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Viaggio nell'ultraviolenza del cinema
di EugenioRadin
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Potrebbe essere un inconsapevole esorcismo di istinti naturali rimossi, o un diffuso morbo voyeuristico inconfessabile ciò che rende i film violenti così prolifici e apprezzati. Il cinema di contenuto violento sembra essere in effetti tra le manifestazioni più riuscite della Settima Arte.
Se nulla è per caso allora una rifessione su queste tematiche può portare a parlare, prima ancora che di film violenti, di cinema violentocome unica modalità di cinema possibile.

Per evitare incomprensioni è bene però distinguere due categorie di violenza cinematografica che, fatte oggetto di studi distinti, possono sfociare in esiti molto diversi.
Il primo caso è quello del genere splatter, nonché di molti film pulp(per fare degli esempi: Tarantino e Refn o i primi lavori di Peter Jackson). In questi prodotti la violenza non è percepita come tale perché non è realistica, ma esagerata, irreale e finalizzata all’intrattenimento. Lo scopo non è il disgustare, ma il divertire. La resa dei conti alla casa delle foglie blu, in Kill Bill vol. 1, non ci suscita il terrore tragico di una strage ben servita, ma si presenta come una danza di immagini che ci impressiona più per la sua tecnica registica che per i contenuti macabri.


La seconda categoria è quella della violenza vera e propria, realistica, fine a se stessa, che ci perturba e ci impressiona. Quella dei titoli che prenderò qui in considerazione (L’Occhio che uccideFunny Games) e di molti altri titoli, dal colossale Arancia Meccanica al brutaleCannibal Holocaust al più recente Nightcrawler.


La prima e più superficiale motivazione per cui la violenza al cinema risulta così efficace è il fatto che il meccanismo cinematografico presenta allo spettatore questi contenuti con un meccanismo diverso da quello di altre arti.
A differenza della letteratura la violenza cinematografica è una violenza alla quale non possiamo in alcun modo sottrarci: come Alex Delarge siamo costretti a guardare, non possiamo distogliere gli occhi e non possiamo in alcun modo deformare l’immagine vista. La fantasia (che ha un ruolo importante nella letteratura) viene qui esclusa e non possiamo quindi in nessun modo alleviarci la pena plasmando noi stessi l’immagine nella nostra mente. Essa ci viene posta di fronte, già formata, ineludibile, senza alcuna possibilità di scampo.


Le immagini della strage perpetuata dai documentaristi in Cannibal Holocaust ci stanno di fronte come entità esterne e non come nostre stesse proiezioni mentali, provocando in noi un disgusto dato dall’impossibilità di intervenire e una paura dalla mancanza di ogni possibile controllo sulla situazione. Le immagini ci stanno davanti vivide e la violenza che vediamo viene riflessa su noi stessi, come se fossimo noi a subirla. Sono un pericolo generato da altri, che ci sta davanti e ci tortura con la sua presenza.


Tuttavia la vera potenza di queste immagini non sta nella semplice imposizione di una violenza, ma nel renderci coscienti del fatto che, sotto al superficiale disgusto, la visione di tale violenza ci piace. Il nocciolo patetico della tragedia è da sempre stato la rivelazione della vera identità del protagonista. 
Da Edipo (“Che tu non sappia chi sei!”) a Macbeth (“Molto meglio non sapere chi sono, che sapere che cosa ho fatto.”) ciò che sconvolge è sempre l’improvvisa consapevolezza di non essere ciò che crediamo di essere, di avere una natura polimorfa, di incarnare un’endiadi. Nel farci conoscere il nostro voyeurismo sta la vera natura violenta di questo cinema, e solo una volta compiuto questo fondamentale passo le immagini che ci stanno davanti potranno diventare veramente mostruose.


Per cui nella spedizione del sopra citato film di Ruggero Deodato, lo spannung è avvertito non tanto nelle atrocità indigene, ma in quelle dei quattro protagonisti, perché è con loro che ci identifichiamo. E? la paura di essere come loro e non con loro quella che ci spaventa realmente.


