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Il cinema degli altri (4) - Bahman Ghobadi (Kurdistan)
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Bahman Ghobadi nasce a Baneh, nel Kurdistan iraniano, nel 1969.  Dopo il diploma in regia ed una breve attività come fotografo industriale, inizia a dedicarsi al cinema. Tra il 1990 ed il 1997 gira una ventina di brevi filmati in 8mm; uno di questi, Zendegi dar meh (Life in Fog), un documentario su un orfano curdo costretto a darsi al contrabbando per mantenere i fratelli, è considerato il più famoso cortometraggio iraniano. Nel 1999, Ghobadi è assistente di Abbas Kiarostami per il film Il vento ci porterà via. Da allora ha scritto, diretto e (co)prodotto altre otto opere:

 

Il tempo dei cavalli ubriachi (2000) (premiato al Festival di Cannes)

Songs of My Motherland (2002) (premiato al Festival di Cannes)

War is Over (2003) (cortometraggio)

Daf (2003) (cortometraggio)

Turtles Can Fly (2004) (premiato al Festival di Berlino)

Half Moon (2006) (vincitore al Festival di San Sebastián)

I gatti persiani (2009) (premiato al Festival di Cannes)

Rhinos Season (in preparazione)

 

“Quando penso alla mia patria in Kurdistan, penso alla neve, al freddo e alla nebbia. La nebbia è ovunque. Penso che  laggiù anche la vita sia nebbiosa – economicamente, politicamente e socialmente il Kurdistan è tenuto nascosto e coperto sotto uno strato di nebbia.” È una dichiarazione di Bahman Ghobadi riportata sulla pagina web della Mij Film, la casa di produzione da lui fondata nel 2000, ed il cui nome, in curdo, significa, appunto, nebbia. Le sue storie portano alla luce la realtà culturale di una nazione che non esiste più sulla carta, perché è attraversata da un confine ramificato che la divide in quattro spicchi: la fetta più grossa in Turchia, le altre tre in Siria, in Iraq e in Iran.  C’è una linea di filo spinato che attraversa l’inquadratura, nell’ultima scena di molti dei suoi film: una frontiera pericolosa, ma provvisoria e posticcia, che i suoi piccoli “eroi” non esitano a varcare, diventando i pionieri di una unità territoriale da riconquistare, insieme all’autodeterminazione di un popolo oppresso e perseguitato. Il percorso verso l’autonomia, impossibile nella realtà, inizia idealmente, sul fronte cinematografico, con Il tempo dei cavalli ubriachi, il primo lungometraggio in lingua curda, che propone, della patria di Ghobadi, proprio l’immagine da lui rievocata.

 

 

L’esistenza condotta a dorso di mulo dai contrabbandieri, nel clima rigido delle montagne del confine tra l’Iran e l’Iraq, è la durezza che sostituisce crudelmente la speranza, e che, in questo film, si traduce, in particolare, nel destino di un ragazzino costretto ad abbandonare la scuola e a lavorare, di una ragazzina sacrificata in un matrimonio di convenienza e di un bambino condannato da una grave malformazione congenita.

Il sogno a cui è impedito di crescere: è quello della gente che continua a coltivare la propria tradizione, la propria identità etnica, pur non avendo alcuna possibilità di affermarla verso l’esterno. È come un’infanzia che non può correre e giocare, perché sa di essere confinata entro un recinto, circondata dal terreno minato delle avidità e dei pregiudizi.

 

 

 

Questa tenacia senza sbocco riesce comunque a volare, sotto forma di melodia, e a dare persino un’illusione di gioia, anticipando il festeggiamento per la vittoria che  è ancora di là da venire.

 

 

 

Ad essere celebrato, per il momento, è solo il miraggio di un imprecisato futuro, in cui  non ci saranno più gli eserciti a bloccare il cammino che porta verso gli amici e i ricordi di un tempo, né i tiranni ad impedire alle donne di mostrare in pubblico il loro talento.

 

 

 

 

La musica è l’anima poetica del cinema di Ghobadi, che affida al canto la voce della preghiera e della battaglia, fondendole in un’unica armonia di fede, che esce dal cuore, e si fa subito bellezza. 

Una bellezza triste, a volte anche arrabbiata, come un’arte antica che attraversi i turbamenti della giovinezza,  amalgamandosi con la sua insaziabile voglia di cambiare il mondo.

 

 

La precedente puntata de Il cinema degli altri:

(3) Šarunas Bartas

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