Espandi menu
cerca
Venezia 2017. Fuori l'autore
di Spaggy
post
creato il

L'autore

Spaggy

Spaggy

Iscritto dal 10 ottobre 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 178
  • Post 623
  • Recensioni 235
  • Playlist 19
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

Un luogo comune vuole che sia più facile parlare male di un film che esaltarne le qualità. Come tutti i luoghi comuni, però, è facilmente confutabile: parlare male di un film significa arrendersi all’evidenza e ai propri limiti di comprensione. Nessuno infatti realizzerebbe mai un’opera destinata a essere sbertucciata da pubblico o critica: la non comprensione di un lungometraggio passa dunque dagli occhi di chi lo guarda, che molto probabilmente non ha gli strumenti adatti a valutare ciò che ha appena visto. Vittima di cecità strumentale, lo spettatore deluso dunque non può far altro che allargare le braccia e dire chissà. A festival quasi ultimato viene naturale soffermarsi su quei titoli visti e non metabolizzati. Sia chiaro: trattandosi di un festival, non siamo di fronte a fantozziane ca***e gigantesche ma ad opere che richiedono letture che al momento a chi scrive sfuggono.

Prendiamo ad esempio Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche. 180 minuti di immagini ben girate che fanno da preludio a una storia che mai decolla. Sì, la prima parte dell’ambizioso progetto del regista di La vita di Adele non ha in pratica sinossi: racconta il ritorno del giovane Amir, poco meno che ventenne, nel suo paese natale, una cittadina di mare francese popolata dalla sua numerosa famiglia di origine tunisine. La storia è datata 1994 e sin da subito salta agli occhi un’incongruità: come può una comunità araba di 30 anni fa comportarsi come una comunità occidentale moderna? Tradizioni, religione e morale, vanno a farsi benedire in pochissimi istanti per lasciare spazi a quello che è stato soprannominato l’elogio del culo (si perdoni il francesismo). Kechiche, in maniera prepotente e arrogante, regale lunghissime sequenze in cui non accade quasi nulla, lasciando che a parlare siano i numerosi corpi giovanili con cui Amir si accompagna. Dal cugino Toni a Ophelie, passando per Charlotte e Céline, ogni personaggio è solo corpo e banalità: si mischiano nazionalità, estrazioni culturali differenti, natura e sogni infranti, e si rifugge la diversità per descrivere una sorta di comune in cui a contare è l’apparenza e non la sostanza, una comune dalle atmosfere lontanissime dagli eventi che il XXI secolo avrebbe restituito. La stessa apparenza che, con un montaggio differente fatto di tagli e censure, avrebbe giovato al racconto. I riferimenti poi alla propria autobiografia (Amir scrive sceneggiature e ama la fotografia) sembrano più un pretesto che una fonte di ispirazione. Rimandato al secondo, ora urgente, capitolo. Dove ci si augura luci meno malickiane e attinenza alla realtà: non mi si dica che nel 1994 le donne arabe erano così sfrontate e pornografiche, come descritte dall'autore.

 

Kechiche sa il fatto suo. Come anche Hirokazu Koreeda, che per la prima volta esce dalle dinamiche familiari per concentrarsi su una vicenda giudiziaria in The Third Murder. L’omicidio del titolo, il terzo, è quello che attende il reo confesso di un crimine, la cui vera colpa è quella di essersi macchiato in passato di un crimine simile. Il legal thriller annunciato da Baratta durante la presentazione del programma altro non è che un dramma sul senso di colpa, sui simulacra e sul sistema giudiziario con i suoi funzionamenti. Siamo in una terra lontanissima da noi, eppure accade che la mentalità sia la stessa: poiché si è stati colpevoli, lo si è sempre. Anche quando, cambiando l’imputato confessione e reclamando la sua innocenza, le evidenze sembrano mostrare il contrario. La chiave legale diviene allora un pretesto per mostrarci l’operato di un avvocato, figlio di un giudice, che non riesce a trovare da solo il bandolo della matassa. Il film procede di conseguenza con la stessa velocità di una tartaruga, finendo con l’essere terribilmente verboso.