Esempio ancora più vivace in questa logica è il capolavoro di Michael Haneke: Funny Games. Quando in una scena i protagonisti chiedono ad uno dei rapitori perché non possano essere uccisi e basta, egli risponde con una delle battute chiave per la comprensione della pellicola: “Sottovaluta l’importanza dello spettacolo!” 
Anche il continuo rivolgersi alla telecamera da parte dei due criminali e la densissima scena del telecomando non possono che essere viste come un ammiccamento ad uno spettatore (noi) a cui quella massiccia dose di ultraviolenza è offerta come un piacevole spettacolo. 
Si avverte dunque come necessario per la completezza del film un altro ruolo, contemporaneamente interno ed esterno alla scena: il nostro ruolo di voyeurs, di consumatori di quel prodotto che altrimenti perderebbe il suo senso. L’azione nella scena non è comprensibile nemmeno dagli aguzzini stessi (“Perché state facendo questo?” – “Non lo so…") perché per com-prenderla è necessaria una visione terza, che inglobi in un unico spazio la pellicola e lo spettatore, il quale è incluso negli attori del dramma. E’ essenziale la presenza di qualcuno che goda di quel prodotto raccapricciante, di qualcuno che lo desideri e lo richieda.


Funny Games tormenta lo spettatore anche in un altro modo. Dando per compiuto il primo passo e conoscendo il piacere dato dalla visione, Haneke ribalta le regole e ci oscura la vista, facendo violenza alla violenza stessa del guardare. Le azioni cruente avvengo sempre fuori dall’occhio della cinepresa, che ce ne concede soltanto un riflesso: il volto terrorizzato di un altro personaggio, il muro che si macchia di sangue. 
Funny Games è un invito a riflettere su noi stessi e sulla nostra vera natura, sottostante all’apparente gentilezza e agli autoritratti bianchi e puliti che ci cuciamo addosso. 
Sotto alla cordialità che ci imponiamo, siamo in realtà degli ego in lotta tra loro, che desiderano scavalcare gli altri, violentare la loro possibilità di superarci, essere migliori. In questo sta la decisiva violenza insita in ognuno di noi, di cui questi film offrono una generosa caricatura.


Anche il protagonista de L’Occhio che uccide (che in questo contesto rende meglio con il titolo originale: Peeping Tom) è costretto da un istinto represso a spiare (peeping, appunto), ad osservare il terrore nei volti delle sue vittime.
Ma il punto forte della pellicola di Michael Powell è che essa ci spinge ad una riflessione ancora più profonda sul legame tra cinema e violenza, suggerendoci che il cinema è ontologicamente una forma di violenza. Il cinema è fondamentalmente violenza, e l’aggettivo violentoassociato alla Settima Arte non può che suonare come una futile petizione di principio.


Mark Lewis fa violenza alle vittime filmandole, ancor prima che uccidendole e la violenza dell’essere filmati è in un certo qual senso ancora maggiore di quella della morte.
Filmare infatti è immobilizzare in un frammento di tempo lo scorrere del reale, riproponendo questo frammento per sempre inalterato. Il tempo dell’immagine in movimento inghiotte così un tempo molto più ampio: quello del reale.
La macchina da presa diventa un cannibale che ingerisce il Divenire e risputa un Essere-sempre-uguale (e forse a ciò si deve il suo successo nella società occidentale), un eterno non-invecchiato, un mostro. Affermare l’Essere anziché il divenire è la modalità primordiale del meccanismo cinematografico. 


Ciò può apparire contraddittorio dal momento che il cinema scorre e si muove ed ha percui un suo tempo. In realtà ciò che ci inganna nel cinema è che, al contrario della fotografia, l’attimo imprigionato è rinchiuso in lasso di tempo sufficientemente grande per darci l’idea di libertà. Ma quel tempo è infinitesimale se comparato con la realtà, e ciò che ci sta dentro è privato di ogni possibilità di movimento.


L’unico movimento possibile nel cinema è quello di un ritorno dell’uguale, impresso per sempre nella pellicola. 
“Tutto quel che filmo per me è perduto” afferma il protagonista nel corso del film. Ed infatti una volta filmato, una volta catturato nella pellicola, ogni momento è morto proprio perché per-sempre-uguale. L’atto filmico rende invulnerabile la vulnerabilità stessa e in questo attua la più grande violenza. Nega ai suoi prodotti ogni organicità, ogni possibilità di essere vivi e dunque imprevedibili, fallibili, contingenti e precari.


Allora c’è il sospetto di una doppia natura nel cinema. Una violenza costante verso il reale e verso il divenire e in maniera strettamente connessa il raggiungimento dell’eternità attraverso il momento filmico: l’eterno ritorno dell’uguale. 
Al di là del voyeurismo macabro, anche la più felice commedia risulta a questo punto intrinsecamente violenta, ma è una violenza per certi versi positiva perché dona alla sua vittima l’eternità.
Se è vero infatti che solo ciò che non muta può dirsi davvero eterno, allora è nella sottile linea del “Si gira!” che il cinema si allontana dall’umano per raggiungere uno stato immortale.

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