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Fausto Brizzi: Se mi vuoi bene - Intervista esclusiva
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A due anni di distanza da Cento giorni di felicità, quel primo romanzo che ha scardinato ogni classifica di vendita e ha trovato riscontro in oltre 30 Paesi, Fausto Brizzi è tornato lo scorso 10 marzo in libreria con Se mi vuoi bene. Coniugando temi seri con atmosfere e situazioni spesso divertenti, Brizzi racconta la storia di Diego Anastasi, un avvocato quarantacinquenne che in seguito allo scardinamento della sua esistenza quotidiana cade nel tunnel della depressione. Solo e con alle spalle un tentativo di suicidio fallito, Diego ritrova pian piano la voglia di vivere grazie all’incontro con Massimiliano, proprietario di un anomalo negozio che, in barba allo scopo principale di tutte le attività, offre “semplicemente” ascolto e comprensione e regala la possibilità di parlare. Complice il nuovo amico depresso Giannandrea, i tre uomini metteranno in piedi un “complotto” teso a riportare serenità nell’esistenza di tutti gli amici di Diego, ridando nuovo significato alla parola beneficienza.

In un mondo in cui gli umani sono divisi in tre differenti categorie (primisti, durantisti e dopisti, la cui differenza viene data dal modo di percepire il tempo e vivere il presente), Brizzi si allontana dalla struttura della commedia sentimentale per planare lievemente nel mondo della commedia pura, dove a temi che a prima vista potrebbero spaventare aggiunge atmosfere divertenti e ironiche, tese a non far perdere il sorriso in chi legge, e continui riferimenti interattivi che chiamano in causa il lettore. Tra le righe, si ritrovano dischi da ascoltare, film da (ri)vedere e liste di cui il lettore stesso deve stilare un ordine ben preciso e ragionato. Con un stile di scrittura che non si dimentica della raffinatezza stilistica, Brizzi dimostra – piaccia o non piaccia – di essere abile con le parole e di sapere come centrare il bersaglio, colpendo come un abile Guglielmo Tell quella mela che poggia in continuazione sulla testa del lettore per regalare brividi dove serve e sospiri di sollievo dove occorre.

In occasione dell’uscita di Se mi vuoi bene, già in testa a tutte le classifiche di vendita della settimana, abbiamo raggiunto Fausto telefonicamente per capirne un po’ di più del romanzo e per parlare delle sue innumerevoli attività. Basti ricordare che, oltre a essere scrittore, è anche regista, sceneggiatore e produttore, in grado di alternare cinema commerciale con cinema d’autore.

 

Da dove nasce l’ispirazione per Se mi vuoi bene, il tuo secondo romanzo che parla in primo luogo di un tema spinoso come la depressione ma senza essere deprimente.

Dopo i buoni risultati del mio romanzo d’esordio che ha venduto molto in Italia e che è stato tradotto in diversi Paesi, sull’onda dell’entusiasmo ho deciso di scriverne un altro con l’idea di alleggerire i toni. Il mio primo libro parlava di tumori e per il secondo ho optato per un altro tema molto largo, che coinvolge moltissime persone in Italia e nel mondo. Il gioco, quando scrivo un libro rispetto a un film, è quello di darmi una piccola sfida parlando di temi seri senza perdere di vista il divertimento e l’ironia. Al cinema, non è proprio il genere che faccio, considerando che mi sono dedicato soprattutto alla commedia romantica, molto più industriale e con scelte talvolta più frettolose.

Hai scelto di parlare di depressione coniugandola però al maschile.

È stata una scelta molto semplice. L’io narrante, la formula con cui mi viene meglio scrivere e che uso come se fosse una lunghissima voce fuori campo o come se fosse una persona che sta raccontando su un palcoscenico cosa gli è capitato,  mi ha permesso di parlare di un Fausto immaginario. Il personaggio è quello che sarei stato io se avessi fatto l’avvocato così come volevano i miei genitori: mi sono immaginato come un depresso di mezza età e gli ho dato i miei stessi gusti, le mie stesse passioni, le mie stesse fobie. Il Diego Anastasi protagonista mi somiglia molto.

Che ti somigli è abbastanza evidente dalle citazioni cinematografiche o musicali di cui è infarcito il racconto.

Il mio gioco preferito è mettere all’interno delle storie dei dischi da ascoltare piuttosto che dei film da vedere o delle pagine bianche per rendere interattivo il libro con il lettore. Si tratta di una cifra stilistica nata con il libro dell’anno scorso e che prosegue anche in Se mi vuoi bene.

Interazione che cerchi nel corso del romanzo lasciando Diego rivolgersi al lettore, chiamandolo direttamente in causa.

E invitandolo a scrivere sul libro stesso le dieci cose che ama di più nella vita. Abbiamo a proposito lanciato un gioco su Twitter in cui invitiamo le persone a fare la lista delle dieci cose per loro indispensabili. La maggior parte delle risposte sono in linea con quanto accade nel romanzo: elencano oggetti. Mentre la verità è che le cose a cui teniamo di più sono in realtà dieci persone.

Tornando ai temi di base di Se mi vuoi bene, ce n’è un altro che è abbastanza evidente e che si rende manifesto con l’introduzione del Negozio di Chiacchiere, gestito da Massimiliano, una sorta di “guru” della comunicazione. Ovvero, i problemi di comunicazione della società moderna.

