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Il tempo senza
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Lehava

Lehava

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Ho cercato di non pensare durante il viaggio. Solo di guidare. Ho parlato, come faccio spesso, immaginandomi una conversazione. 

Sto facendo uno sforzo immane per ritornare indietro a recuperare quei momenti, senza inquinarli del dopo. La scrittura è sempre a posteriori, anche la più immediata - e questa non lo è. Esclude la contemporaneità, l'incontro immediato fra pensiero, emozione e parole. Mi si ferma il cuore ad ammetterlo: volevo, vorrei, in mio mondo privato di simultaneità dove essere pienamente, corpo e anima, ciò che scrivo: ora e qui.

Ma la vita scorre, ed è una catastrofe a cui non posso abituarmi. "Smettila" mi rimprovero " Questo è l'adesso, non è quel giovedì". Quel giovedì pomeriggio, la testa in fiamme, il caldo forte e l'aria condizionata che non va, le aspettative, i malumori, l' incomprensione e l'esaltazione, i sentimenti, le verità ma quali verità? Il parcheggio sotterraneo ed il biglietto che non viene fuori dalla macchinetta, la passeggiata fino all'edificio centrale, l'alfalto che quasi fuma e la gente, tanta, che si affanna e si affretta, c'è l' Expo. Avevo chiesto ferie e allora, ecco, ho deciso di venire lo stesso. C'è un posto libero sulla panchina: quella proprio all'ingresso, di fronte al tabellone delle partenze giusto sopra le scale e l'uscita verso le pensiline. Ho di fronte il bar, un vai e vieni ininterrotto di esseri umani: belli, brutti, ben vestiti e straccioni, bianchi e neri, con le valigie con le borse, con solo sacchetti di plastica in mano, e i biglietti, le bibite, i tramezzini. Non so, è questa la vita? Cioè è questa che scorre, la catasfrofe che vorrei interrompere? Ghiacciare l'istante in una giornata di luglio, nell'attesa che Barthes dice essere un'incantesimo ma a me pare una tragedia scomoda ed incomprensibile? "Smettila" mi dico: "Smettila di pensare con citazioni di altri e ragiona con la tua testa. Anzi non ragionare per niente. Fai. Fai, una buona volta, decidi, cavoli." Sono qui, e sto facendo qualcosa: aspetto. Guardo i volti, intanto attorno il trambusto, i treni che schizzano via troppo veloci, cento lingue diverse, le risate, le malattie, la povertà, i dolori che chiunque, più o meno, si porta dentro, silenzioso. Sono immobile con il mio vestito bianco, bianco come le mie ragioni, che mi appaiono decisamente irragionevoli, ma sbagliare, per chi non si concede errori, ha il sapore dolciastro del miele che ti impasta la bocca e ti aumenta la salivazione, e per deglutirne le ultime gocce ti strofini la lingua sul palato. E ti resta addosso una sensazione di morbido, insopportabilmente morbido. Gnam gnam: buono, lo sbaglio.

"Eppure il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo...e nessuno riusciva a sfuggirgli"(1).

Guardo il tabellone, non so bene cosa controllare però. Fa sempre più caldo, la pioggia è ancora lontana. Si siede accanto a me una signora vagamente elegante, sulla settantina, un trolley non voluminoso ed un cagnolino bianco al guinzaglio. Un maltese, mi pare.

"Che carino" lo accarezzo e la testina si strofina docile che parrebbe un gattino.

"Si chiama Lulu" mi informa lei.

"Allora Lulu, come va con 'sto caldo infernale? Ahhh, ma tu sei protetta dal tuo pelo soffice, piccolina" l'animale mi guarda e pare ridere con gli occhi scuri, come ad annuire non so bene se all'affermazione sul caldo o quella sul pelo. A tutte e due magari. Come se i cani annuissero. La signora è ansiosa di attaccar bottone:

"Dove va? Al mare?"

Sorrido: "No, aspetto".

"Ahhh, e il treno è in arrivo" non una domanda la sua, più un dato di fatto.

