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Cinema italiano 010
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Con le recenti candidature ai David di Donatello – e ricordandoci quelle 2016 [ancor più succulenti ed emblematiche di una ipotetica vera e reale “svolta” del cinema italiano] – si conferma una tendenza interessante e “primaverile”. Dopo il definitivo sdoganamento della neo-commedia italiana, quella lontana anni luce dai cinepanettoni e dalla commedia di situazione, spesso sentimentale, di area adolescenziale o per adulti in crisi sullo stile Moccia-Muccino, con la vittoria di Perfetti Sconosciuti (Genovese, 2016) siamo arrivati al culmine di un percorso di rinascita e ringiovanimento autoriale del cinema italiano che ha avuto come tappe ottimi titoli come Solo un padre (Miniero, 2008), Diciotto anni dopo (Leo, 2009), Una famiglia perfetta (Genovese, 2012), Smetto quando voglio (Sibilia, 2014), Il nome del figlio (Archibugi, 2015) e i migliori titoli di Edoardo Leo, Alessandro Genovesi e Massimiliano Bruno.

Per non parlare del rinnovato interesse per il genere, dal fantastico de Il racconto dei racconti (Garrone, 2015) e di Lo chiamavano Jeeg Robot (Mainetti, 2016), il noir e il poliziesco di Romanzo Criminale (Placido, 2005), ACAB (Sollima, 2012), Cha cha cha (Risi, 2013), Non essere cattivo (Caligari, 2015) e Suburra (Sollima, 2015), fino al dramma, più o meno leggero, dagli approcci e dagli immaginari più diversi come Il giovane favoloso (Martone, 2014), I nostri ragazzi (De Matteo, 2014),  Veloce come il vento (Rovere, 2016), A Bigger Splash (Guadagnino, 2015) e Un bacio (Cotroneo, 2016). E la lista potrebbe continuare con titoli di vario genere, di varia produzione e di varie fortune al botteghino, ma sicuramente il dato più evidente è che dal 2010 il cinema italiano sta producendo un gran numero di film dal grande impatto narrativo e da una ben ritrovata cura del dettaglio tecnico.

Io, che sono un ardente (e ardito) tifoso del cinema spagnolo, superiore a tutte le cinematografie europee – secondo forse solo a quella francese, credo… - rivedo nei film italiani prodotti dal 2010 ad oggi quel che già nei ’90 e ancor più negli Anni Zero era successo al cinema spagnolo, ovvero una maggiore attenzione al genere e allo star system da un lato, e dall’altro una cura e uno studio tecnico pari ai “maestri” statunitensi – montaggio, riprese, fotografia, set decoration etc.

Solo in alcune serie tv spagnole ritroviamo i limiti del cinema e della tv italiana – pressapochismo, sciattezza, castrature varie e altre amenità. Mentre invece, a livello cinematografico il cinema spagnolo – ancora incredibilmente nascosto e oscurato in un cono d’ombra che va dalla distribuzione europea ai festival europei – sta sfornando da almeno vent’anni grandissime opere che se non sono necessariamente capolavori – o almeno tali non sono per quella nicchia di intellettuali che ha un proprio criterio di  valutazione dell’opera cinematografica [e mi chiedo questo criterio da quale formazione nasce?] – sono sicuramente film di grande intrattenimento, ben diretti, con una cura professionale dell’aspetto tecnico – tipico più del cinema dei professionals americani che degli “autori” europei; per non parlare delle variazioni sul genere – horror, thriller, poliziesco e commedia – e le caratteristiche estetiche trasversali – dall’erotico al cruento, dal realismo puro all’esperpento; per non dire poi del calibro degli attori spagnoli, tra i migliori mai visti, con una naturalezza e franchezza della voce e del gesto che molti dei nostri italiani non riesce a raggiungere.

Ma al di là delle piccole sfasature, il cinema italiano di oggi, quello che va da Basilicata Coast to Coast (2010) a La pazza gioia (Virzì, 2016), ha impennato clamorosamente come un adolescente in motorino sfornando commedie, drammi e film di genere che possono contare sia su un ottimo cast di attori, sia su un livello tecnico non più provinciale del tipo “massì, va bene lo stesso”, bensì serio e professionale, che richiede competenze precise anche in quei settori spesso sottovalutati come il montaggio, le luci, la messa in scena, i costumi; perfino le comparse oggi sembrano credibili.

