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BLACK MIRROR – Incubi dal futuro
di Andrea Fornasiero
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Torna la serie di Charlie Brooker, rinnovata dalla produzione del colosso internazionale Netflix ma sempre di base in Inghilterra. Questa volta l'autore ha avuto ben dodici nuovi episodi, divisi in due blocchi da sei, il primo diffuso recentemente su Netflix (qui la nostra scheda della serie) e il secondo previsto per l’anno prossimo.
Black Mirror rimane fedele a se stessa, al suo spirito british e a uno humour nerissimo, che dà senso per esempio alla seconda puntata (la più debole) con un velenoso colpo di coda finale, beffardo e crudele. E il ghigno sadico è letteralmente l’emblema del terzo episodio, un volto grottesco deformato da una perversa risata a condannare i protagonisti e i loro piccoli o grandi peccati. Un episodio questo terzo che non ha per altro nulla di fantascientifico e potrebbe accadere anche nella nostro mondo, visto che parte da una azione hacker che attiva a insaputa dei proprietari la webcam del loro computer, cosa di cui già Snowden ci ha dato le prove. 
Le puntate due e tre sono per altri versi diversissime, perché se la seconda apre la porta all’horror coinvolgendo il protagonista in un survival game ambientato in realtà aumentata (ma in realtà “virtuale”), la terza è invece un thriller, giocato sulle paranoie di personaggi ricattati e spiati che agiscono in un crescendo di esasperazione e si rivelano pronti a tutto. A impressionare qui è soprattutto la prova d’attore del giovane Alex Lawther, così dolorosamente sotto stress da lasciare interdetti tra l'empatia e l'angoscia o se ridere della sua esagerata reazione (ma l’ultima risata, come abbiamo anticipato, è di Charlie Brooker).

La fantascienza di Black Mirror

Gli altri episodi disono invece più in linea con le tematiche e il genere cui la serie ci ha abituato ma, lo diciamo subito, per quanto siano buoni o molto buoni nessuno ha la potenza delle passate stagioni. Mancano sia il riflesso terribilmente distorto del nostro mondo che offrivano White Christmas e Fifteen Million Merits, sia la forza profetica di The National Anthem e soprattutto The Waldo Moment.
Il primo episodio, Nosedive, diretto da Joe Wright e interpretato da Bryce Dallas Howard, è forse il migliore della nuova stagione, capace di presentarci una credibile distopia in cui la nostra popolarità, derivata dalle evoluzioni degli attuali social network, conferisce privilegi o limitazioni sociali ed economiche. Raggelante per la finta cordialità in cui tutto viene immerso, accompagnato da un pianoforte incessante in colonna sonora, l’episodio semplifica però la complessità dei social che già conosciamo, dove si può essere popolari sia per le carinerie da fashion blogger sia per la ferocia delle provocazioni (cosa che Brooker sa benissimo: basti ricordare a come l’invettiva veniva rimasticata dal sistema in Fifteen Million Merits). L’aspetto corrosivo dei social è invece bandito dal mondo di Nosedive, dove il turpiloquio è proibito e viene recuperato solo nel finale, come gesto di liberatoria ribellione: efficace drammaturgicamente, ma più banale dello standard passato di Black Mirror.

Il quarto episodio, San Junipero è tra i più amati sul web a quanto ci è dato di capire, probabilmente anche per merito delle attrici: Gugu Mbatha-Raw e soprattutto Mackenzie Davis di Halt and Catch Fire. Si tratta quasi di un divertissement, come fosse un adattamento della canzone di Belinda Carlisle Heaven Is a Place on Earth. Assolutamente immerso negli anni 80 (con toccate e fughe nei 90 e nei primi 2000), racconta una realtà virtuale dove gli anziani e i malati trovano la pace e una vita paradisiaca, al punto che molti vogliono trasportare le proprie coscienze nella macchina alla loro morte. Non si capisce però da dove derivi tutta questa opulenza e bontà del governo o della corporazione che mantiene attive copie mentali in teoria per l’eternità (dove non manca comunque un girone infernale, solo brevissimamente visitato però). Non si tratta dunque di una riflessione su un futuro probabile, quanto piuttosto di un gioco tra nostalgia e metafisica, riuscito ma pure vagamente stucchevole, nonostante l’ironia che lo attraversa. D’altra parte il finale positivo è forse il miglior colpo di scena possibile per una serie che ci ha abituato a chiusure terrificanti.

Le ambizioni sfumate di Black Mirror

Il quinto episodio, Men Against Fire, è sicuramente il più politico e tratta della disumanizzazione del nemico attraverso un sistema impiantato nei soldati, che a loro insaputa ne manipola i loro sensi e le loro memorie. Una cosa, per casualità immaginiamo, non molto diversa da quello che avviene nella prima stagione della serie a fumetti italiana Orfani. L’elemento interessante però non sarebbe tanto la prospettiva dei soldati che credono di combattere dei mostri, quanto la spiegazione di cosa si cela dietro i mostri, ossia persone selezionate sulla base di un progetto di pulizia della razza: portatori di malattie, probabilmente immigrati e chi più ne ha più ne metta. In pratica un incubo nazista camuffato da sparatutto in soggettiva, dove oltretutto i civili cui non è stato impiantato il sistema sono complici nell’odio verso il nemico. Questa prospettiva, ossia quella di disumanizzare gli altri a tal punto da renderli mostruosi anche se uguali a noi, è però smorzata dall’episodio, che predilige il dramma del soldato indeciso se accettare la realtà o dimenticarla: insomma pillola blu o pillola rossa all over again.


Infine il sesto episodio, Hated in the Nation, è un lungometraggio di un’ora e mezza diretto da James Hawes che mette insieme fantascienza climatica, hacker, hater, The Swarm e True Detective. Protagonisti sono infatti una coppia di detective, donne, che in auto confrontano spesso le proprie filosofie: una realista disincantata, l’altra convinta di poter fare una differenza con le sue quasi esoteriche competenze informatiche. La trama per altro sul finale, come a chiudere il cerchio, va a citare proprio il primo episodio di Black Mirror, raccontando i problemi di popolarità di un Primo Ministro in un momento di assoluta crisi. Si tratta dell’episodio più spettacolare, con api robot capaci di riprodursi grazie ad alveari che stampano in 3D. L’idea che questi piccolissimi droni possano diventare spie non è poi così fantascientifica (si veda Il diritto di uccidere) e da lì a macchine di morte il passo è breve… L’episodio è piuttosto appassionante, anche grazie all’ottimo cast con Kelly Macdonald (Boardwalk Empire), Faye Marsay (The White Queen) e Benedict Wong (Marco Polo e Doctor Strange), ma il finale si trascina senza lasciare il segno e anzi chiude la stagione in modo quasi rassicurante. Questo excipit sembra sancire che la serie ha attenuato la propria ferocia, uno stemperamento cui speriamo si ponga rimedio nel 2017, altrimenti dovremo concludere che il maggior numero di episodi, anziché averci dato più Black Mirror, ha finito per darcene di meno.

Qui tutti gli articoli della rubrica CoseSerie.

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