"Beh, a dirla tutta non lo so. Non so quale sia il treno, cioè io penso, da Milano. Ecco, se sono sincera aspetto giusto per il gusto di aspettare". Le sopracciglia della mia interlocutrice si inarcano appena:

"Ah sì? Beh non è lei in partenza in effetti: non c'è bagaglio. Ma allora, perché è qui ad aspettare? Non ha niente di meglio da fare una bella ragazza come lei in una giornata d'estate?" Mi pare un dialogo fra sordi, dove qualche osservazione è solo casualmente sensata.

"Aspetto perché ....." esito, dubito sulla risposta, la cerco nella mia testa: "Aspetto perché è così. Punto e basta."

Sono quasi indispettita, "niente di meglio da fare" bahhh. Ne avrei ben donde! Di meglio da fare ma se poi le cose sono come sono, si prende quel che viene, e cioè che le cose sono come sono, ed io resto qui ad aspettare.

La signora si volta verso Lulu e, perplessa da questo scambio di battute strambo, riconduce le parole sui binari della pensilina 4 : "Noi invece andiamo al lago!" "Bene, così prendete un po' di fresco" osservo cortesemente. "Eh sì, ed ecco che hanno appena dato il mio treno in arrivo. Arrivederci e buona fortuna" si alza in fretta strattonando il maltese.

"Arrivederci a lei, e buone ferie".

Accompagno con lo sguardo la donna giù per le scale notandone l'andatura ancora agile e chiedendomi, svogliatamente, come sarò a quell'età. "Speriamo sotto terra" ammetto tra me e me. Mi sento un po' Forrest Gump alla panchina: un'idiota che ragiona sui massimi sistemi. Mi vengono in mente tutte quelle scene cinematografiche alla stazione, quelle romantiche con gente che si incontra, che si abbraccia, che è felice di essere lì. Smack smack. Una stazione è proprio una stazione! Un luogo non-luogo. Banale, identico a mille altri eppure a nessuno che non sia esso stesso, appunto, una stazione. Riconoscibile, inequivocabilmente estraneo. Dove ci si sente sempre e solo di passaggio, perché l'esistenza non è un passaggio? Filosofia da strapazzo. Ho sempre creduto nella programmazione: che le cose non "accadessero", in fondo, per caso. Ma che il destino potesse essere controllato. Come io avevo sempre controllato la mia testa, il mio cuore, il mio corpo. "Odio le sorprese!" affermo ad alta voce che tanto nessuno fa caso a me e poi la frase è tanto chiara quanto inopportuna. Così  le corse di gioia fuori dai vagoni, alla "Il tempo delle mele" o più buffe alla "Sapore di mare" scompaiono e mi assale il tonfo secco sulla rotaia.

"Anna Karenina no! Eh no! Smettila di ragionare per metafore di libri o film! La vita non è un romanzo né tantomeno un lungometraggio. Impara a vivere piuttosto. Disgraziata" Mi auto-insulto, lo so, che le parole non sono niente, ma se per me sono tutto, che posso farci? E una fornace questo luglio, il palmo delle mie mani suda a tal punto che mi pare di non riuscire a trattenere neanche quel barlume di me stessa, chiudo gli occhi un istante per riposarli, e forse dovrei impegnarmi in qualcosa di concreto perché questa attesa vuota mi sta distruggendo. Adesso vado alle analisi comparate: pregi a destra, difetti a sinistra. Mi tranquillizza questo gioco: faccio castelli di carta mentali, con le carte da briscola che sono rettangolari così il castello diventa più alto: dalla cima al fondo: priorizzo. Mi è sempre venuto bene questo verbo anche se non è proprio chiaro se sia collegato ad una qualche azione. La mia priorizzazione è intima e piramidale. Verso la cima (ma la cima è nascosta ai miei occhi da nuvole solide) l'attesa. Nella lista delle cose irrazionali che ho fatto questa viene in assoluto per seconda.