Masaharu Fukuyama, Koji Yakusho

The Third Murder (2017): Masaharu Fukuyama, Koji Yakusho

 

Verboso come lo è Sweet Country di Warwick Thornton, una sorta di western australiano che lascia il passo prima all’escape movie e poi al legal. La vicenda è presto detta: laggiù, nell’Australia profonda di tanti anni fa, neri e bianchi non vanno d’accordo. I secondi hanno colonizzato i primi, hanno rubato le loro terre, hanno violentato le loro donne e, soprattutto, si reputano superiori. La razza bianca dunque prevarica quella nera. I soprusi però son tanti e, in un’occasione, un nero si ribella uccidendo un bianco prima di darsi alla macchia con la moglie. Ovviamente, riacciuffato, processato, assolto e ammazzato, prima di un finale color arcobaleno tanto metaforico quanto banale, visto, già letto. Dalla materia, troppo simile a tematiche americane declinate in ogni salsa possibile, e dal suo trattamento ci si aspettava di più: un regista come Thornton, avvezzo al documentario, si pretendeva molto di più del pistolotto morale finale.

Hamilton Morris, Natassia Gorey-Furber

Sweet Country (2017): Hamilton Morris, Natassia Gorey-Furber

 

La morale finale senza speranza torna anche in Angels Wear White di Vivian Qu. Per gran parte ricattatorio, il lavoro della regista cinese comincia con lo stupro di due bambine in un albergo di terza categoria, alla cui reception fa capolino una giovane clandestina che sostituisce un’amica fin troppo impegnata con il suo fidanzato. Ciò che accade dopo è francamente deludente: le indagini sullo stupro si risolvono con un iPhone e con gli studi al college pagati per le due piccole. La clandestina rifugge invece alla sua vita da prostituta e, come la statua gigantesca di Marilyn che punteggia la storia, scegli di andare incontro a un orizzonte, a un futuro, che non è dato sapere. Per fare l’alternativa, la Qu infilza il film di riferimenti sociologici - lavoro in nero, microcriminalità, pedofilia, clandestinità, corruzione delle forze dell’ordine, abuso di potere, relazioni distorte tra madri e figlie, ricostruzione dell’imene – in un compendio sulla devianza cinese di cui francamente si fatica a capire le motivazioni e la ragione d’essere. Fastidiosa appare poi la presenza ingombrante di una statua della Monroe (con il vestitino bianco di Quando la moglie è in vacanza), a rimarcare come a determinate latitudini la donna sia ancora un oggetto.

scena

Angels Wear White (2017): scena

 

Per concludere, vale la pena dedicare due righe anche a Il colore nascosto delle cose di Silvio Soldini, un’opera che evidenzia come non bastino grandi nomi per fare un buon film. La trama si riassume in due righe: Valeria Golino cieca si innamora di Adriano Giannini pubblicitario stronzo. Lui la usa a suo piacimento prima di rendersi conto di amarla e ritrovarla. Punto. Inedito, no? A parte la pochezza con cui il racconto si dipana, va sottolineato il modo in cui il tema della cecità, su cui Soldini aveva realizzato anche un buon documentario, diventa pretestuoso per narrare di una storia d’amore mille volte vista nel cinema italiano. Non occorre inserire un’adolescente cieca che non accetta il suo handicap o un’amica ipovedente simpatica per uscire dal selciato di certi patetismi, pietismi e vuoti di sceneggiatura, a cui tanti anni di produzione dozzinale hanno oramai reso avvezzi. Da uno dei litigi più improbabili visti al cinema (su un taxi) al fondoschiena nudo di Giannini (prima della proiezione, ci si chiedesse quanto impiegasse il regista a spogliarlo), tutto è dejà vu: persino la scelta del formato “variabile” e dei contorni offuscati non salvano una storia nata male e sceneggiata anche peggio. Possibile poi che nel finale lui non sappia dove ritrovare la sua lei dopo essere stato sia a casa sua sia nei posti in cui lavora? Possibile che l’adolescente cieca esca per la prima volta di casa da sola e che le fili tutto liscio? Libertà di scrittura non vuol dire prendere in giro lo spettatore. Cosa che invece non fa Veleno di Diego Olivares, malamente posizionato nella Settimana della Critica.

Valeria Golino

Il colore nascosto delle cose (2017): Valeria Golino

---------------------------------------

(9 - Continua)

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati