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Far East Festival 20 - giorno 3
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Giorno 3
Beh, non ce l’ho fatta ad alzarmi.
Il film delle nove di mattina non fa per me. L’efficienza del Far East Festival è un ibrido tra l’organizzazione del nord est e la psicotica adesione all’ordine protocollare dei coreani. C’è un programma? Si segue.
Dalle nove ingreesso pubblico, presentazione ospiti, film, applausi, fuoriuscita pubblico. Attesa media di circa dodici minuti e si ricomincia fino a notte fonda con film che molto spesso sforano le due ore. E’ un ritmo marziale che impedisce di andare oltre il commento superficiale all’uscita della sala. Gli sguardi si cercano, cenni di assenso o dissenso, una bottiglietta d’acqua e una mela e poi ci si disperde nel grande Teatro Nuovo.
Alla festa del cinema di Roma è diverso mi dicevano, c’è più tempo tra un film e l’altro, puoi parlarne e scriverne, più rilassato. E ‘sti cazzi, è Roma. Il luogo dove la dilatazione temporale fa parte della storia come i sampietrini, il cupolone e il Tevere. .

Non ce l’ho fatta ad alzarmi presto e ho bighellonato poi per la città perdendomi nelle piazze e nei vicoli. Seduto al sole nel prato del Teatro Nuovo, i souvenir per casa, un dvd e un caffè al bar del teatro. Tutti molto gentili e sorridenti gli addetti al Festival, giovani e implumi studenti - stagisti ordinati nelle magliette rosse, tanto incerti quanto volenterosi, forse un po’ stupiti nell’osservare il serpentone di spettatori che esce da una porta e senza soluzione di continuità si rimette in fila in quella successiva. Sarebbe bello chiederlo, cosa ne pensano. Magari lo faccio.

 

City of Rock di Da Peng

Dalla Cina con ardore. Hu Liang ha un sogno: salvare il mitico parco del rock della sua città minacciato dai soliti spietati speculatori, con un concerto rock che risvegli l’ardore per la musica degli abitanti, ormai sopito. Si affida a un agente fallito, Gong e ad uno scalcagnato pugno di musicisti reclutati alla buona la prima. City of Rock è una farsa musicale colorata e ingenua sul ruolo della musica, i sogni e gli obiettivi di vita, riscatto personale. Farsa perché i personaggi sono delle e vere proprie maschere grottesche che durante i 117 minuti del film ce la mettono tutta per imbastire gag dall’umorismo demenziale. Tutto l’impianto del film è registrato sull’esagerazione dei caratteri e le situazioni comiche ma a parte qualche lungaggine nella parte finale, il film ha un ritmo serrato e una spavalderia trash che non possono non divertire. Le risate arrivano genuine e sono sostenute da una serie infinita di citazioni e rimandi al mondo della musica rock, hard rock e metal. Anche se il gruppo composto da un cantante bleso, una ragazza con una gamba rotta, una bimba delle elementari, un batterista che suona con la schiena al pubblico e un ginecologo ex chitarrista, sia più una band pop rock easy listening il gesto delle corna si spreca, come le pose e la traballante filosofia del musicista che sacrifica tutto per il sogno.
Manca solo il sesso, la droga e il rock, quello vero.

scena

City of Rock (2017): scena

Dear Ex di Hsu chin yen

Dramma famigliare con punte di commedia. Da Taiwan una storia moderna, di famiglie allo sfascio e d’amore non convenzionale. Madre e figlio vengono abbandonate dal padre che accetta la propria natura di omosessuale e va a vivere con l’amante, un giovane regista di teatro. Quando l’uomo muore la famiglia originaria scopre che il beneficiario della polizza di assicurazione è proprio l’amante. Si innesca quindi una disputa prima economica per sfociare poi in guerra dei sentimenti e di rivelazione del sé.

Funziona, Dear Ex, soprattutto nella prima parte dove il conflitto assume i toni della tragedia che sconfina in una comicità a tratti acida. Lo scontro generazionale tra madre – isterica, ossessiva e iperprotettiva – e figlio, consapevole dell’omosessualità del padre e deciso a conoscere il compagno di lui è l’aspetto più importante del film. Al di là dei generi, la capacità di guardare nell’anima altrui è necessaria per vivere una vita decente mentre non c’è nessun accenno moralista. Alla regista Hsu chin yen non interessa impartire lezioni, piuttosto segue i suoi attori con pudore senza dare alcun giudizio. Il film è girato con la collaborazione di un videomaker e disegnatore, Mag Hsu, che letteralmente disegna su pellicola i tratti emotivi dei personaggi mostrando in modo originale il mondo interiore di ogni carattere.