Sghignazzo pensando alle motivazioni: "avevo bisogno di sapere che  fosse qualcosa di tangibile, reale". Le mie scarpe sul pavimento, il mio sedere sul legno della seduta, l'orlo del vestito stirato male, questa arsura che mi ha preso, la tacca dl livello della benzina che si abbassa a seguire i chilometri che passano, il tabellone con gli orari,  i senzatetto sistemati alla bene e meglio all'ingresso, la pavimentazione dell'esterno che mi ha dato noia con i tacchi, ecco queste sono cose vere! E cosa è il resto, se non fantasia? Una fantasia così reale da farmi sussultare ad ogni accenno, a farmi implorare un sussurro, da farmi mancare il fiato ansimando come una corsa prolungata e folle. E mi guardo attorno e tutto mi pare invece fasullo. Solo io qui seduta, ed i miei pensieri, siamo. Inerme e stanca mi abbandono all'improvviso a sogni infantili guardando sul tabellone le cifre rosse: 17:34. Eccola la mia fantasia, sarà quello! il treno. Un po' mi dispiace, lo ammetto, che venga da Milano. Non mi piace Milano: è troppo grande, troppo trafficata, troppo grigia, troppo calda, troppo piatta, troppo, troppo Milano. Magari sarebbe stato bello: che ne so? Il treno da Firenze, o da Genova, città meno città insomma. Ma è oramai così: quella è la corsa.

Devo essere sincera: questa attesa mi piace. Non è assurda e neppure vana, non è sinonimo di rinuncia o anelito d'azione. Non è sguardo ossessivo verso l'orizzonte con la speranza che qualcosa compaia. Come i soldati, sulle mura. No. La mia attesa è surreale nell'essenza. Perché so che non sarà: non può arrivare chi non sa di essere atteso. E che non ha nessun interesse a giungere lì, ora. Però, se è così, le aspettative sono nulle, il rischio della sgradita sorpresa altrettanto, e la gioia del momento totale. Liberato da molti pesi, può librarsi nell'immaginazione. Ed io posso scriverne le pagine, esattamente come sto' facendo ora, dopo un anno, riassaporando la libertà provata dalla contingenza. Posso decidere io il treno, l'orario, persino la scena del film che più mi piace, e non essere delusa se ciò non accadrà. Perché so che non può accadere. "Mmmm scarto Prima dell'Alba perchè quelle situazioni lì le ho mezze vissute: mezze perché sono diffidente e chi mi garantisce che quel ragazzo olandese incontrato nelle cuccette direzione Parigi non fosse un maniaco, che mi chiese di girare insieme MontMartre, per la mezza giornata a disposizione prima di prendere la coincidenza per Amsterdam (la Gare du Nord è a nord appunto)? O il veneziano, come si chiamava? No, no. Scarto Prima dell'alba. E no, non me ne vengono in mente altri, via questa faccenda dei film! Via il film, elimina, lascia l'essenziale, solo le parole , il resto lo costruisco io". Ok, se fantasia deve essere allora che sia.....

E mi concedo alfine la domanda più ovvia: “Come sei entrato nella mia vita? Com'é possibile che fossi così indifesa? E non sei entrato nemmeno da una finestra o da un lucernario. Sei riuscito a trovare una fessura attraverso la quale mi hai trafitto il cuore”. (2)

"Ma va!" Ribadirà lui. Tu? Proprio tu che sei donna che ti sei imposta “niente sogni...La realtà che si infiltrava in ogni tua cellula, realtà che non potevi sfuggire …. E se qualche volta di sei lasciata andare, è stato solo per mezzo di opere d'arte, pittura canto, musica naturalmente. … Dove hai vissuto?” (3) dunque tu, dove hai vissuto fino ad ora?

"Hai ragione", ammetto, ha ragione, è che “tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso” (4) pardon, dentro me stessa.

Ma allora non è vero che: “Non si può guarire solo con le parole. Ammalarsi sì. … Ma consolare? far rivivere? Per questo occorre vedere degli occhi di fronte a sé, toccare delle labbra, delle mani, un corpo che si ribella e strepita contro le tue idee infantili di astrattezza “pura” (5).

