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OLTRECONFINE (21): LA FAVOLA HORROR DEL LUPO SAMURAI; IL NUOVO THRILLER CON ANTHONY HOPKINS; DUE PERLE DALLA QUINZAINE 2015 E IL GIOVANE GARREL REGISTA DALLA SEMAINE DE LA CRITIQUE; UN SEGRETO DI FAMIGLIA E IL RECUPERO DI UN VALIDO FILM FILIPPINO
di alan smithee ultimo aggiornamento
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"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala." 

Mi fa piacere e mi rende orgoglioso confermare l’uscita in Francia dell’opera prima di Laura Bispuri, Vergine Giurata, annunciato dal mensile Première del mese di settembre ed apparso in sala a Nizza al cinema Rialto già da un paio di settimane (ed attualmente in programmazione). Non posso tuttavia non rammaricarmi nel pensare al modo ingrato e decisamente carente in cui il film, di cui molto si è parlato, è stato distribuito mesi fa in Italia. In Liguria direi che l’opera d’esordio della Bispuri non sia mai uscito, probabilmente nemmeno a Genova (spero volentieri che qualcuno mi smentisca, ma anche se fosse il problema dell’uscita quasi clandestina del film rimane).

Per poter vedere “Vierge sous serment” (questo il titolo francese), ho dovuto approfittare del Festival di Locarno, che ospitava la pellicola, così come la sua regista, giurata nella sezione “Pardi di domani”.

 

Ma ora parliamo di cose belle, ossia di cinema, di quello che ogni settimana si calamita in sala e che trova nella città di Nizza terreno fertile e possibilità di approdo generoso e volitivo.

Quando poi ci si imbatte in film dei quali nulla si sa, la curiosità e la buona predisposizione ci galvanizzano e ci rendono un po’ bambini curiosi ed impazienti. DER SAMURAI è una bizzarra favola horror-gotica ambientata in una cittadina tedesca ai margini della foresta (Nera?...forse).

Ad un giovane poliziotto solitario e timido che vive con l’anziana nonna, viene recapitato uno strano pacco oblungo, che lo stesso si porta a casa senza aprirlo. Nella notte riceve una telefonata misteriosa di un tizio che rivendica l’oggetto, chiedendogli di portarglielo presso la sua attuale dimora: una casa semi abbandonata in cui il tipo, un ragazzo biondo e nudo che non trova di meglio da vestirsi che una vestaglia corta da donna, bianca e lisa, che contribuisce ad accentuarne i lineamenti atletici e tutt’altro che femminili.

Accortosi che il pacco custodisce una acuminata spada da samurai, il giovane poliziotto riesce a farsi sfuggire la situazione di mano e il personaggio scompare, armato di spada, tra i boschi tenebrosi, dai quali già da alcune notti provengono sinistri latrati ed ululati.

In una cittadina deserta dove la notte scende il coprifuoco, consigliato dal timore che un lupo feroce e famelico si aggiri per le strade in cerca di cibo, ed il cui percorso furtivo è segnalato dall’effetto inquietante di unghiate profonde che lacerano i panni stesi nei giardini, il territorio si trasforma in una caccia all’uomo (o al samurai, o ancora al lupo) da parte del giovane e coraggioso poliziotto.

Un pastrocchio? Una favola gotica in stile giovane Neil Jordan? Non esageriamo, ma DER SAMURAI di Till Kleinert ha qualche freccia buona la suo arco e riesce a tratti a rendersi accattivante, dopo un inizio cheto e tutto atmosfere, una evoluzione a scatti con soluzioni sin troppo platealmente splatter, quel sanguinolento anni ’80 da primo Jackson che si mischia ad un umorismo facile, elementare, a formare cocktail un po’ fuori tempo massimo.

Ma le atmosfere ci sono, l’essere inquietante in vestaglia, uomo virile travestito e a suo modo sexy con quel suo sguardo maligno acuito da un labbro leporino che ce lo rende terreno, un pò umano e un po’ lupo, preda in fuga ma pure cacciatore con la spada sguainata, è un personaggio piuttosto forte, che meriterebbe sviluppi.

