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L'ultimo spettacolo: il tramonto del musical hollywoodiano
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Presupposto

La La Land (Damian Chazelle, 2016) ha aperto l’ultima Mostra di Venezia e molti cinefili sono andati in brodo di giuggiole di fronte al ritorno di uno dei generi più amati. In realtà il musical torna ciclicamente e con isolate fortune: Chicago (Rob Marshall, 2002) è stato l’ultimo fuoco e tutti i film realizzati sulla scia di quel successo si sono rivelati dei mezzi flop, da Rent (Chris Columbus, 2005) e Nine (Marshall, 2009), con l’eccezione del caso, a suo modo isolato, de Les Miserables (Tom Hopper, 2013). Sin dalla foto con cui è stato lanciato, così evocativa e citazionista, il film di Chazelle promette molto ed è l’occasione per riflettere sul perché un genere così fortemente cinematografico sia decaduto e relegato all’eccezionalità di una presenza occasionale.

 

Ryan Gosling, Emma Stone

La La Land (2016): Ryan Gosling, Emma Stone

 

Preambolo

Qualcuno verrà (Vincente Minnelli, 1958) e Lo specchio della vita (DouglasSirk, 1959) sono due melodrammi che terminano con una morte e mettono in scena il funerale del personaggio più puro ed innocente. In entrambi i casi, c’è qualcuno che deve redimersi per omaggiare il defunto: da una parte, un giocatore alcolizzato che si toglie il cappello al cospetto della tomba in cui giace la donna del suo amico; dall’altra, l’ingrata figlia mulatta di una immacolata signora nera. L’uno e l’altro mostrano la morte con una forte consapevolezza musicale: se in Qualcuno verrà il ferimento fatale di Shirley MacLaine è un duello finale nello stile del musical senza incensare canzoni e danza che ricorre all’astrazione fotografica e ad una recitazione stilizzata, ne Lo specchio della vita il fastoso funerale richiesto per sé dalla moritura Juanita Moore è un trionfo dello spiritual grazie alla maestosa performance di Mahalia Jackson alla guida di un coro gospel.

 

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In Qualcuno verrà, un regista intimamente legato al musical e ai suoi codici come Minnelli rinuncia al canto e alla danza, esprimendo un’idea di mondo implicitamente musicalizzato,servendosi per giunta di due cantanti qui unicamente attori (Frank Sinatra e Dean Martin); al contrario, Sirk sceglie di inserire una componente musicale sfacciatamente diegetica per rappresentare lo strazio dei personaggi, accumulando lungo il film una tensione che può esplodere grazie all’innesco esplicito del canto (non a caso la Jackson intona frasi emblematiche: «I want! to see my motha»). Per rincarare la dose, si può anche leggere un parallelismo tra Sinatra che non si accorge dell’amore della MacLaine se non con l’uccisione accidentale di quest’ultima e Susan Kohner che piange post mortem la povera madre: due personaggi maledetti che, dentro l’imitation of life, arrivano alla verità troppo tardi e tuttavia devono continuare a vivere.

 

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Qualcuno verrà e Lo specchio della vita rappresentano due capitoli conclusivi della stagione classica hollywoodiana, le pietre tombali sulla fiducia nei confronti dell’America, dolorose e crepuscolari trenodie che non possono fare a meno della morte. Se la classicità è il trionfo apollineo dell’ordine sul sentimento e sul caso, questi amarissimi film impongono infine un ordine malato in cui sono eliminate le alterità (la prostituta e la nera), mettendo a nudo le contraddizioni della società americana, che quello stesso cinema aveva scelto di risolvere, riferendosi ad un mondo dominato da contrasti, metafore e simbolismi. In questo senso, in una lettura parallela, l’ultimo film di Sirk è funzionale al discorso sulla poetica di Minnelli. Si potrebbe dire che per quest’ultimo “tutto è musical”, anche una morte violenta è rappresentabile come un balletto onirico.

