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Anche i finlandesi piangono (ridendo)
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Come immaginate la Finlandia? Terra del Nord, fredda, nevosa, inospitale. Agglomerato di case e di vite degne di una cartolina senza movimento, fuoco represso di passioni, pagliaio di ordine e disciplina. E i finlandesi? Persone a modo, alte, bionde, slavate. Cittadini che chiedono ed offrono il massimo rispetto, uomini dalla socialità fine a se stessa, presi in un rispetto delle regole che non offre ragioni di scantonamento. In una parola: bravi ed onesti esseri umani, vessati da una tristezza che fa il paio con la glacialità del circostante. In Finlandia rideranno delle barzellette (mai volgari, per carità); dei giochi di parole imparati da bambini, dei turisti chiassosi e delle comitive da strapaese; non avranno tempo per fermarsi a riflettere, ligi ai doveri ed ai codici delle giornate serene. Helsinki sorta di Milano dell’estremo Nord, indaffarata e pulita, dai ritmi meno convulsi ma comunque tali da porre in primo piano i propri compiti quotidiani. Città bella, un po’ triste, certamente poco evocativa. La vera sfida del cinema italiano potrebbe essere quella di ambientare un cinepanettone (con contestuale rinuncia alle parolacce e alle donnine) nella capitale finlandese.

 

 

Poi un giorno (4 aprile 1957), ad Orimattila (angolo di Finlandia che le enciclopedie, quando ancora c’erano le enciclopedie, faticavano a posizionare) nasce il Sig. Aki Kaurismaki. E l’idea che ci eravamo fatti della Finlandia diventa obsoleta, falsa, sbagliata, manichea. Il Sig. Aki fa strame di ogni regola ideologica, sfrutta i fondali e le location poco attraenti, immagina una Helsinki periferica, la filtra e la filma come il qualsiasi quartiere anonimo di una qualunque metropoli, reinventa la socialità dei suoi personaggi, li inquadra in una sorta di triste determinismo che ha tuttavia molto di comico. Kaurismaki è il cantore di una malinconia ironica, portatrice di una risata che, appena nata, sembra sorpresa ad abortirsi da sé, perché va oltre il suo senso, apre scenari alla ragione (ed una ragione che possa e voglia dirsi tale ha in sé l’alfabeto del pessimismo). Ogni film di Kaurismaki fa ridere e, contemporaneamente, ti fa vergognare di averlo fatto. Perché i suoi personaggi, figurine di looser astrali e schiacciati dalle proprie stesse incapacità (eppure in grado di ribellioni omeriche, si prenda la meravigliosa fiammiferaia), sono i muli da soma di una società troppo ordinata per poterne accettare, accogliere e metabolizzare i tic ed i difetti, nonché le povertà e le inevitabili crisi personali.

 

 

I Cowboys di Leningrado (ok Russia, non Finlandia: ma il luogo è un pretesto con il quale Kaurismaki motteggia sulla inospitalità del “mondo ghiacciato”) cos’altro sono se non un’accolita di sognatori irrigiditi dalla tundra ed espulsi dai sogni romantici del successo? Il provincialismo acuito dall’ingenuità è l’ostacolo al sogno, le avventure tragicomiche dei suonatori costretti a ricercare un’ improbabile affermazione in America (per poi agguantarla in Messico, al caldo, al tepore rarefatto di ritmi lenti e diversi) sono il dazio da pagare a natali sbagliati, tutti da rifare. Film portatore di un ineffabile senso tragico, non c’è che dire: eppure basta guardare il ciuffo ostinato dei Cowboys, quel loro voler assomigliare a modelli di altro e più consistente spessore, ovvero riflettere sulle strategie da squalo di manager altrettanto scalcagnati ma con il coltello dalla parte del manico, per comprendere la sfaccettata poetica del regista: ridere dei suoi personaggi ma soprattutto con i suoi personaggi, castigare le loro azioni da surrealtà eppure amarli di un sentimento tenero, caldo e complice.

