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DEADPOOL. L'ultimo dei supereroi.
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Che il nuovo secolo sia appannaggio dei supereroi e del cinecomic, sia a livello immaginifico, filosofico, linguistico e commerciale – la responsabilità dei poteri, la metropoli, il mondo teen, il superomismo, la giustizia, i vigilantes, effetti speciali, montaggio, ritmo, ibridazione con la commedia, grandi incassi al botteghino e previsioni più che rosee per le fusioni dei vari universi – è un dato di fatto. Da Superman (1978) ai Batman di Tim Burton, Schumacher e Nolan (1989-2012), e poi gli X-Men di Brian Singer (2000-in corso), gli Spider-Man di Raimi e Webb (2002-in corso), e ancora Hulk (2003-2008), Jonah Hex (2010), Thor (2009-in corso), Iron Man (2008-2013), Capitan America (2011-in corso), i Fantastici Quattro (2005-in corso), Daredevil (2003) e anche Wonder Woman (2017). Per non contare ovviamente il grande successo epocale dei Guardiani della Galassia (2014-in corso) e dei prossimi film in arrivo, da Doctor Strange (2016) a Black Panther (2018), da The Flash (2018) ad Aquaman (2018), dalla Marvel alla DC, dagli spin-off come Wolverine (2009; 2013) o Venom (????) agli assemble come The Justice League (2017), The Avengers (2012), Suicide Squad (2016) e Sinister Six (????).

Ormai un anno fa, fresco di Oscar per Birdman (2014), Alejandro González Iñarritu scatenò una polemica contro gli strenui difensori dei cinecomics, o meglio dei superhero movies. La questione è che l’imperativo di Hollywood è fare soldi, e se si fanno abusando di un cinema prettamente infantile, è rischioso. Sue sono queste parole, rilasciate a Deadline: «Non c’è niente di terribile nel fissarsi con i supereroi quando si ha sette anni, ma da grandi è una forte debolezza, quasi come se non si volesse crescere. […]Già solo la parola “eroe” mi annoia. Ma cosa vuol dire? L’idea di supereroe è un concetto falso ed equivoco. Se osservi bene questo tipo di film, la mentalità di fondo si basa su gente ricca, potente, che fa del bene e uccide il cattivo. Filosoficamente, non mi piace. Sono film che non dicono nulla, come scatole che contengono altre scatole e così via, senza lasciarti nessun senso di verità». Come dargli torto?

Ora ci pensa Deadpool, il film diretto d Tim Miller e interpretato da Ryan Reynolds nei panni dello sboccato e politicamente scorretto Wade Wilson, ex agente delle forze speciali che dopo essere stato sottoposto a un esperimento si ritrova con eccezionali superpoteri. Inizia la caccia all’uomo che gli ha distrutto la il corpo e la vita (Ehi! Io con quel corpo ci lavoro ecchec@#!!).

Pedina anomala dell’universo Marvel, Deadpool punta tutto sull’antitesi con l’immaginario supereroico conosciuto finora. A dir il vero ci aveva già pensato il precedente Ant-Man (2015) a sconfessare la liturgia grave e seriosa del supereroe che combatte il male quasi come se fosse dio; e anche i Guardiani della Galassia, con la loro forte iniezione umoristica, hanno aiutato a dare per certa la possibilità di una nuova concezione dei cinecomics. Non sono parodie, attenzione, bensì altre forme di rappresentazione dell’universo supereroico. Operazione perseguita anche da due instant-cult non propriamente supereroici, ma perfettamente inseribili in questa nuova tendenza demitizzante, se non addirittura modelli originali di tale tendenza: i due Kick-Ass (2010; 2013) – della serie “il bisogno di eroi post 11 settembre sta cominciando a darci fastidio”.

Deadpool, che mette in pista a briglie sciolte un perfetto Ryan Reynolds piacione autoironico e autoerotico, sempre con fuori il culo e con un sospetto nudo frontale avvolto dalle fiamme; con cazzo, stronzo e porcaputtana sempre in bocca, movenze e battute ammiccanti e poco eleganti – non si ferma nemmeno davanti alla vecchia, negra e pure cieca mentore che lo curerà prima del conflitto finale – è e resta un film semplice, ma estremamente perfetto che va a infilarsi subito dietro ai Guardiani per concezione filosofica del mondo supereroico e dei suoi abitanti.

Che le atmosfere cupe e riflessive dei grandi eroi dai grandi poteri stiano cedendo il passo allo sberleffo e alla vacuità della online-generation è abbastanza palese. Bisogna solo vedere se l’ultimo dei supereroi, che da picchiatore prezzolato si trasforma in vendicatore per amore della sua bella – tra l’altro una spogliarellista, mica Candy Candy – sarà davvero lo spartiacque tra un mondo oscuro e ancora ferito dall’11 settembre e un mondo prettamente edonista, compulsivo dell’estetica perfetta, del sesso mordi e fuggi e dell’ossessione per i selfie da postare sui social network. È previsibile la caduta libera dell’universo supereroico proprio partendo dalla carnevalizzazione del dramma originale? Dopotutto era successo anche con i nostri gloriosi spaghetti-western: prima erano seri, oscuri, disperati, finanche tragici, poi con il bellissimo Lo chiamavano Trinità (1970) – di cui il recente Lo chiamavano Jeeg Robot (2016), guarda caso supereroe all’italiana, ne ricalca il meme – è nato un nuovo filone, brillante, che in seguito ha aperto le porte alle parodie vere, ai prodotti dozzinali e infine alla morte del genere. Qualcuno ha avvisato la Marvel?

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