 

E le deviazioni fuori dal musical sono molteplici: la sequenza iniziale del western Un dollaro d’onore (Howard Hawks, 1959) non sublima il duello nella stilizzazione di una coreografia che rinuncia alle parole e si modula sulle note di Dimitri Tiomkin? Oppure: è concepibile un thriller come L’uomo che sapeva troppo (Alfred Hitchcock, 1956) senza musica, senza la celebre sequenza del Royal Albert Hall, e più esattamente senza il sonoro così magistralmente sfruttato dal colpo di piatti che, citando l’incipit, “scuote la vita di una famiglia americana” all’urlo della cantante protagonista fino al cruciale utilizzo di Que sera, sera?

 

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Spettacolo e realtà

Sotto l’abilissima gestione di Arthur Freed, la MGM segna gli anni Quaranta e Cinquanta con musical diretti da registi di varia estrazione, chi proveniente dalla danza (Bubsy Berkeley, Stanley Donen, Gene Kelly, Charles Walters), chi occasionale incursore del genere (George Cukor, Rouben Mamoulian). La regia elimina la verosimiglianza per esprimere una struttura onirica, privilegiando lo spettacolo rispetto alla realtà attraverso l’armoniosa integrazione fra storia e numeri musicali: affiora così un discorso metalinguistico sullo spettacolo per riflettere sulla realtà superata dalla sua rappresentazione. I film sono interpretati da una scuderia di star e si rivolgono alla mentalità, ai costumi, alle credenze, a sogni del pubblico più popolare: sono inni al divertimento e al mito americano, svelano anche una forte attenzione al tema dell’ambiente artistico quale proiezione nell’ambito dello spettacolo di una vera e propria teoria della vita e dell’arte nella direzione di una smaccata esaltazione della cultura popolare di massa.

 

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Benché il musical MGM sia fonda sull’evasione dagli incubi del quotidiano e della paranoia attraverso un genere delegato a tradurre in immagini e storie l’attività onirica di una nazione, alcuni film di questo periodo nascondono, in puro stile hollywoodiano, i germi di un malessere o per meglio dire la consapevolezza della propria fine. I film citati in apertura hanno proprio questa complicata (e forse involontaria) funzione: celebrare la fine di un mondo compiutamente “musicalizzato” che pare non avere più bisogno del musical per proseguire il discorso. Perfino in una lussuosa commedia di routine come Indiscreto (1958), lo specialista del genere Donen sfoggia le qualità della sua cinepresa danzante nella gestione dello spazio, facendo a meno della musica diegetica se non nel balletto a cui assistono i passivi Cary Grant e Ingrid Bergman.

 

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In realtà si continueranno a produrre musical tout court: tuttavia, limitandoci agli anni Sessanta, la stilizzazione di un mondo in cui ogni atto è una danza del film-limite West Side Story (Robert Wise e Jerome Robbins, 1961), il fastoso gigantismo My Fair Lady (Cukor, 1964), le tecnologiche favole disneyane come Mary Poppins (Robert Stevenson, 1964), gli adattamenti dal teatro broadwayano alla Capobanda (Morton DaCosta, 1962) o Hello, Dolly! (Kelly, 1969), il falso realismo di Tutti insieme appassionatamente (Wise, 1965) appartengono inevitabilmente ad un’altra epoca, una stagione che precede quella nostalgica e talora intende il passato ad un livello di rievocazione illustrativa. A parte la particolare esperienza di Bob Fosse da Cabaret (1972) e All That Jazz (1979), nel non-musical Due vite, una svolta (1977), celebrazione della scuola americana del balletto non a caso diretta dall’ex coreografo Herbert Ross, la danza segna la vita delle protagoniste (rinuncia o lavoro) ma è anche uno spettacolo da mettere in scena in numeri musicali diegetici senza la dimensione onirica del musical (che è forse nascosta nella lite tra le due ballerine in un’inevitabile suggestione coreografica).