 

 

C’è poco da ridere ne Le luci della sera e L’uomo senza passato. Eppure si entra in quei personaggi giocoforza meschini e disperati con un afflato che davvero sembra renderteli fratelli: consanguinei sfortunati, paradossalmente presi all’amo della ingenuità, ombre di volontà coartata da meccanismi che inglobano e stritolano. La guardia giurata Kostinen ingolla gli altrui sfottò e pensa ad una donna bionda ed al denaro che arriverà. Il rendersi conto dell’errore e dell’inganno non ha alcun senso: l’importante è andare avanti per la propria strada e giurare fedeltà ad un’idea rigida di onestà (che è poi l’affermazione antistorica di una innocenza fuori dal tempo e dallo spazio). Coerenza e dignità, sentimenti che si agitano quasi senza parole: signori, ecco una Finlandia mai pensata. E ancora: l’operaio senza nome e senza passato, vittima di un teppismo (anche ad Helsinki ci sono i balordi) che gli impone di ricominciare. La ricerca delle nuove coordinate è il consueto canto di Kaurismaki alla inanità degli sforzi umani: per quanto il finale lasci un minimo di speranza, le vicissitudini dell’uomo assomigliano ai primi gattonamenti di un bambino indeciso se lanciarsi o perdersi nella immobilità. La grandezza di questi film, al di là di storie che possono sembrare rimasticature di temi universali e già visti, sta nel linguaggio. Meglio: nel non linguaggio, nelle omissioni, nel non detto, negli sguardi lucidi di tristezza, velati da inquietudine, rassegnati alla rassegnazione. Anche lo spettatore, come il regista, nella sceltra tra il ridere dei personaggi o con i personaggi, non può che percorrere quest’ultima strada. Immedesimarsi e provare tenerezza, abbozzare un sarcasmo rispetto ai non movimenti o alle azioni masochistiche, riconoscersi ed amare quella surrealtà che è figlia della difficoltà a trovare un proprio posto nel mondo. Verrebbe da dire che Kaurismaki realizza opere con personaggi che sono e saranno perenni adolescenti. E l’adolescenza è un’età inquieta e, appunto, al contempo estremamente comica e profondamente tragica.

 

 

Un’adolescente cupa e perdente è anche Iris, la fiammiferaia. Nel finale atto di ribellione della ragazza Kaurismaki riflette il passaggio traumatico all’età della (apparente) chiarezza, alla raggiunta consapevolezza della necessità di rinunciare ai compromessi. Anche qui c’è poco da ridere: l’ambiente soffoca, la famiglia lasciamo stare, l’amore è l’elegia funebre delle speranze. Ma basta un piano sequenza, un’inquadratura sbarazzina, uno sguardo di bieco e feroce odio perché ritorni in tutta la sua forza quel sentimento caldo di compassionevole trasporto, quella risata interiore destinata ad essere soffocata dalla tristezza dell’assunto.

 

 

Con l’ultima opera (Miracolo a Le Havre) Kaurismaki si concede una trasferta francese, in un abituale contesto di sottoproletariato, qui portuense. E, come nel bellissimo Nuvole in viaggio, ci parla a modo suo di crisi personali e sociali. Forse con una lucidità leggermente inferiore ai canoni soliti: la storia di una solidarietà tra mondi distanti eppure perfettamente riconoscibili nei rispettivi stigmi di precarietà appare a volte debitrice di un buonismo eccessivo che, certo, non raffigura la reale cifra stilistica del regista. Ma un Kaurismaki lo vedi nelle piccole cose, negli scarti da montagne russe della sceneggiatura, negli sberleffi che, si ribadisce, in un contesto di generale malinconia muovono a quel riso rattrappito (l’esibizione di Little Bob, la scena dei fiori). Attendiamo altre prove, altri miracoli laici, altre cartoline fumose e nostalgiche da una Finlandia che ride di una se stessa tragica e dei suoi esseri umani, troppo umani.

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