio dei giusti! --- foto fatte o fatte fare da Fabio/Alan Smithee]

 

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