Colorato e vivace recitato molto bene soprattutto dall’attrice protagonista, il film perde poi un po’ di mordente quando necessariamente deve sostituire al tratteggio del personaggio una più solida meccanica di risoluzione di tutti i tratti narrativi aperti, risultando un po’ stucchevole e eccessivamente melanconico. Rimane comunque un’opera di grande interesse per temi e messa in scena.

 

scena

Dear Ex (2018): scena

The Battleship island: director’s cut di Ryoo Seung wan.

Ancora Ryoo sul grande schermo del Teatro Nuovo di Udine. Ancora con il divo del cinema popolare e action Hwang Jung min in un superblockbuster bellico che rievoca una pagina dolorosa della seconda guerra mondiale.
Nel 1944 a ridosso della fine della Seconda Guerra mondiale, un gruppo di rifugiati coreani tra cui i componenti di un’orchestra jazz con il loro conduttore e la figlia, vengono attirati sull’isola di Hashima, al largo del Giappone con la promessa di essere impiegati come operai e guadagnare soldi. In realtà l’isola è una fortezza che sorge su una miniera di carbone che l’Impero usa per rifornire l’esercito e che usa i coreani come schiavi.

Un’altra pagina della storia racconta le nefandezze dell’Impero del Sole nei confronti dei coreani e lo fa con la chiave del cinema action bellico e una messa in scena monumentale. Due ore e trenta tirate con un ritmo narrativo forsennato, urgente come l’urgenza di sopravvivere anima le vite dei carcerati soggiogati dal feroce razzismo giapponese. Interessante come esistano all’interno del film vari generi cinematografici – il genere bellico, escapista, prison, dramma – tenuti in equilibrio tra loro e come di fatto sia una potente opera corale con i personaggi che di volta in volta si appropriano della scena quando la loro storia si fa importante nell’economia generale del film.
The battleship island è una storia vera, romanzata, nella quale oltre ribadire il ruolo di aguzzini dei giapponesi nei confronti del popolo coreano, fuoriesce in maniera potente anche una condizione espressa anche in altri film: il peggior oppressore di un coreano è il coreano stesso. La lotta interna al gruppo coreano, chi fedele al Giappone e chi vorrebbe fuggire, con un personaggio mediano che trasuda ambiguità, è forse la parte più interessante del film, metafora forse premonitrice di quella divisone dolorosa che la Corea subirà subito dopo la  fine della Seconda Guerra Mondiale.
Tutta la potenza produttiva viene messa in campo poi durante gli ultimi 40 minuti quando, organizzati per fuggire proprio mentre gli Americani stanno sferrano l’attacco decisivo contro il Giappone, i coreani si scontrano con i giapponesi decisi a sterminarli per eliminare le prove delle loro malefatte.
Una scena di guerriglia totale, con centinaia di comparse che ha richiesto più di un mese di riprese ma che restituisce tutto il sapore del grande cinema bellico riuscendo a chiudere tutti i conflitti emersi durante il film.
Se si vuole muovere un appunto, l’unico, è forse l’eccessivo manicheismo di alcuni personaggi, giapponesi soprattutto, ma d’altronde è un film di genere che ha buoni e cattivi, e i cattivi a quel tempo, razzisti e imperialisti erano i soldati giapponesi.
Si esce realmente emozionati da questo film, consci di aver assistito ad un vero e proprio esercizio di cinema.

 

Ji-seob So

The Battleship Island (2017): Ji-seob So

Forgotten di Jang Hang jun

Forgotten è un pasticcio senza senso. La prima stroncatura non può che essere per questo thriller che dopo venti minuti mostra già la corda in una sequenza invereconda di contraddizioni e voragini di sceneggiatura.
Una famiglia composta da padre madre e due figli si trasferisce nella casa nuova dove c’è una porta che non deve mai essere aperta. Un figlio ha problemi d’ansia, l’altro viene rapito sotto i suoi occhi.

Un film che vorrebbe essere un mistery con la strizzata d’occhio alla ghost story ma che riesce a sbagliare tutti i bersagli possibili. Da metà film in poi cominciano gli spiegoni e i flash back esplicativi di misteri sconclusionati e telefonati fin dal primo istante.
Non dirà di più. Peccato però, perché ad onor del vero la capacità di messa in scena almeno all’inizio, era risultata efficace. Ma la scrittura, accidenti, la scrittura!

scena

Forgotten (2017): scena

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