Ammalarsi di idee, e salvarsi nelle sensazioni. Che meraviglia, pare scritta per me! Ma io sono qui, ora, e pretendo la mia guarigione: "l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno" (6). Che non sono certa di sperare di ottenere. Forse perchè so non l' avrò, e quindi non posso volere. Con questi verbi modali faccio un gran casino: volere, potere .... e chi ne capisce la differenza? Guardo il cellulare. Sono le 17:15. Fra poco arriverà il treno. Mi alzo e mi avvio alla pensilina. All'imbocco del sottopassaggio si avvicina un ragazzo di colore, mi chiede qualcosa, io guardo avanti e non rispondo. Nemmeno un'occhiata, neanche un monosillabo. Non dev'essere facile, vivere nell'indifferenza. E l'incomprensione: sempre meglio dell'indifferenza. Mi sono sempre sentita non compresa. Ma è la legge dei grandi numeri: se nessuno ti capisce forse sei tu che non sai comunicare, o non vuoi, o non puoi. Sempre quei verbi lì.

Il tempo è passato così in fretta, che non mi sono accorta di essere qui da più di due ore. O da anni, non fa differenza. All'inizio piangevo lacrime di logoramento. Mi piacevano, erano dolci, come questa attesa, come un dolore che ti passa con l'anestesia locale e senti l'insensibilità salire poco a poco nel tuo corpo. E poi non ti senti più, eppure ci sei. Non sei incosciente, ma neppure cosciente. In balia di qualcosa di esterno, di estraneo iniettato nei tuoi meandri. Per fortuna che sono quasi le 17:40 altrimenti a forza di autocitazioni avrei potuto perdermi in un deserto fatto di sole parole. Anzi, in un deserto fatto di silenzio, quando le parole non pesano più. Sono sfinita dal caldo, il vestito è stropicciato, sudo sulla nuca: i capelli mi si aggrovigliano in piccoli nodi lungo il collo. Ed io continuo, nervosamente, a tormentarli. L'altoparlante chiama il treno da Milano. Sento il sibilo e le prime carrozze che rallentano. Ecco che si fermano, e sulla pensilina si riversa un'umanità vociante e frettolosa. La vista quasi mi si annebbia dalla troppa confusione e le facce si accavallano: mi sento perdere ogni riferimento. Ma sono solo pochi attimi poi la fiumana è già scemata, e mi trovo a girare su me stessa, cercando, cercandomi. Cercandolo forse.

Tutto è già finito, così, finito prima di iniziare, troppo tardi quando era ancora presto.

Lontano scorgo le mura della fortezza, nella piana fatta di rocce grigie bruciate dal sole di luglio.

L'orizzonte è piatto, come era ieri, a come sarà domani. Un districarsi di cavi e case, di ferro e rame, di braccia e gambe, di luce ed ombre. Di vita e morte. 

Fu allora che mi ritornò alla mente il suono tronfio del pendolo austriaco ottocentesco, il senso di certezza che il suo battere inesorabile ogni quarto d'ora mi dava, da bambina. Il tempo senza spazio e senza colori nel buio della notte, che si plasmava doloroso nei miei pensieri ma che poi un solo rumore squarciava, recidendo il prima dal poi, fino al suo riproporsi uguale, presente sempre, senza futuro, senza passato.  "... parve che la fuga del tempo si fosse fermata, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme.... Gli occhi di Drogo fissavano come non mai le giallastre pareti della fortezza. Lacrime lente e amarissime calavano giù per la pelle raggrinzita, tutto finiva miseramente e non restava più nulla da dire." (7)

E' quella bambina, oggi 9 luglio 2015, che sta ferma, seria e distante, sulla pensilina 4 della stazione. Indossa il suo abito bianco e le scarpe con il tacco alto. E' qui da quasi tre ore e fra poco tornerà a casa. Dovrebbe essere triste, e forse lo è. Ma può, potrà sul serio mai esserlo? Le sarà concesso, concederà a sé stessa almeno un solo istante, per esserlo? Il sole si è nascosto dietro il traliccio ora, ed i suoi occhi hanno un po' di tregua dalla luce. E' allora che, forse afferrando un pensiero lontano o un sentimento vicino, senza motivo, "...benché nessuno ... veda, sorride." (8)

 

(1) (6) (7) (8) D. Buzzati "Il deserto dei Tartari"

(2) (3) (5) D. Grossman "Che tu sia per me il coltello"

(4) F. Kafka "Lettere a Milena"

Film "Il deserto dei tartari" V. Zurlini, 1976 

 

 

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