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Youth - La giovinezza, la non recensione in anteprima
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Qualche anno fa mi hanno tolto un sasso da un rene. Era molto grosso, lo tengo ancora in uno scatolino da qualche parte. Da allora, come uno scongiuro, ogni mattina bevo tanta acqua, anche un litro. Ormai il mio corpo si è abituato e non bevo più per scongiurare alcunché, ma per sete vera.

Stamattina come tutte le altre mattine ho bevuto tutta quell’acqua. Solo che alle dieci - e non è un’abitudine - iniziava l’anteprima per la stampa di Youth - La giovinezza, il nuovo film di Paolo Sorrentino, a cui ero invitato. Non avevo proprio pensato a quel che avrei dovuto fare dopo.

Quel che ho dovuto fare dopo è stato fare alzare un’intera fila di giornalisti, non senza aver resistito una buona mezz’ora: una scelta necessaria, non facile, resa appena più giustificata - in un percorso mio interiore e solipsistico - dal fatto che nel film si era parlato di minzione già diverse volte.

I due protagonisti Fred e Mick (rispettivamente Michael Caine e Harvey Keitel), due anziani artisti - un compositore e un regista - in ritiro in una sorta di beauty farm, si scambiano spesso infatti spesso nel film confidenze sulle loro funzioni urinarie.

Quando sono rientrato - mi sarò perso tre o quattro minuti, non di più - mi sono seduto in prima fila, quasi sotto allo schermo e l’enorme faccione di Michael Caine ha detto una battuta del genere: “Oggi ho fatto una lunga interminabile pisciata, mi sento molto meglio”. Questa perfetta concordanza tra la mia vita e il film va vista - da qui in poi - come un ostacolo alla mia oggettività nei confronti del giudizio sul film, visto che da quel momento in poi mi sono sentito molto meglio. 

Ricordatevi di non bere prima di un film. O almeno sedetevi di lato.

 

Michael Caine

Youth - La giovinezza (2015): Michael Caine

Come già in passato questa non vuole essere una recensione puntuale del film di Sorrentino. Molte altre penne del sito, dopo di me e meglio di me, sapranno argomentare a favore o contro. Non solo: essere il primo a parlare di un film, prima ancora che gli altri possano vederlo, è un privilegio che non gradisco del tutto. C’è una disparità che non mi piace e si ha, scrivendo per primi e prima ancora che gli altri possano vedere, quasi la sensazione che il proprio sguardo, assolutamente soggettivo, possa influenzare le visioni che verranno. Decisamente non sono un critico professionista. Per cercare però di mantenere una funzione di servizio nei confronti dei molti che vedranno questo film e delle molte parole che ancora una volta si spenderanno intorno ad esso (lo do per certo), provo a offrire qui alcuni appunti. volutamente disordinati. Sarà bello se potranno essere utili, anche solo per essere confutati.

Innanzitutto: Youth è il film di Sorrentino che segue la vittoria dell’Oscar ottenuta con La grande bellezza, film molto visto, molto premiato, molto odiato da un certa parte della critica, quella più cinefila e colta. In qualsiasi caso questa cosa non può essere ignorata, non l’ha sicuramente ignorata nemmeno Paolo. 

Mi ha fatto piacere sapere da fonte attendibile (e questa è cosa che non sanno in molti) che la sceneggiatura Sorrentino l’ha scritta in sole due settimane, di getto. Quando si scrive di getto si sa cosa si vuol dire: in genere si ha quasi il bisogno di farlo, non c’è fatica. Se si riesce a scrivere un film di getto dopo aver vinto un Oscar, per di più un Oscar molto criticato in patria, è buon segno.

Penso che la sceneggiatura di Youth, e in particolare modo i dialoghi, siano sia la parte migliore del film: a Cannes potrebbero anche accorgersene. Tra l’altro potrà essere anche interessante sapere che la sceneggiatura, epurata della notazioni più tecniche e da leggersi come un romanzo, uscirà domani nelle librerie per i tipi di Rizzoli (15 euro, 195 pp.): io di Sorrentino ho letto solo Hanno tutti ragione e l’ho trovato notevole e divertente. Aiuta tra l’altro molto a capire il suo mondo, se qualcuno ne sentisse il bisogno.

