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Manoel, Robert e Francia-Portogallo
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Il calcio è materia per pedatori, gioventù che ha scelto di non bruciarsi salvo eventuali e successivi patti con il diavolo del successo, per commissari tecnici, anche improvvisati tra le brume di bar di paese, o persi in schemi da innescare su tovaglie e tavoli di legno (eventualmente sul panno verde di un Subbuteo, cfr.. l’Antonio Pisapia de L’uomo in più), per sociologi e scrittori (Desmond Morris, Giovanni Arpino e, ovvio, Gianni Brera, l’inventore di una lingua pulsante nel corpo immutabile di un gioco centenario). Un po’ meno per cineasti, a meno di non voler considerare (per restare nel panorama tricolore) dei sottili giochi citazionisti quegli insulsi (per quanto latamente divertenti) vaudeville che rispondono al nome di L’allenatore nel pallone, Mezzo destro mezzo sinistro, Tifosi: con i loro personaggi inventati da menti a metà tra il liceale vispo e l’ottuagenario in deficit prostatico (il brasiliano Aristoteles nonché il più clamoroso di tutti: il calciatore finlandese Kekkonen, dall’orientamento sessuale che è un inno politicamente non corretto al nomen omen).

 

L’altra sera, a Saint-Denis, Francia, il rito è andato in onda per l’ennesima volta. In una nazione piegata, frustrata (che anzi sembrava essersi immolata anche alle iperboli ed alle ritrite fantasie di commentatori in perenne orgasmo da enfasi retorica) che ha provato ad andare avanti ed a presentare al mondo il conto di una quotidianità festosa. E non c’è miglior festa di una finale, l’atto conclusivo, quasi un triello leoniano (una squadra, l’altra squadra, ed il caso, l’imponderabile). Al netto delle moderne tecnologie di ripresa, delle “camere esclusive” attraverso le quali avresti potuto contare i fili d’erba ed i brufoli dei geni Cristiano e Paul, eccezion fatta per le falene notturne, la cui moderna e quasi biblica invasione ha rappresentato un romantico dazio da pagare alla natura che se infischia delle organizzazioni e dei modelli di perfezione, pareva di vederli lì, l’uno accanto all’altro, in tribuna d’onore, confusi tra i corifei di tutte le Brexit del mondo, ed i pupari della Fifa (anche blu) e della UEFA. Due facce rugose, due bastoni nodosi, due intelletti prestati al Francia-Portogallo di giornata, due, ahimè, fantasmi, sia pure immarcescibili.

Due grandi vecchi, rigogliosi e fantasiosi, due che il cinema lo hanno conosciuto, inventato e piegato alle proprie visioni, due maestri, perché c’è della maestria nel fare di un proprio schema mentale il modello di riferimento di schiere di cineasti senza fantasia. Robert e Manoel, a cantare senza vergogna La Marsigliese e A Portoguesa, con al collo una bandiera colorata che, a ben guardare, deve essere quella della coerenza. La partita può iniziare, Bresson e De Oliveira si mettono comodi. C’è un’altra vita davanti a loro, lunga 90 minuti, o forse appena un po’ di più.

 

 

Cosa può pensare Robert di Cristiano Ronaldo dos Aveiro, maderano di Funchal, isolano nato sull'oceano ma con i piedi ben piantati sulla terra, a disegnare traiettorie che per Manoel sono sceneggiature meravigliose e impensabili? Dovrebbe innanzitutto farsi spiegare il significato di quel brutto acronimo (CR7) che pare provenire dai tagli di montaggio di un Bond di frontiera; quindi andare ad informarsi incuriosito sul suo ingaggio per concludere che, come sempre, è L’argent il male massimo del mondo. Anche se, forse, è solo una legge di mercato a trasformare il talento in oro. E Robert di talento se ne intende, potrebbe chiudere un occhio e guardare con gusto le evoluzioni di quel fenicottero tatuato. Ma non gliene danno il tempo: Manoel ha un sussulto, ha appena visto il suo eroe in lacrime, colpito dalla violenza magari inconsapevole e che pure gli riporta alla mente quel finale, l’esplosione totalizzante di Un film parlato. Dopo Cristiano potrebbe non esserci più gioia rossoverde, salvo miracoli, che per i laici, si sa , sono piuttosto difficili da inquadrare.

 

 

Poi accade che i portoghesi si uniscano senza un vero perché, accade che quei portatori d’acqua e di soma, quei non geniali Baltazhar trovino un guizzo e rovescino il tavolo delle certezze. E lo fanno grazie all’intuizione di un borghese di sostanza: l’ingegner Fernando Santos che libera il suo cavallino di razza Eder, uno spaurito Gebo dalla pronunciatissima ombra nera, probabilmente il diavolo, per Robert. Manoel alza le braccia al cielo, pare un ragazzino (come sempre, fino al 2 aprile di un anno fa), esulta rapito dalla singolarità di quel destino che, sì, ha i capelli dorati. Dall’altra parte Robert pensa ad un’altra ragazza, non bionda e meno solare: Mouchette che, se non avesse altri pensieri per la testa, altre terribili contingenze di vita, ora sarebbe qui a piangere, come ha sempre fatto, come sempre le hanno fatto fare.

 

 

Poi l’incontro finisce. Robert e Manoel si alzano e si salutano con un po’ di freddezza e molto rispetto. Manoel pensa che, se ancora fosse vivo, ecco: Cristiano sarebbe il nuovo eteronimo di Fernando Pessoa.

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