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La fine della serie tv
di Database
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Ho visto un documentario straordinario e non so come mai non conoscessi la vicenda che tratta, visto che è una storia che ha avuto una grandissima eco internazionale e che si colloca in tempi per me “storici”: i primi anni ’80. Si tratta di Wild Wild Country, apparso su Netflix, che racconta la vicenda di quando il guru indiano Osho si trasferì nell’Oregon, fondando la comune di Rajneeshpuram. Lo consiglio a tutti: non tanto per come è stato fatto, ma proprio per ciò di cui parla. La vicenda ha narrativamente i caratteri di una vera tragedia: non c’era bisogno di essere bravi, bastava raccontare per bene e in circostanziato ordine i fatti che si svolsero in quel luogo. Quel che accadde fu talmente incredibile e pieno di svolte narrative, di capovolgimenti e di figure davvero uniche che il film si è fatto quasi da sé, mettendo in fila gli spezzoni d’epoca alternati a interviste a chi c’era. 
L’unico guaio è che Netflix si è sbagliato, ma ancora non lo sa. L’ha infilato in una categoria cui non appartiene e che è comunque in via d’estinzione: le serie tv. 

 

Osho

Wild Wild Country (2018): Osho



Wild Wild Country non è una serie tv. È un film documentario lungo sei ore. Semplicemente. Il fatto che sia stato diviso in sei episodi è assolutamente arbitrario e non giustificato se non dal marketing.

C’era una volta infatti questa cosa che si chiamava televisione e aveva un palinsesto. Trasmetteva - con motivato delay - i film che venivano proiettati nelle sale cinematografiche e quelle che venivano prodotte ad hoc, per i canali tv. Siccome c’era un palinsesto e questi prodotti di intrattenimento venivano mandati in onda a un dato giorno e a una certa ora, essi avevano una lunghezza definita. I prodotti più “lunghi” venivano trasmessi a puntate (poi li si chiamò episodi) e per motivare tanta attesa ci si serviva di alcuni espedienti…


Facciamo un passo indietro. Anzi a lato. Spostiamoci in un salotto borghese: lo vedete quel quadro? È il ritratto del prozio, brav’uomo, gran bei baffi. Misura 30 x 40 cm. Ci sta. Nel senso che ci sta su una parete di un salotto, sopra al rituale comò. Ora venite con me. La vedete quella? È L’Assunta di Tiziano, sta alla Basilica dei Frari a Venezia e misura 690 x 360 cm. Sta da Dio in quella chiesa, anche perché lì Tiziano è sepolto. Sul rituale comò, accanto al prozio, proprio non ci starebbe. 
Le misure (e certamente anche i soggetti) dei dipinti erano e sono necessariamente commisurate al luogo dove questi venivano esposti. Una banalità? Sicuro. Anche i libri, come i quadri, sono limitati nella loro estensione da uno spazio fisico: non la singola pagina, ma il loro insieme. Se infatti andate da un editore con un romanzo di 1500 pagine vi consiglierà certamente di tagliare. A meno che non siate David Foster Wallace redivivo. 
Ma state tranquilli: vale un po’ per tutti. E per tutte le opere. Se non il luogo della fruizione, è la sua modalità, l’occasione della stessa. Anche per i film, certamente. L’Academy considera lungometraggio un’opera la cui durata superi i 40 minuti. Ed è curioso sapere che la durata di un film era all’inizio condizionata soprattutto dal supporto. Un reel dei tempi moderni, ovvero una pizza standard di una pellicola da 35 mm, è lunga 610 metri e per tanto - a 24 frame al secondo - dura 22 minuti. Un film infatti viene chiamato five-reeler, perché ci volevano 5 pizze per avere la durata media complessiva: due ore, più o meno, divise generalmente in due tempi, per cortesia verso la vescica del pubblico. Lo disse Hitchcock, mica io: “La durata di un film dovrebbe essere direttamente commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana”. Giusto, ma anche sbagliato. Dipende soprattutto da dove lo proiettano. Se per esempio il film viene proiettato nel nuovo cinema privato che Berlusconi si è fatto costruire nella villa che ha comprato per Francesca Pascale, i problemi di prostata dell’ex cavaliere troveranno accoglienza: basta fermare la proiezione, poi si riprende. Secondo me i due film di Sorrentino che escono tra poco a 15 gg di distanza l’uno dall’altro (e che alla fine scusate sono un lungo unico film con un intervallo di due settimane, per rispetto verso il pubblico) lui se li vede/se li è visti di fila. Potrei scommetterci. 

Ora il fatto è che il luogo dove si vedono i film quasi non esiste più. Siamo tutti Berlusconi. Abbiamo tutti un cinema virtuale. Possiamo andare a fare la pipì quando ci pare. O mangiare, dormire, lavorare e poi riprendere la visione. In un luogo qualsiasi. Le opere audiovisive - chiamiamole semplicemente così - si sono liberate da qualsiasi materialità: non le determina quella del supporto, non quella del luogo di fruizione. Le serie tv che sembrano la novità degli ultimi decenni sono invece un retaggio del passato, persino nel nome: non si vedono nemmeno più in tv! E Wild Wild Country non è una serie tv: è un film documentario lungo sei ore, semplicemente. Cambia qualcosa? Sì, molto. 

Siete pertanto tutti invitati. Nel mio salotto, a vedere il film più lungo mai realizzato. Cinématon (per gli amici CineMattone), 11460 minuti (fatevi i conti). Quando ci va fermiamo, poi con calma si riprende. Il prozio si divertirà.

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