Attori come Giallini, Gassman, Marinelli, Argentero, De Luigi e Leo, tra commedia e dramma, fanno gruppo con Germano, Favino, Bentivoglio, Verdone, Papaleo, Amendola, Mastandrea, Rossi Stuart e molti altri. Al di là di generazioni attoriali (ben si potrebbero citare anche Richelmy, Scicchitano e Franceschini), leve cinematografiche, riconoscimenti, candidature e alti o bassi profili mediatici, oggi non è difficile trovare in un unico film italiano un ottimo cast abbinato a una buona regia  - come quelle innovative di Genovesi, Sollima e Mainetti [Garrone, Sorrentino, Guadagnino, Virzì e Franchi erano felicemente all’attivo anche prima] – unitamente ad effetti speciali, fotografia, messa in scena e soprattutto testi maturi ed emancipati.

Se i grandi maestri di sempre, sia quelli che non ci sono più sia quelli ancora in attività, ci continuano a graffiare, colpire o a farci compagnia, le nuovissime leve – al netto di neo-cinepanettoni e la solita e sconfortante transumanza dal piccolo al grande schermo – stanno ritagliandosi un posto tutto loro all’interno dell’orizzonte italiano, benché non ancora arrivati capillarmente a tutte le età e a tutte le classi sociali perché, come ormai sappiamo, andare al cinema non è figo, come lo è invece in Francia – ma qui deve intervenire il Ministero dell’educazione altrimenti siamo a rischio sociale nel giro di dieci anni [sono un professore, so di cosa parlo] – e di conseguenza il nostro cinema è penalizzato in partenza. Nonostante questo svantaggio ci sono oggi molte opere notevoli a firma sia di esordienti – due o tre pellicole all’attivo – sia di registi affermati, storici (Verdone, Taviani, Olmi, Marco Risi, Salvatores, etc.).

Il segreto di questo mezzo successo – “mezzo” perché a questo tiepido entusiasmo che sviscero per il recente cinema italiano non corrisponde ancora l’entusiasmo del pubblico e delle giurie dei festival europei [che hanno comunque apprezzato i nostri lavori in più occasioni come Venezia2013, Cannes2014 e addirittura gli Oscar2014], nonostante l’interesse da sempre manifestato verso il nostro cinema [vedi i Festival del Cinema Italiano di Annecy, di Madrid, di Stoccolma o di Tokyo] – è un segreto che radica nella più saggia e disinvolta rottura con il canone precedente. Se vogliamo possiamo idealmente rintracciare questo “manifesto” nella pungente battuta di Rocco Papaleo in Nessuno mi può giudicare (Bruno, 2011): l’ormai celebre “te lo meriti Nanni Moretti” – un regista che, anche solo per provocazione, dice con suo certo sofismo che ci meritiamo Alberto Sordi o che non si aspetta nulla dalla generazione cresciuta con Happy Days (1974-1984) [tra cui la mia fortunata generazione di bambini anni ‘80], non merita nessuna stima né leggero interesse, almeno da parte mia.

La rottura di cui parlo è evidente, soprattutto nelle commedie. I titoli che precedono il 2010 – ovviamente non tutti – erano fortemente legati, nel loro impianto narrativo, nei temi e nei topoi trattati, al successo e all’immaginario nati da due film emblematici dell’Italia Anni Zero, ovvero Tre metri sopra il cielo (Lucini, 2004) e Notte prima degli esami (Brizzi, 2006). Queste commedie hanno innescato una rincorsa all’emulazione giocando sulla presenza di attori giovani, ma quasi mai in parte, per richiamare un pubblico che quasi mai rispondeva, e sulla ripetizione di luoghi comuni e traiettorie narrative. I film con Scamarcio e Vaporisis (a parte alcuni interessanti titoli del primo, su tutti Mio fratello è figlio unico [Luchetti, 2007]), sono emblematici di questa deriva. Deriva che ha risucchiato, oltre agli stessi Scamarcio e Vaporisis, attori come Raoul Bova (il dittico di Moccia, 2007-2010) e Silvio Muccino (Parlami d’amore, 2008).

