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Fear the Walking Dead: Terra, corpo, sangue.
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L’idea di uno spin-off di The Walking Dead poteva sembrare sciagurata e prettamente commerciale, con un prevedibile calo di performance tecniche e artistiche. Invece, la prima stagione ha messo sul piatto i propri attributi, dal cast semi sconosciuto ma ben selezionato, fino alle locations – da Los Angeles in giù – passando per una fotografia ricercata e in molti casi antinaturalistica, e per un taglio decisamente gore e splatter che gareggia con la soglia del visibile propria della serie originale.

La seconda stagione, partendo da queste premesse, va oltre. I primi episodi, chiamiamoli pure “marinareschi”, sono i migliori e tra i più interessanti, proprio per l’abbandono radicale della vecchia ambientazione metropolitana – dopotutto è un sequel. Successivamente, si ritorna sulla terraferma, ma in territorio messicano, il che non solo apre le porte ad un uso iconografico, e quindi a un gioco estetico, più terrico e primitivo, ma apre le porte anche a questioni politiche attuali e sentitissime dell’America in passaggio da Obama a Trump – tant’è che quasi l’80% del cast è messicano. Come se non bastasse, la sceneggiatura evita totalmente ogni possibile aggancio all’attualità – anche perché la vicenda è ambientata nel 2010 – e ogni possibile richiamo a questioni puramente politiche.

Ciò che in realtà emoziona di più in Fear The Walking Dead è l’avventura strettamente survivalista che vivono i protagonisti. Non c’è spazio per sottotrame romantiche, amorose, tradimenti, adulteri, trentenni o quarantenni in crisi, non c’è spazio, né tempo, né voglia di trattare le quisquilie adolescenziali e borghesi di tante serie tv, né tantomeno filosofeggiare sui massimi sistemi.

In Fear c’è solo spazio per la carne putrescente degli infetti, per il sangue che scorre a fiumi iperrealisticamente, per la violenza inaudita dei protagonisti e dei loro rivali; c’è spazio per la fuga, il bivacco notturno, il riparo di una notte, l’organizzazione di una nuova colonia, la ricerca di qualcosa da mangiare e bere, qualcosa per scaldarsi e curarsi. I ragazzini non hanno il tempo di piangersi addosso per questioni di cuore o disperarsi perché non possono navigare in internet o postare sui social network, mentre gli adulti han ben poco da commiserarsi per insuccessi d’amore o di lavoro. C’è da sopravvivere. E questa sopravvivenza ha come sfondo dapprima l’orizzonte piatto dell’oceano e poi quello altrettanto spersonalizzante delle lande desertiche e torride del Messico.

Il connubio quindi, tra testo e forma, ovvero tra sopravvivenza, istinti materni e paterni primitivi, ribellione giovanile scatenata, amori omosessuali, voglia di indipendenza – i contenuti del testo, i temi - e l’estetica horror, torture, gore, splatter, unitamente allo scenario desolato e primigenio degli elementi naturali basici, la grana grossa dell’immagine, sporca e ruvida come le strade polverose del Messico – ovvero, la forma – è un connubio che elimina alla partenza le questioni da “fighette” come direbbe Clint Eastwood – e come dice Regazzoni in Sfortunato il paese che non ha eroi (Ponte alle Grazie, 2012) – per dare spazio al maschile, anche declinato al femminile.

Non ci sono pettegolezzi, non ci sono isterie, non ci sono patetismi; c’è soltanto carne, sangue, terra e sudore. Ci sono corpi che pur concedendosi poco alla nudità, esprimono ugualmente la loro essenza, rappresentandosi come simulacri significativi e significanti di una specie in corso di evoluzione o involuzione. Imbrattati di sangue camminano in mezzo ai morti – come Nick, il migliore in campo interpretato con squisita baldanza da Frank Dillane, il giovane tossico dai tratti deppiani; feriti e ammaccati guidano auto, barche, furgoni o camminano per giorni interi; spossati e disossati dalla stanchezza, organizzano colonie, fanno scelte radicali e arrivano anche a decidere chi vive e chi muore.