VOTO ***

 

Anthony Hopkins, anzi, Sir A.H., ha fatto la fortuna e dato smalto alla sua carriera da star e da Oscar, interpretando personaggi oscuri ed inquietanti, le cui gradazioni di male, per quanto spesso assoluto, venivano in qualche modo contaminate da afflati umanitari che contribuivano a rendere unici i suoi controversi personaggi, primo fra tutti Hannibal Lecter, sfruttato in ogni sua minima sfaccettatura da una buona cinquina di pellicole che hanno seguito il suo illustre precursore a cura di Jonathan Demme.

Il dottor Clancy, psicologo dotato di poteri paranormali da sensitivo, non può evitare di farci tornare a questi personaggi negativi ma non troppo, anche se qui più che altro il suo coinvolgimento nelle indagini da parte dell’FBI desta sospetti e perplessità, più che preoccupazioni o effetti devastanti, che anzi le sue brillanti intuizioni aiutano più di una volta ad evitare.

SOLACE, ovvero conforto, consolazione, sono i sentimenti che traspaiono attraverso tutta la fosca indagine che vede l’agente di turno impegnato con giovane piacente collega a cercare di fermare le efferate azioni di un maniaco omicida che fredda le sue vittime con un’abile repentina pugnalata al retro del collo, procurando alle stesse, spesso nell’atto del rilassamento, o comunque prese alla sprovvista, una morte immediata che non riesce a trasparire nemmeno nell’espressione serena che contrassegna il loro fulmineo trapasso. Un assassino che agisce in nome di un folle tentativo di rendersi utile nei confronti di quell’umanità bisognosa di un aiuto psicologico, aiuto e serenità che egli è in grado di assicurare in modo letteralmente eterno.

Poca cosa i due agenti potrebbero fare per risolvere il caso, se il dottor Clancy non scegliesse deliberatamente, dopo essersi fatto desiderare a lungo, di coadiuvarli nelle indagini.

Thriller fosco ed anomalo, interessante e insolito per diverse circostanze: l’atto di togliere di mezzo molto, troppo presto il protagonista (apparente) della vicenda, il far intervenire l’assassino oltre i primi ¾ della pellicola, e riuscire a farcire la vicenda, di per sé già vista e rivista, di atmosfere raggelate e da incubi ad occhi aperti che visivamente risultano davvero interessanti.

La regia pertinente del brasiliano sconosciuto Afondo Poyart , alla sua opera seconda, aiuta a trasformare un prodotto apparentemente standard (anche il titolo francese, Premonitions, non dà molte garanzie di originalità) in un thriller curioso condotto su binari già tracciati, ma avviato con tracce di propria personale autonomia.

Hopkins rischia a interpretare sempre ruoli sopra le righe, ma le sue fattezze lo condannano a tali ricadute. Nel cast piuttosto interessante, per una volta segnaliamo, perché ci piace veramente, la spesso troppo ingessata Abbie Cornish, qui sofferente fisicamente e psicologicamente, agente sottoposta ad un vero e proprio calvario prima di guadagnarsi la soluzione del caso.

VOTO ***1/2

Ed ora un tris di piccoli gradevoli film apparsi all’ultimo Festival di Cannes (ma persi in quell’occasione per varie circostanze).

SONGS MY BROTHERS TAUGHT ME, presente alla Quinzaine des Réalisateurs, è un piccolo gioiello di intensità e tenerezza, ambientato ai nostri giorni nella riserva pellerossa di Pine Ridge, ed incentrato tutto o quasi sul rapporto d’affetto che contraddistingue due fratelli, maschio e femmina, lui di diciotto anni, appena finite le scuole dell’obbligo, mentre progetta di fuggire via dal parco per seguire la sua fidanzatina; e la sorella minore, che scopre furtivamente il piano e cerca di fare in modo di non perdere l’adorato fratello, nel periodo luttuoso che li vede pure orfani di padre, deceduto per un banale incidente domestico nella dimora di caccia ove si era recentemente installato.

Un film di sguardi e di intese complici, quando la vita, il quieto ed immenso paesaggio circostante tutto pianori e praterie ondulate, ti circonda cercando di avvilupparti a lei attraverso la sua straordinaria ed intensa bellezza. Non servono grandi storie per fare un bel film, o per garantire emozioni e sussulti del cuore. Questo bel film ne è la dimostrazione più lampante.