Mentre dal 2010 in avanti, il cinema italiano ha ripreso la situazione in mano. Molti registi, i migliori secondo me oggi sulla piazza, ovvero Edoardo Leo, Alessandro Genovesi, Sydney Sibilia e in certa misura Paolo Genovese per le commedie; Stefano Sollima, Matteo Rovere, Gabriele Mainetti per i film di genere – film, va detto, che richiamano soprattutto l’attenzione di registi più navigati come Placido, Sorrentino, Guadagnino, Garrone, Marco Risi, etc… a conferma che il genere è una cosa seria e va praticato con intelligenza e cultura esperenziale.

Da un lato possiamo dire che il cinepanettone è ormai morto. Risorge, stranamente, sotto Natale o, più appropriatamente, verso Pasqua, ma possiamo ormai contare sulle dita di una mano i film concepiti e realizzati con intenzione pecoreccia e burina. Dall’altro lato, possiamo ugualmente dire che l’epoca dei maschi contro le femmine, esami, esamini e manuali vari si è fisiologicamente e fortunatamente esaurita. Mentre, quel gruppo anonimo di commedie sentimentali, di attitudine mocciana-mucciana, sono finalmente maturate e oggi, proprio grazie ai nomi prima menzionati, può dirsi depurato e disintossicato con successo. Non più commediole dalla recitazione nulla e dal testo imbarazzante – per non dire della fattura tecnica prossima ai video amatoriali – ma commedie solide, con una verve autoriale geolocalizzata quasi totalmente a Roma, molto personale e sgombra da eredità scomode. Va detto però che il nord, con Genovesi in testa, insieme all’attore feticcio Fabio De Luigi, regista tra l’altro di una commedia molto sottovalutata (Tiramisù, 2016), tiene sempre banco grazie anche a Virzì e a Salvatores, mentre il famoso cinema di Sordi, Tognazzi e Gassman torna, aggiornato e ben intenzionato proprio grazie a un febbricitante gruppo romano che ha fatto però della migrazione una scelta stilistica – migrazioni a nord, nordest e sud.

Filo rosso che accomuna questa ripresa anni 010 sono registi e attori che lavorano spesso insieme, si scambiano il cast, collaborano alle sceneggiature come un vero gruppo di artisti, tra loro sinergici, che senza saperlo – o forse sì… - lavorano per una causa comune. Bruno parla di riportare il sociale nella commedia e i suoi tentativi registici, seppur un po’ zoppi, vanno in quella direzione – paradossalmente il film più riuscito è Confusi e felici (2014), il meno politico e impegnato.

Non solo è il sociale a compattare attori e registi in un progetto cinematografico forte e riconoscibile come quello 2010-2016, ma anche l’invenzione comica, la maschera tipizzata, il regionalismo, la freschezza di plot che sconfinano anche nel politicamente scorretto – penso a film molto interessanti e ben riusciti come Buongiorno papà (Leo, 2013), Un boss in salotto (Miniero, 2014), Se dio vuole (Falcone, 2015, che ha già in cantiere un certo Questione di Karma, 2017 [per non allontanarci troppo dal successo di Gabbani]) - Loro Chi? (Leo, 2015) e Noi e la Giulia (Leo, 2015).

Edoardo Leo e Marco Giallini sono i nomi più ricorrenti delle commedie italiane di qualità che negli ultimi cinque/sei anni stanno cambiando, si spera, l’immaginario italiano. O meglio, ci si augura che possano cambiare l’idea di pensarci come paese e come popolo. Un compito, in Italia, molto difficile e già ampiamente naufragato a più riprese dagli anni ’90 ad oggi.

Va attribuito quindi un grandissimo applauso a tutta questa galleria di attori, attrici, registi e tecnici vari che da quasi dieci anni stanno tentando in ogni modo di scardinare le regole, superare il paludato immaginario italiano, con le sue piccolezze e i suoi rituali, con le sue caute produzioni e la sua demotivata verve culturale, sconfessando così la liturgia – per restare in tema con Manganelli – della conservazione ad oltranza, il quieto vivere che come assicura da tempo immemore poltrone ben solide in quel di Roma, allo stesso modo assicura l’ignavia e l’inanità del popolo.

Abbiategrasso – 21 febbraio 2017

 

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