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Franco Interlenghi, bravo ragazzo
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Per almeno un decennio il nome di Franco Interlenghi ha riempito le inquadrature dei titoli di testa senza il bisogno né di un nome d’arte né di un’aggiunta che ne specificasse il ruolo nel film. Racchiusa essenzialmente tra due albe che forse sono contemporaneamente anche due tramonti, il neorealismo (Sciuscià, 1946) e il boom economico (La notte brava, 1959), la sua è stata una carriera lunghissima eppure inevitabilmente legata alla stagione della lenta rinascita di un popolo umile e ferito. Il suo viso da bravo ragazzo, certamente bello ma soprattutto normale, s’accordava bene tanto al dramma della povera gente quanto alla commedia d’evasione e non è un caso se lo incontriamo con costanza e piacere dentro alcuni dei più emblematici film del dopoguerra.

 

 

Consegnato all’eterna memoria grazie al lustrascarpe Pasquale di Sciuscià, il film più struggente di Vittorio De Sica, Interlenghi si segnala sin da subito come attore (per caso) spontaneo e amabile ed ha (o chi per lui) l’inconsueta saggezza di aspettare tre anni prima di riapparire sul grande schermo, con una fisicità nuova che sarà uno dei suoi punti di forza. Il film in questione è il dimenticato kolossal democristiano Fabiola, ma la vera consacrazione è all’interno del filone più leggero del neorealismo: se nel seminale Domenica d’agosto finge di essere ricco e borghese per conquistare una giovincella che l’illude alla stessa maniera (con Luciano Emmer sarà pure nel corale Parigi è sempre Parigi), nell’altrettanto fondamentale Don Camillo riesce ad essere funzionale erede di una tradizione comunista innamorato di una brava ragazza cattolica. Col trascorrere degli anni, il suo personaggio di giovane innamorato trova una sua rinnovata ragione d’esistere e una significativa maturazione nei deliziosi Gli innamorati e Giovani mariti di Mauro Bolognini, finiti nell’oblio, e, a conclusione di un ideale percorso di realizzazione familiare, eccolo garbato ed agitato genitore stressato dalla moglie in attesa nello squisito Padri e figli di Mario Monicelli.

 

 

E quando non è impegnato nella commedia, la sua figura sa adeguarsi al contesto criminale d’altri tempi dell’eccellente legal partenopeo Processo alla città di Luigi Zampa, in cui è un piccolo fuorilegge finito suo malgrado in un inquietante misfatto camorristico. E se i banditi li rintraccerà in quanto reporter d’assalto nella felice farsa Totò, Peppino e i fuorilegge, sarà vittima di un’altra angosciante macchinazione, questa volta familiare, nel bellissimo La provinciale di Mario Soldati. Essere stato un volto emblematico di una stagione gli permette di entrare negli affollati cast di alcune grosse produzioni: nel datato Ulisse di Mario Camerini è un risoluto Telemaco; nello splendido La contessa scalza di Joseph L. Mankiewicz è l’amore di gioventù quindi sconfinato Ava Gardner; e poi Addio alle armi, La ragazza del peccato, ma anche le economiche antologie musicale Canzoni, canzoni, canzoni, Amori di mezzo secolo e Cento anni d’amore, i caserecci Le due orfanelle e Manon Lescaut.

 

 

Una presenza che fa un po’ da contraltare alla cialtroneria cinica dei personaggi di Franco Fabrizi, che non a caso sarà parteciperà assiduamente al cinema degli anni sessanta. E con cui condivide quello che è forse il suo ruolo più memorabile: Moraldo, alter ego di Fellini nell’immortale capolavoro giovanile I vitelloni. Unico personaggio sinceramente dotato di moralità, buonsenso, coscienza, il solo davvero capace di andare via – e per chi nasce e vive in certi luoghi la fuga è l’inevitabile occasione per essere un’altra cosa: il volto smarrito di Moraldo nel finale rappresenta esattamente tutto quel diluvio di sensazioni (con la voce del regista demiurgo). Accanto a Moraldo, il Claudio de I vinti di Michelangelo Antonioni rappresenta il vertice del suo percorso, soprattutto per la capacità di connettersi alla disperazione di un’epoca votata all’impossibile speranza del futuro che verrà.

 

 

La sua stagione d’oro si chiede più o meno alla fine degli anni cinquanta con due partecipazioni d’un certo rilievo: Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, con cui sarà Giuseppe Bandi nel celebrativo Viva l’Italia!; e La notte brava, ove è un rude ricettatore (ottima scelta di casting) e in cui l’estetismo di Bolognini tenta d’interpretare a suo modo lo sguardo di Pasolini. Dopo molto teatro, tanta televisione, qualche film di routine (lo si ricorda, in ultimo, come nonno bonario nel mediocre Notte prima degli esami oggi, ma anche nel cammeone del barone Rosellini nel grande Romanzo criminale dell’amico Michele Placido) e un po’ di gossip: lungo e turbolento matrimonio con la divetta dell’epoca Antonella Lualdi, con cui ebbe la stellina anniottanta Antonellina. Se ne va a ottantatre anni con dignità, lasciando il ricordo di una faccia che ha rappresentato qualcosa di buono e popolare nell’immediato dopoguerra.

 

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