 

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Minnelli, proveniente da Broadway, è il più prolifico specialista del genere in forza alla MGM, per cuirealizza dodici musical che sono quasi sempre delle fughe verso “mondi altri”, e rinnova il genere creando un complesso autonomo di riferimenti e permettendo al genere di divenire lo spettacolo americano per eccellenza, in cui si officia l’ideologia dello spettacolo totale (balli, canzoni, recitazioni, apparati visivi), una visione mitologica di temi inseriti in una dimensione tipicamente americana. Balli, canzoni: dalla coreografia neoclassica che trasfigura simbolicamente la realtà di Eugene Loring (Un americano a Parigi) a quell’ambigua contaminazione tra balletto colto e danza libera nella “logica della Morte” di Michael Kidd (Spettacolo di varietà) e nella poetica del trauma (Sette spose per sette fratelli, 1954), dall’emancipazione dell’uomo che balla, il movimento, la simmetria, la plasticità nella regia spesso en plein air di Donen allo stravolgimento dei costumi sessuali puritani interpretato dal “mens sana in corpore sano” del ginnico Gene Kelly.

 

 

D’altro canto, l’uso delle canzoni presenta una curiosa dicotomia: se il metodo del “riciclo” appare evidente nella duplice prospettiva nostalgica ed economica (Un americano a Parigi è tratto dal poema sinfonico di Ira e George Gershwin, Cantando sotto la pioggia è un’antologia di brani di Freed e Nacio Herb Brown), Be a Clown ne Il pirata è un punto di svolta nella concezione della canzone, per di più inedita, all’interno dello spettacolo autoriflessivo. Questo capolavoro dell’eccesso programmato propone una “realtà altra” in cui l’immaginazione è possibile perché disciplinata dal guitto-regista, una sublimazione dell’inganno sancita dal numero in cui, travestiti da pagliacci, Kelly e Judy Garland esaltano il compito di “ingannare” il prossimo con le splendide magie del teatro: le fantasie “sbagliate” sono state annichilite da una realtà deludente e il vero, quando è capace di far scattare le corde giuste, sa saziare chi coltiva la fantasia.

 

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Così come Un americano a Parigi: Parigi non è soltanto una fuga onirica, la città in cui è possibile esprimere la realtà del sogno, ma anche l’altrove in cui l’americano può celebrare la cultura locale smontandola e adattandola ai propri sogni e bisogni. Parimenti teorico ai lavori di Minnelli è Un giorno a New York (Donen e Kelly, 1949), per la capacità di ragionare sulla realtà (uno scenario metropolitano) che si fa spettacolo (i siparietti tra i marinai come una messinscena dentro la messinscena). Tre film interessanti per capire il preambolo di quelli che sono i due capolavori della MGM, Cantando sotto la pioggia (Donen e Kelly, 1951) e Spettacolo di varietà di Minnelli: vi ritroviamo la celebrazione dello spettacolo e la realtà che si fa spettacolo, l’ideologia dell’intrattenimento e il conflitto tra cultura alta e bassa, il mito americano e il senso della fine.

 

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Nonostante i due film non chiudano la stagione dei musical MGM, si pongono in una situazione di frontiera e frattura. La funzione metalinguistica è racchiusa nella narrazione: raccontano l’allestimento di uno spettacolo e un conflitto tra due mondi. In Cantando sotto la pioggia, le riprese de Il cavaliere spadaccino, uno dei primi lavori sonori, rivelano le difficoltà di una mediocre attrice del muto dalla voce stridula, ingegnando il divo a trasformare tutto in musical sostituendo lo starnazzo dell’oca con la voce angelica di una ragazza comune. Oltre l’opposizione tra muto e sonoro si finisce col riflettere sulla realtà e la sua rappresentazione: in questa macchina simbolica sul tema del falso, l’entertainment si propone luogo ideale della falsificazione, spettacolarizzando tutto, compreso ciò che non è spettacolo (la lezione di dizione sabotata dal nonsense di Donald O’Connor), e il non-realismo finisce per esaltare la verità della performance (la canzone titolare in una strada chiaramente ricostruita ma resa credibile dalla potenza di Kelly). Anche la dichiarazione d’amore a Debbie Reynolds appare possibile perché si trovano su un set (il numero You Were Meant for Me): la stilizzazione dell’ambiente s’accorda alla realtà dei sentimenti cantati.