VOTO ****

MUCH LOVED, pure esso regalo della celeberrima Quinzaine sessantottina, è un film marocchino di Nabil Ayouch, ambientato in una casa di tolleranza nella moderna Marrakesh odierna. Quattro tra le donne che in esso vivono, ci rendono partecipi della loro vita di recluse, ma anche di donne moderne ed emancipate, consce del proprio ruolo un po’ da oggetto di piacere.

Quattro, cinque caratteri diversi, culture differenti, impregnate ognuna delle esistenze che hanno contraddistinto la loro giovane vita precedente: donne talvolta sofisticate, talvolta più semplici e grossolane, incastonate in una società maschilista che le prevede, non le rinnega, ma nemmeno permette loro di riscattarsi tanto facilmente, marchiandole con un segno invisibile ma ugualmente indelebile.

In tutto questo contesto, il vero sconfitto, almeno dal punto di vista umano, è l’uomo, il padrone, colui che si arroga il diritto di scegliere, di preferire, colui che può incapricciarsi di una di loro, disconoscendola la volta dopo.

Uomini bambini, capricciosi ed immaturi, pronti a colpevolizzare la loro favorita per rinnegare, anche a loro stessi, l’eventualità di una preferenza sessuale che non può nemmeno essere immaginata nel contesto della civiltà ufficiale ove l’uomo è un baluardo di virilità e rettitudine, e la donna una fonte effimera di piacere da spremere e usare finché riesce a risultare interessante.

Nonostante la drammaticità di situazioni e sviluppi, Much Loved già dal titolo disincantato ed ammiccante non rinuncia ad una certa ironia, che si concentra sul volto, le parole e le azioni di una cinquina eterogenea e ben assortita di interpreti femminili, specchio completo ed eterogeneo di caratteri ed attitudini in qualche modo universali: donne con i polsi legati, che tuttavia sanno rifugiarsi con intelligenza nell’ironia di fondo del relativo proprio carattere, consce che con la solidarietà e la forza del gruppo anche i muri più invalicabili potranno un giorno essere scavalcati o addirittura abbattuti.

VOTO ***1/2

Dalla Semaine de la critique invece, arriva il primo lungometraggio da regista dell’attore LOuis Garrel, figlio noto ed apprezzato del regista Philippe. LES DEUX AMIS è una favola d’amore moderna, che estende la sua analisi, come suggerisce il titolo, sull’importanza di un’amicizia sincera e costruttiva, quella che in questo caso contraddistingue due trentacinquenni, perduti nelle loro storie d’amore e nel tentativo di renderle concrete.

Tutto nasce dall’amore a prima vista che coglie l’insicuro (ma con slancio) Vincent (l’ormai celebre Macaigne, visto in vari festival e al cinema in Francia), comparsa cinematografica, non appena incontra la cameriera Mona (come non innamorarsi della splendida attrice iraniana Golshfteh Farahani?) nella paninoteca in cui la donna lavora.

Trova la forza di dichiararsi, non sapendo ciò che invece lo spettatore ha già ben presente: la donna è in regime di libertà vigilata, ma deve dormire in carcere per terminare di scontare la sua pena.

Compreso, sia pure sommariamente, che per conquistare la donna non sarà proprio una passeggiata, l’uomo chiede aiuto al suo aitante amico più caro, Louis, che comincia pure lui a corteggiarla, ma con fini collaborativi.

Quando i due perditempo riescono alla fine anche a far perdere l’ultimo treno utile per tornare in carcere, la disperazione coglie la fanciulla, e lascia interdetti i due ingenui, che non capiscono, non possono capire.

Rifugiatisi in un albergo, i tre condividono, sia pure in due stanze separate, una notte di riflessione ed approfondimenti caratteriali, in cui impereranno a due a due a conoscersi meglio, senza impedire tuttavia che il non detto ed il non visto, finiscano per generare dei falsi sospetti travianti.

