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Nel 1978, anno di uscita in Italia de La febbre del Sabato sera, io avevo 12 anni, ero in seconda media e insieme a due tipi un po' sfigati (Marco, Max, scusatemi ma arriva un momento in cui bisogna dire le cose come stanno) componevo un trio che sulla propria marginalità aveva creato un'identità, forse l'unica possibile. Vestivamo abbastanza male con abiti di seconda mano comprati in squallidi negozi (prima che venissero chiamati vintage) e ci trovavamo tutti i pomeriggi, dopo aver (ehm) studiato, inanellando ore ed ore ad ascoltare Ramones, Sex Pistols, Joe Jackson, Madness, Police, AC/DC, Ted Nugent e altra gente incazzosa di quel tipo. Centinaia di LP acquistati, intere giornate passate ad ascoltarli e soprattutto a registrare compilation su cassette al cromo (le BASF Chromodioxid!).
Renzo invece, compagno di scuola alto, moro, romano e figo - che si era inventato un movimento di braccia a mulinello unito ad uno sguardo ironicamente truce con cui riusciva al tempo stesso a spaventare i maschi e a far cadere in delirio ormonale le femmine della classe - pur non avendo mutuato l'estetica di Tony Manero era decisamente orientato sul versante disco e ascoltava i Bee Gees ininterrottamente. Alle feste pomeridiane che si svolgevano nei fine settimana delle mie scuole medie - stereo al massimo e distorto, tapparelle abbassate per creare l'atmosfera giusta, maschi e femmine appoggiati ai muri e separati da uno spazio non quantificabile in unità di misura ordinarie - la democrazia era pura teoria: Saturday Night Fever e Grease erano la norma e comunque anche quando qualcuno di noi riusciva ad avere accesso al giradischi per mettere un pezzo di Joe Jackson o dei Ramones (i Sex Pistols erano una partita persa in partenza) la partecipazione musicale dei compagni era piuttosto risicata e, soprattutto, le ragazze non ballavano e si limitavano a guardare con aria vagamente divertita tre nani rock che si dimenavano inutilmente nella penombra del salotto, su rischiosissimi pavimenti di marmo. Non che con Stayin' Alive si scatenassero in sabba liberatori e demoniaci ma almeno c'era del movimento, lievi ruotamenti di fianchi se non proprio torciglioni niuiorchesi*, sguardi complici se non proprio seduttivi: era il bello della disco, bellezza.

Era molto prima che nelle discoteche arrivassero la musica elettronica, il drum&bass, la jungle, l'house e la tecno: le persone ballavano insieme, si toccavano, si fissavano e tutte quelle cose lì. Non c'è la minima nostalgia nelle mie parole, io sono sempre stato un ballerino solitario e per me la danza è sempre stata equivalente di trance, individuale o collettiva, ma mi ricordo benissimo che quando i miei genitori tornarono a casa dopo aver visto La febbre del sabato sera al cinema, mia madre mi raccontò che il pubblico in sala era impazzito, la gente aveva abbandonato le poltroncine ed aveva sentito il bisogno di iniziare a ballare, la sala cinematografica si era trasformata in una specie di festa, i confini individuali si erano abbattuti: il potere della musica unita al cinema visto in sala aveva generato una nuova dimensione nella quale l'individualità si era sciolta in collettività.

Riportarlo in sala (qui trovate le indicazioni sulla programmazione) è una scommessa interessante. Non credo che il vero asso nella manica sia rappresentato dal fatto che a circolare sia la versione 4K restaurata da Paramount nel 2016 e neanche che sia la Director's Cut voluta da John Badham che ha partecipato all'opera di restauro. A riportare in sala il pubblico per vedere un film del 1977, a 40 anni dalla sua prima uscita, deve entrare in gioco qualcosa di diverso, qualcosa che nel tempo si è perso, qualcosa di emotivo e irrazionale. Vedremo cosa diranno gli incassi, ma intanto, chiedo a voi: andrete a rivederlo? E perché? Ci sono altri film che vorreste rivedere in sala per motivi non pienamente o esclusivamente cinematografici? Ma soprattutto: anche voi facevate le compilation su cassette al cromo?

Per rispondere a queste fondamentali domande esistenziali potete usare il modulo commenti qui sotto.

* Il torciglione niuiorchese è un'invenzione di Jay McInerney ed è ripetutamente citato come la sua specialità in fatto di danza nel romanzo Le mille luci di New York.

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