 

 

In Spettacolo di varietà, la rentrée di un ballerino in disarmo (sorta di autoritratto più che autobiografia di Fred Astaire) avviene dapprima dentro un fallimentare adattamento musicale del Faust poi mutato in un trionfale show dall’impostazione più popolare. Il film di Minnelli, una visione del mondo (lo spettacolo) come spettacolarizzazione, sembra più programmaticamente teorico di quello, pur sfacciatamente autoreferenziale, di Donen e Kelly: accanto ai personaggi ispirati alla realtà (Lili e Lester Marton sono ideali proiezioni degli sceneggiatori Betty Comden e Adolph Green) e al sarcasmo che lo sottende, la consueta tendenza del genere a riunire gente e riunire cose risolve i conflitti nella trasfigurazione musicale. La danza notturna a Central Park di Astaire e Cyd Charisse è un incontro di due mondi (per di più appartato: “lontano dal mondo”, un “mondo altro”): la vecchiaia e la giovinezza, il passato e il presente, lo spettacolo popolare e la “cultura alta”, trovano una comunione nell’imperativo che lo spettacolo debba Chiude il cerchio l’inno patriottico That’s Entertainment!, eseguito due volte: nella prima riunione è una specie di epifany che unisce la prospettiva seria del regista a quella degli artisti; nel gran finale corale diventa un compendio di ciò che abbiamo visto («the world is a stage / the stage is a world of entertainment»).

 

 

Negli anni Cinquanta gli americani erano molto meno felici di quanto pretendessero – d’altronde la fantascienza paranoica e le nevrosi, il noir e il melodramma stanno lì a dimostrare il pessimismo e l’inadeguatezza della realtà al cospetto del desiderio: non è un caso che il musical della MGM esploda negli anni Cinquanta. L’esaltazione del cinema come finzione, unica realtà del cinema, e la sua capacità di proporsi come discorso dello e sullo spettacolo, attraverso una “sospensione della credenza” che è la cifra di comprensione della realtà e specificatamente della sua rappresentazione, inducono a pensare che la fine del musical coincida con l’inizio della fine del cinema. In questo senso, Cantando sotto la pioggia e Spettacolo di varietà sono due parate nostalgiche, due racconti di spettacoli in fieri, due sogni che seminano il germe dell’incubo, due finali.

 

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Dopo Spettacolo di varietà, Minnelli realizza il broadwayano Brigadoon, la storia di due americani capitati in un paese fuori dal tempo che compare un solo giorno ogni cento anni. Al di là della splendida fattura estetica, impreziosita dall’estensione della fotografia in CinemaScope adeguata alle gremite coreografie e al godimento paesaggistico, è fin troppo palese la dimensione metalinguistica, con Kelly nuovamente immerso in un mondo “altro”, abitato dalla Charisse (il sogno), e Van Johnson a dispensare pillole di scetticismo (la realtà). Un fantasy in cui s’ondeggia tra l’onirismo romantico e l’incubo metafisico («Il nostro giorno è alla fine!»).

 

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Parallelamente, Donen firma Sette spose per sette fratelli, altra evasione campestre, un’esaltazione rurale che celebra la giovinezza, l’amore, il disimpegno ma soprattutto la rozzezza inalienabile rispetto al carattere americano, e soprattutto, assieme a Kelly, È sempre bel tempo. Nonostante il rassicurante titolo, il film trabocca di pessimismo ed amarezza: le emblematiche sequenze in cui i protagonisti si ubriacano dando libero sfogo alla danza suggeriscono che se prima si cantava con gioia sotto la pioggia, qui si inneggia al bel tempo con lo sconforto nel cuore. Non a caso, dopo questa esperienza, lasciata la MGM, Donen sospende la sua parabola nel musical con Il giuoco del pigiama (1957) e soprattutto Cenerentola a Parigi (1957), ancora un incontro tra due mondi: l’America e Parigi (e, va da sé, la visione americana dell’Europa), l’avanguardia artistica e lo spettacolo classico, la giovane Audrey Hepburn e l’anziano Astaire.