Il film piccolissimo ed aggraziato questo Les deux amis, che funziona soprattutto grazie ai suoi tre interpreti freschi e complici, alla naturalezza quasi disincantata del loro atteggiamento, alla buffa loro attitudine a sdrammatizzare o ad incassare con saggia e imprudente rassegnazione le spesso amare sorprese e gli inganni che la vita talvolta semina attorno a vicende e situazioni altrimenti molto più semplici e lineari.

VOTO ***1/2

BOOMERANG, dell’esordiente Francois Favrat, è un film ambientato in Normandia, luogo di alte maree e di spiagge sabbiose e sentieri ricoperti dal mare in corsa e condizionato dalle fasi lunari. Una famiglia composta da due fratelli ormai trentenni e da un padre vedovo da oltre un ventennio. In seguito ad un violento incidente d’auto, che coinvolge i due fratelli nell’atto di recarsi da Parigi verso la casa paterna, circostanza che li vede per fortuna uscire pressoché incolumi, all’uomo viene in mente di approfondire le circostanze della morte della madre, apparentemente annegata nei pressi della casa che accoglieva la famiglia. Un’indagine che nasce come una curiosità dal carattere ossessivo, ma il cui effetto “boomerang” finisce per coinvolgere e sconvolgere equilibri che il tempo e il quieto vivere aveva finito per acquietare nel fondo salmastro di una verità troppo scomoda per essere resa pubblica.

Boomerang è un viaggio all’interno di un segreto di famiglia che sembrava sepolto definitivamente, e che invece trona a galla con effetti dirompenti che minano un equilibrio apparentemente impeccabile di una famiglia allargata ma tendente all’affiatamento.

Un bravo e coinvolto Laurent Lafitte (de la Comedie Francaise), che dà un senso a tutta una vicenda morbosa ma non troppo, rimuovendo i segreti del passato e intorbidando acque per troppo tempo falsamente limpide, una intensa Melanie Laurent, piccola e diafana ma in grado di reagire quando la verità si fa davvero troppo scandalosamente pesante ed i rimorsi non bastano più a giustificare l’inflessibilità di condotte imperdonabili, non riescono tuttavia a salvare il film da una certa prolissità di svolgimento. Tra gli altri interpreti, cito per fama e centralità di ruolo, la grande Bulle Ogier, nei panni della “nonna che sapeva troppo”.

VOTO **

Termino questa puntata recuperando, tramite la Cinématheque, il filippino drammatico METRO MANILA del 2012, da tempo ormai uscito nelle sale francesi. Un film inglese di Sean Ellis, ambientato nel quartiere fulcro della capitale filippina, ed epopea d’altri tempi che vede una famiglia composta da genitori giovani e due bambine piccole, affrontare il viaggio verso la caotica città-formicaio, in cerca di fortuna dopo che per l’ennesima volta i raccolti delle proprie piantagioni sono stati compromessi dal maltempo e dalla cattiva sorte.

Giunti in città, i due coniugi devono venire a patti con ciò che di più duro e compromettente gli possa offrire la tentacolare città: e dunque la moglie utilizzare le proprie non comuni e piacevoli fattezze per allietare uomini soli in un club privato, ed il marito entrare in contatto con una società di trasporto valori che cela al suo interno affari loschi di ogni tipo.

Il prezzo per assicurare una vita dignitosa alle due bambine, per curare il mal di denti che affligge la più grande, costringe entrambi i coniugi a scendere a patti con la corruzione e la cattiveria che si annidano alla base di una società disgregata e perduta.

Con ampi momenti di narrazione in stile quasi asettico e documentaristico, il film si scuote e cambia registro alternando visioni d’insieme della metropoli e del suo formicaio umano, a fasi concitate del lavoro del capofamiglia, costretto a confrontarsi con una mansione pericolosissima dove il confine tra lecito ed illecito diventa praticamente invisibile.

In questo stacco stilistico è racchiuso il vero fulcro d’interesse di Metro Manila, epopea umana della sopravvivenza dal ritmo classico, aggiornato e corretto dal vortice senza fine che travolge oggi più di un tempo i destini di chi cerca di adeguarsi e sopravvivere ostentando un’onesta di carattere e di comportamento decisamente fuori tempo e luogo.

VOTO ***1/2

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