Il titolo è ingannevole: Youth non parla della giovinezza. Si potrebbe sostenere che prova a farlo in un senso prospettico, visto che i personaggi sono per lo più vecchi, ma nemmeno lì ci riesce. Non solo: Paolo Sorrentino, buon per lui e per noi, non ha ancora compiuto 45 anni e, nonostante lui si dica vecchio dentro, è lontano anche dalla vecchiaia. Eppure i suoi personaggi spesso sono figure che hanno un passato alle spalle. L’aspetto che forse avvicina Sorrentino e il suo cinema alla vecchiaia è semmai un atteggiamento contemplativo, che emerge spesso nei suoi personaggi. In Youth questa ricerca contemplativa è resa ancor più evidente dal setting: un albergo di montagna, quasi un non luogo, un al di là, dove le figure del film, e le cose che esse dicono, spesso sembrano stagliarsi nel vuoto.

Questo ci riporta alla Grande Bellezza: i due film sono diversi (anche se molto accomunati da un tema di fondo). In Youth c’è meno ricerca dello splendore, c’è meno fasto visivo. Sorrentino si è più trattenuto e solo in alcuni momenti si gioca la carta dello stupore. Tra l’altro quei momenti sono i meno importanti: c’è un coro di mucche francamente dimenticabile e qualche altra soluzione di questo tipo. Anche le svolte narrative, che ci sono e sono improvvise - dei colpi di scena molto freddi -, in fondo non sono poi così importanti.

Quel che accomuna i film è una sorta di romanticismo trattenuto, ma alla fine palpabile, che è proprio della poetica di Sorrentino. Dietro il cerone dell’amarezza, del cinismo, dell’ironia, Sorrentino sembra sempre porre il cuore di tutto in una scintilla.

Un appunto che è pura cronaca: in sala si è riso, molto e di gusto. L’umorismo cinico e le battute prontissime che si scambiano i due vecchietti funzionano. Forse Youth è il più umoristico dei film di Sorrentino. 

A proposito di scambi veloci e di battute, ecco che tornerebbe buono avere la sceneggiatura sotto mano: il film è affastellato, letteralmente, di massime lapidarie. Ciascuno troverà qualcosa che risuona con i suoi pensieri e i meno ben predisposti troveranno invece un ottimo motivo per confermare a se stessi che Sorrentino è uno che crede di aver molto da dire, pensando che in realtà non sia così.

Nonostante il tono se volete minore rispetto alla Grande bellezza resta comunque evidente che Sorrentino crede che il cinema sia una cosa grande: uno spettacolo.

Uno dei due personaggi principali del film, Fred/Caine è un compositore: eppure, nonostante l’amore di Sorrentino per la musica e nonostante abbia scritturato David Lang, compositore contemporaneo e autore della soundtrack originale, la musica è qui meno importante di quanto non sia stato in precedenza. 

Michel Caine è generoso e perfetto e sicuramente la su presenza illumina il film, anche questo potrebbe essere notato a Cannes. Anche Harvey Keitel è in parte: non lo ricordo così fragile in nessun altro film.

Di nuovo una nota personale, al termine.

Quando sono uscito dal cinema, l’Apollo di Milano, che è proprio a due passi dal Duomo, mi sono ritrovato di colpo tra la gente, alla luce. Guardavo i turisti, i flaneurs e la gente comune che girava intorno alla Cattedrale. Per un attimo mi sono sentito ancora nel film e ho contemplato i volti che mi circondavano come se le si stesse inquadrando lui. Penso che a Sorrentino interessi l’umanità, che faccia cinema in qualche modo popolare e che abbia molto desiderio di piacere. Rifiuta, nel film lo dice proprio esplicitamente, la categoria degli intellettuali ma non per tessere un elogio dell’uomo comune, non per costruire un’apologia dell’ignoranza. Rifiuta gli intellettuali perché crede che manchino il bersaglio essenziale, quello che conta: una scintilla.

Passando di lato al Duomo ho notato per la prima volta che c’è una porta laterale con scritto “Ingresso per i fedeli”. Ho pensato che se il Duomo fosse il cinema, Sorrentino userebbe quella porta per entrarvi.

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