 

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Anche Kelly prende la via della fuga e cos’è Trittico d’amore (1956), privo di dialoghi, se non una celebrazione della danza e, almeno nell’ultimo segmento curato dagli animatori della Hanna-Barbera, la riaffermazione di uno spettacolo dell’esaltazione tecnologica? Maggiore fortuna commerciale la riscontra col raffinato ed aspro Les Girls (Cukor, 1957), con le canzoni di Cole Porter, in cui è solo attore ed interpreta un capocomico, perno della narrazione tripartita di tre ballerine: un altro musical sullo spettacolo dove i “numeri musicali” sono “ricordati” durante un’udienza che intenderebbe stabilire la verità vera: ma per un attore vivere secondo naturaè vivere nell’artificio.

 

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Tuttavia a lasciare un segno più indelebile è Minnelli, che chiude la sua carriera nel musical con Gigi e Susanna agenzia squillo (1960) Malgrado non si possa ridurre ogni cosa ad una lettura in qualche maniera sociopolitica, questi film appaiono in una stagione di transizione tra gli ultimi contraccolpi maccartisti e i primi segnali del kennedysmo. Gigi non nasconde né un’orgiastica nostalgia (una Parigi se possibile ancora più sontuosa che in Un americano a Parigi con la simbolica presenza dell’esule Maurice Chevalier) né una certa tendenza all’ipocrisia (d’altronde, nonostante il lieto finale amoroso e le depurazioni dall’originario testo di Colette, non si presenta come un racconto sull’avvio alla prostituzione d’alto bordo?), è confezionato col sapiente gusto pittorico di Minnelli (la luminosa sequenza vespertina del dialogo cantato da Chevalier e l’antico love affair Hermione Gingold, peraltro tutto rivolto al “grande avvenire dietro le spalle”), modulato secondo un sistema interno di simmetrie e di accostamenti in cui la musica è elemento centrifugo, felicemente “ridondante” e significativamente sacrificato della componente danzante.

 

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Susanna agenzia squillo, scritto per Broadway da Comden, Green e Julie Styne, è l’ultimo prodotto di Freed per la MGM e rinuncia anch’esso ai numeri di danza, non immune da una dimensione autoriflessiva: Judy Holliday è una centralinista che dà voce, e quindi corpo, ai desideri degli utenti, finendo per perdere la propria identità. È sintomatico che il decennio si chiuda così: due commedie musicali in cui si continua a cantare ma non a danzare, quasi a voler relegare la spettacolarizzazione del ballo ad un passato anacronistico. È una scelta dettata dal risparmio o dal rinnovamento, dalla coscienza dell’irripetibilità del passato o dall’incapacità di replicarlo?

 

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Certo, non si può tacere sugli imponderabili nuovi gusti del pubblico o sull’avanzata della musica rock, però non è soltanto una questione di “sentimento del tempo” o di rivoluzione discografica: c’è qualcosa che ha a che fare col mood del genere. Il tramonto avviene perché viene meno ciò che ne garantiva l’autenticità e il patto col pubblico: la credibilità della finzione. Cantando sotto la pioggia e Spettacolo di varietà s’impongono radicalmente come due opere conclusive. Dopo di loro, film estranei alla struttura del musical affermano, per varie ragioni, l’idea, spesso implicita, di un mondo in cui la musica (e quindi, potenzialmente, il musical) è ovunque. D’altro canto, i musical che vengono successivamente non fanno che attestare, esplicitamente o meno, il senso di una fine, chi fingendo di non accorgersene, chi esorcizzandola e chi battendo altre strade.

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