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Welcome to the Hotel California! Al cinema con gli Eagles
di GIANNISV66
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On a dark desert highway, cool wind in my hair
Warm smell of colitas, rising up through the air
Up ahead in the distance, I saw a shimmering light
My head grew heavy and my sight grew dim
I had to stop for the night …......

 

 Tutte le band che hanno fatto la storia del rock finiscono per essere identificate con uno dei loro brani, è una regola non scritta, una sorta di marchio. Non c'è produzione diversificata o varietà nel repertorio che tengano, alla fine ogni gruppo tende ad essere identificato dalla massa degli “ascoltatori occasionali” con un solo brano, notorietà che alla traccia in questione spesso costa una reazione da parte dei fan più accesi, quelli che hanno ogni disco e conosco ogni pezzo, e che spesso quasi anche un po' per ripicca, non reputano quello stesso brano tra i più belli, tra quelli che meglio esprimono lo spirito della band (qualunque essa sia).

Ma se c'è una eccezione a questa “legge”, ebbene è rappresentata da Hotel California degli Eagles.

Il loro brano più famoso, più conosciuto, è di una bellezza talmente complessa e suggestiva che ben difficilmente anche il fan più acceso non potrà non riconoscere a questo pezzo una sorta di “eccellenza” in una produzione comunque di altissima qualità.

 

 

In bilico fra il country ed il rock, esponenti di spicco di quel west coast sound che negli anni '70 avrà un successo talmente travolgente negli U.S.A. da far arrivare i suoi echi fino a noi, gli Eagles muovono i loro primi passi nel panorama musicale californiano di fine anni '60 in qualità di session men.

Il batterista Don Henley ed il chitarrista Glenn Frey si conoscono in quell'ambiente ricco di fermento, finiscono per lavorare al seguito di Linda Ronstadt (autentica stella della musica country) e lì incrociano la loro strada con quelle del polistrumentista Bernie Leadon e del bassista Randy Meisner.

Nascono gli Eagles , un nome che, al di là delle leggende che circondano la sua origine, contiene già al suo interno l'ambizione di diventare uno dei simboli della musica made in U.S.A.: cosa c'è di più rappresentativo per un americano dell'immagine dell'aquila?

 

Tra il 1972 ed il 1975 gli Eagles pubblicano quattro dischi di grande impatto, e partendo da toni più consoni al country and folk finiscono per avventurarsi in maniera più decisa nei territori del rock, cosa che porterà a non pochi malumori, a qualche defezione e di conseguenza a qualche nuovo arrivo (in particolare Don Felder e Joe Walsh).

E arriviamo così al 20 dicembre 1976, quando una band al culmine del suo successo ma in preda a devastanti conflitti interni pubblica il suo quinto album.

 

 

In copertina la foto di una struttura dalle architetture spagnoleggianti, nascosta tra le palme e avvolta nella malinconica luce del tramonto, l'Hotel California (in realtà l'immagine ritrae il Beverly Hills Hotel, detto Pink Palace, e la sua realizzazione costò un lavoro al limite del maniacale al fotografo David Alexander e all'art director John Kosh)

E, in apertura di disco, una canzone di quelle che spaccano il cuore, note capaci di suggestionare come poche altre l'ascoltatore, e una voce roca (quella di Don Henley) che racconta una storia tra l'onirico e l'allucinato.

Già, perché quando si parla di Hotel California si pensa a quelle note dolcemente malinconiche che introducono la canzone e a quell'incredibile assolo finale che vede intrecciarsi le chitarre di Don Felder e Joe Walsh , ma il discorso cade inevitabilmente su quel testo ricco di richiami e suggestioni.

Le interpretazioni in merito sono state varie, si è parlato di critica feroce a uno stile di vita basato sul materialismo, di ribellione a una vita da rockstar costretta da gabbie virtuali (non ultima certamente la dipendenza dalle droghe) fino ad arrivare a parlare di satanismo, equivoco legato anche alle immagini della copertina interna costellata di strani personaggi.

Qui non ci dilunghiamo oltre anche perché francamente non vi è alcun interesse ad andare a sezionare versi che sono belli proprio perché sono in grado di colpire l'immaginario personale di chi li ascolta. Ognuno insomma ci può e ci riesce a vedere cosa vuole.

Glenn Frey, che quei versi li aveva scritti, anni dopo parlò di "una canzone sull'oscura vulnerabilità del sogno americano, che è qualcosa che conosciamo bene"

Certamente quelle parole di chiusura (“You can check out any time you like but you can never leave” - “puoi lasciare libera la stanza quando vuoi ma non potrai andartene mai”) sono davvero inquietanti.

 

 

La cosa però forse più sconcertante e per taluni versi straordinaria è il fatto che questo splendido brano sia stato utilizzato pochissimo in ambito cinematografico.

Al di fuori di qualche apparizione in serie TV, quali X-files e I Soprano, l'unico film che si può vantare di avere Hotel California nella colonna sonora è Il Grande Lebowski. Ma non nella versione originale, bensì in una cover stile flamengo dei Gipsy Kings.

Insomma c'è un mistero sul perché una canzone così bella che ha venduto milioni di copie abbia avuto un uso così limitato in colonne sonore cinematografiche.

 

 

 

In realtà tutta la produzione degli Eagles non ha goduto di grande successo presso il mondo della settima arte: ricordiamo che Lyin' Eyes, dall'album One of These Nights compare in Urban Cowboy (Urban Cowboy, 1980), mentre una cover di Life in the Fastlane (brano che faceva parte della line up di Hotel California) compare in Fuori di testa (Fast Times at Ridgemont High, 1982) .

Alla fine l'unico brano degli Eagles  che si è ritagliato uno spazio nella storia delle colonne sonore è In the City, un pezzo rock molto grintoso (e abbastanza lontano dall'Eagles-style) che accompagna le battute iniziali deI Guerrieri della notte

 

 

Una curiosità: il brano venne composto da Joe Walsh appositamente per il film (e infatti la versione che si ascolta non è registrata dagli Eagles, ma da un gruppo di session men messo su per accompagnare lo stesso Walsh, tra cui Mike Porcaro alla batteria); solo dopo averlo ascoltato gli Eagles lo inclusero nella scaletta dell'album che stavano completando, che per la cronaca è anche l'ultimo in studio, The Long Run.

 

Concludiamo con le splendide note della canzone cui abbiamo dato largo spazio in questo post, nella versione che apre l'album Eagles Live del 1980, canto del cigno di una band che anni dopo si ritroverà, spinta dall'entusiamo di milioni di fan.

Ma i veri Eagles, quelli che non ascolteremo mai più, sono questi:

 

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