Se il contenuto della serie può anche non essere originale, per contesto e sviluppo narrativo, la forma, come al solito, fa la differenza. Dopotutto, e chi si intente di studi di intreccio e narrazione lo sa bene, non è importante cosa dici, ma come lo dici. Anche le solite storie, i soliti personaggi e i soliti finali, pur prevedibili che siano, se accompagnati da un ottima forma narrativa – dialoghi, moduli, iconografia, linguaggio visivo, etc. – risultano ugualmente appassionanti; anzi, godono pure di una pratica fondamentale per il mito: la variazione sul tema. L’ambientazione prima marinaresca, con i topoi del viaggio in mare, l’isola deserta, l’attracco all’isola del faro, e poi terrica, con la fuga solitaria in lande desolate, l’arrivo al buen retiro, i bivacchi notturni, i cattivi incontri, e infine urbana, la città distrutta e popolata qua e là da comunità improvvisate e autonome, i luoghi desueti riqualificati, sistemati, risemantizzati, attiva i dispositivi narrativi tipici del viaggio, dell’iter, delle peripezie. Ma mentre in The Walking Dead, questi si modulavano seguendo il classico canovaccio del grande racconto americano (si veda il link: //www.filmtv.it/post/31294/the-walking-dead-ovvero-il-grande-racconto-americano ), in Fear viaggi, approdi, tappe, fughe e separazioni sono il continuum di uno stesso modulo, una nucleo tematico di situazioni tipo che si ripete di episodio in episodio, strutturante un grande racconto d’avventura dalle rare contaminazioni postmoderne.

A discostarsi ulteriormente da The Walking Dead è invece il sistema dei personaggi: là degli sconosciuti, per lo più adulti, che iniziano un viaggio a tappe in cerca di sopravvivenza; qui, invece abbiamo più o meno un nucleo famigliare allargato, con qualche aggregato esterno, ma ben subito inserito. Inoltre in Fear, fanno capolino gli adolescenti puri: Frank Dillane, la bellissima e preraffaelita Alycia Debnam-Carey e Lorenzo James Henrie – più ovviamente altri coetanei che incontreranno per strada – sono i protagonisti dei subplot più interessanti, più appassionanti e più letterari. Sottotrame che non hanno nulla a che vedere con i teen drama oggi ormai fagocitati dalla cultura popolare, ma radicano piuttosto in quella lontana narrativa avventurosa in cui gli Huckleberry Finn di ogni epoca sapevano essere allo stesso tempo simboli di ribellione e simboli di crescita e formazione. Su tutte le sottotrame, spicca la fuga in solitaria e l’esilio picaresco di Nick, con il suo avvicinarsi morboso ai morti, il suo camminare in mezzo a loro, con questa sua inquietante attrazione per i non morti. Tutti tratti che lo elevano a miglior personaggio della serie. Tossico, disagiato, riottoso, il Nick di Frank Dillane è spudoratamente attraente per la sua insolenza e per la sua temerarietà. Un personaggio per nulla piatto – tipico del racconto televisivo – bensì a tutto tondo, dinamico e sfaccettato, anche e soprattutto grazie alla graffiante e creativa recitazione dello stesso attore inglese.

Nonostante questi principali scostamenti, anche Fear come la serie originale, rielabora atmosfere e iconografie western, il genere americano per eccellenza, e definisce i suoi personaggi in linea con gli stereotipi classici della cultura americana come l’eroe/cowboy, qui ben rappresentato da Cliff Curtis, duro, tosto e integro, monodimensionale – fino a un certo punto – rispetto all’amletico Rick Grimes di Andrew Lincoln, ma forse per questo più incisivo e rappresentativo; il bad bad boy riottoso alle regole, la mother Duston, forte e guerriera contro la minaccia esterna , l’eterea Clarissa, prototipo di tutte le eroine virginali a seguire e tanti altri tipi, più o meno stereotipati, che figurano sull’orizzonte teatrale del dramma. E proprio come la serie originale, anche in Fear è più che dosato il tema sessuale. Rare, rarissime, le copule, e casti i nudi, quasi come a confermare la preminenza del corpo zombesco su ogni altro dispositivo corporale. Bandita la sessualità, ai personaggi resta giusto una lontana imitazione del rapporto carnale che, se c’è, è costretto fuori quadro.

In conclusione, la seconda stagione di Fear The Walking Dead, ricercando il cambio tematico con la precedente, si struttura meglio, definisce ulteriormente la sua totale autonomia narrativa e sprigiona un fascino avventuresco che dal western all’horror riconferma la supremazia del genere narrativo e ne ridefinisce gli schemi canonici.

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