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Cinema in tv: Moretti vs Monicelli
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L’Italia degli ultimi mesi del 1977 è un calderone brulicante di avvenimenti pronti ad esplodere. Il terrorismo insanguina le strade e affligge i pensieri: nell’attesa di completare l’escalation nel 1978, le BR hanno appena ferito a morte il direttore de La Stampa Carlo Casalegno (16 novembre 1977), spalleggiate, sul fronte opposto, dai neofascisti che uccidono a Bari un operaio comunista. Tempi plumbei, dominati dalla paura, dal rimescolamento confuso di ogni certezza, da una politica che indossa, come perfetto secondo abito sartoriale, l’inefficienza e l’incapacità di assumere decisioni e posizioni risolutive. Nell’aria risuonano spari ma anche la melodia trascinante di Samarcanda, Renato Zero che vuole vendersi (e scandalizza i parrucconi fuori dal tempo), il minuto solitario dei Pooh. Si va al cinema sempre meno, e non perché quelle poltroncine di legno siano scomode; piuttoso perché ogni angolo può nascondere un’insidia, si guarda al vicino come se dietro gli occhiali nascondesse una stella a cinque punte, si cerca riparo nel focolare domestico delle cose riposanti (Domenica In, gli inviati di 90°minuto, un po’ di sabato sera in varietà). Molta televisione, molto divano, inazione e non riflessione. Si chiamava anche riflusso, voglia, forse necessità, di disimpegno, ansia di disintossicazione.

 

In questo contraddittorio e a suo modo affascinante caleidoscopio di pensieri e sentimenti (paura, irrazionalità, voglia di tenerezza, anelito a trovare corazze entro cui rinchiudersi), irruppe, era il dicembre del 1977, uno strano oggetto televisivo. Strano anche perché riproposto ad libitum, a volte strumentalmente (a testimoniare l’eterno ed insanabile scontro tra generazioni), a volte quale mera icona storica (due personaggi a confronto, da riguardare, oggi che la tecnologia è la parte più colorata di nuovi fantasmagorici caleidoscopi, nella messa in scena di un me stesso senza filtri aggiuntivi), a volte in funzione di simpatica presa in giro (guardate come si scannavano questi due campionissimi del cinema italiano, e pensate alla evoluzione che avrebbero avuto. Vi sembrano dunque sinceri?). Trasmissione di cinema, allora. Match, condotta da Alberto Arbasino (!). Quando ancora di cinema si poteva parlare in tv con una certa cognizione di causa, prima dello zucchero filato marzulliano, prima dei pop-corn che inzaccherano lo spirito critico all’uscita delle sale. La scaletta prevede, secondo la formula di successo che lascia al conduttore una funzione di mero raccordo, lasciando invece che gli ospiti si confrontino direttamente, rivolgendosi domande e dandosi risposte, un incontro tra Mario Monicelli e Nanni Moretti.

 

 

Contestualizziamo. Chi sono, nel dicembre del 1977, Mario Monicelli e Nanni Moretti? L’uno (62 anni) è già un maestro riconosciuto della commedia italiana, capace di una filmografia mai uguale a se stessa ed in grado di incidere, con taglierini intinti in un gradevole veleno, nei vizi e nella virtù di quel popolo attualmente così spaurito e senza riferimenti cardinali. L’altro (24 anni) è un giovane cineasta, abbastanza pieno di sé, che ha all’attivo un solo film, girato in Super8, dalle immagni sgranate e dal doppiaggio non limpidissimo: Io sono un autarchico. Filmetto ambizioso, ronda incessante di un’anima che è figlia del suo tempo e che si dibatte tra consuetidini familiari trite e volontà di evasione anche nella politica latamente militante. Uscito nel 1976 Io sono un autarchico divenne presto un oggetto di culto, semiclandestino ma destinato ad una vita imperitura, quale prima rozza manifestazione del talento di quello che sarebbe diventato un regista tra i più idolatrati dell’intero cinema italiano. Ma il 1977 è anche l’anno di uscita di Un borghese piccolo piccolo, ultima fatica di Mario Monicelli. Tratto da un ottimo libro di Vincenzo Cerami, il film vede la partecipazione di uno straziante Alberto Sordi, nella sua parte drammatica probabilmente più indimenticabile.

Suona il gong ed i due contendenti possono iniziare il match. Moretti ha un atteggiamento tra lo sbracato e lo svagato: pare un piccolo avvoltoio che si accuccia timoroso ma pronto a sbranare quella preda che è parente stretta di Matusalemme. Maglione sul violaceo, occhialoni da intellettuale represso, polacchine d’ordinanza, Nanni affonda e tratta Monicelli con la sufficienza che si deve ad un reazionario. Perché, per il giovanotto, Un borghese piccolo piccolo è un film inesorabilmente, catastroficamente reazionario: la vicenda del padre che si fa vendetta da solo, trasformandosi da pavido impiegatuccio, massone per convenienza, in Charles Bronson de noantri, è pericolosa in quanto solleticante, in tempi come quelli poi!, gli istinti più bassi e retrogradi che un essere umano possa avvertire. La lettura di Moretti soffre naturalmente di una certa ben calcolata sufficienza: fermandosi all’apparenza delle cose, per mero spirito iconoclastico, non riesce (non vuole riuscire) a decifrare la totale mancanza di compiacimento di cui Monicelli aveva riempito il suo film, e la drammaticità da tragedia greca di quel personaggio portatore insano di disperazione.  Il regista più anziano, dall’alto di una carriera che non ha certo bisogno del riconoscimento degli ultimi seduti al desco del cinema italiano, mantiene una calma olimpica. Inopinata giacca verde di velluto, eleganza da navigato facitore di (com)portamenti, Monicelli tuttavia replica piccato. Moretti è un giovincello viziato incapace di guardare oltre il proprio bruttissimo ombelico, il goffo tedoforo di un ego smisurato, il figlio, comunista un tanto al chilo, di una borghesia bunuelmente incapace di uscire dalle proprie gabbie di pensiero. Monicelli non sa, non può sapere, che quel ragazzino si trasformerà in un adulto critico verso quelle stesse idee (e quegli stessi ideali) di cui ora sembra farsi acritico aedo. Perché le parole saranno pure importanti ma sono comunque destinate a soccombere, di fronte ad una politica che ha perso la fede negli ideali di cui ha sempre proclamato di cibarsi né ha più, appunto, le parole giuste per enuclearli (cfr Palombella rossa, Caro diario, ecc..).

 

Un match sostanzialmente senza vincitori né vinti, godibile perché, al netto della spettacolarizzazione allora come oggi imposta dalle esigenze di palinsesto, parecchio sincero. L’anno successivo Moretti attuerà una piccola vendetta nel suo (già malinconico) Ecce Bombo, mettendo in bocca al suo personaggio alter ego le parole di scherno nei confronti di quella che riteneva l’incarnazione del sentire reazionario (“Te lo meriti, Alberto Sordi!”). Monicelli guarderà e passerà avanti. Anni dopo, nell’esprimere apprezzamento per l’evoluzione ed il successo di Moretti, affermerà: “Nanni attaccava, diceva che io avevo tutti i soldi, il tempo, gli attori e la pubblicità che volevo, e lui no. Io ero in difesa, non dissi nulla contro di lui, anche perché facevo la parte del barone. Vedo che ora il barone è Nanni, e me ne rallegro”.

 

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