Credo che sia il problema maggiore di oggi. Il cambiamento della struttura della famiglia, con i genitori talvolta lontani o separati e con i vicini di casa non più come luogo rifugio, ha determinato molti trambusti nella generazione dei giovani di oggi. Quando ero bambino e i miei dovevano uscire, venivo depositato allegramente dai vicini di casa: non esistevano le babysitter e si veniva lasciati alle cure dei vicini o dei condomini, gente che conoscevo e che erano come zii. Oggi, quando si organizza una cena con amici, la preoccupazione principale è quella di ricercare subito una babysitter disponibile e di pianificare ogni cosa in base alle sue esigenze di tempo e orario. L’avvento delle babysitter ha segnato l’inizio del disfacimento delle nostre società. Associato all’arrivo dei social network.

Quand’ero ragazzino, avevo dieci amici. Oggi con Facebook o Twitter qualsiasi quattordicenne ha 3850 amici. Ma chi sono questi? L’equivoco è lessicale: non sono amici, sono semmai persone con le quali ti scambi dei file su internet. Bisognerebbe coniare un neologismo per definirli perché la parola giusta non è “amici”. Ecco, condivisori di rete: “io ho 3850 condivisori di rete con i quali mi scambio filmati o aforismi e basta”.

Da ciò mi pare di capire che tu usi poco i social network.

Non ho facebook (esiste solo una pagina del romanzo dell’anno scorso) e non ho twitter. Uso però Whatsapp e mi sto facendo a poco a poco trascinare. Non ho particolare amore nei confronti dei social: come dico anche in Se mi vuoi bene, amo il citofono, andare a bussare a casa di un amico e uscirci a cena. Ma che è chattare con uno e raccontargli ciò che ti è successo con compressione di caratteri e uso di faccette varie? Io preferisco ancora guardare in faccia il mio interlocutore o vedere il suo volto mentre mi racconta qualcosa. Capisco che è un atteggiamento un po’ da “anziano”…

Beh, non so se qualcuno può tacciare di essere anziano proprio te che sei stato uno dei precursori dei gusti dei giovani di oggi, che possiamo quasi definire “moderni vintage”.

Esatto. Assistiamo proprio in questo periodo a un recupero del passato. Basti pensare che la maggior parte delle nuove uscite discografiche musicali si presenta o in mp3 o in vinile, bypassando il supporto del cd. Io sono tornato ad acquistare il vinile: che meraviglia andare due settimane fa in un negozio e comprare l’ultima raccolta di De Gregori in vinile! Una soddisfazione che non avevo da tanto tempo.

Quindi, siamo dei primisti, dei durantisti o dei dopisti, per citare una classificazione che stili in Se mi vuoi bene?

Dei primisti. Sono assolutamente un primista. I durantisti, tra i quali si può avverare la maggioranza degli italiani, sono pericolosi. I dopisti, purtroppo, sono pochi e sono anime elette, magari ce ne fossero di più. Leonardo, Steve Jobs o Jules Verne, il più grande scrittore di tutti i tempi, sono stati dei dopisti.

Altro tema trattato dal tuo romanzo è quello della beneficienza, intesa come “fare del bene” anche a chi ci è più vicino.

Questo è un altro aspetto che mi sta molto a cuore. C’è un grosso equivoco sulla beneficienza: tutti pensano che sia solo prendere un iban e versare dei soldi su un conto corrente d’aiuto. La verità è che la parola vuol dire altro: fare del bene a qualcuno. E ce lo siamo dimenticati.

Il tuo Diego, in una sorta di rovescio della medaglia, vede tutte le sue buone azioni, iniziate con il migliore dei propositi, andare male.

È ovviamente un gioco da commedia: l’eccesso di buonismo deve essere contrastato da una dose di sano divertimento e ironia. Questo cupido e benefattore improvvisato deve vedere inizialmente ribaltato ogni suo buon proposito. Alla fine, però, tutto si ricompone in un lieto fine che poi del tutto lieto non è, dal momento che accade qualcosa che per certi aspetti fa da cliffhanger e lancia un terzo possibile romanzo.

A proposito di futuro e di tempi che intercorrono, quanto hai impiegato a scrivere Se mi vuoi bene?

Ci ho messo tutta l’estate scorsa. È stata un’estate senza film da girare e gli ho potuto dedicare tutto il mio tempo.

Già. Dopo il 2013 che ha visto uscire due tuoi film da regista, Pazze di me e Indovina chi viene a Natale?, sei stato fermo più di un anno.

La colpa era principalmente del romanzo e del fatto che stavo lavorando con la mia casa di produzione, la WildSide, ad altri progetti che non contemplavano la mia regia. È chiaro che quando proponi un film da regista se ne accorgono tutti rispetto a quando lavori dietro le quinte ma posso assicurare che non è stato un anno sabbatico. Dalla serie In Treatment di Saverio Costanzo al meraviglioso La mafia uccide solo d’estate di Pif, da Incompresa di Asia Argento a Hungry Hearts di Costanzo, sono tutti figli della produzione di WildSide.

Regista, scrittore, sceneggiatore e produttore, che passa da un genere all’altro diversificando l’offerta. Se non erro anche la serie 1992 è di produzione della WildSide.

Si, cerco di non annoiarmi.

Quale dei tanti aspetti citati preferisci?

Sicuramente, scrivere. È liberatorio, il tuo ufficio sei te stesso e puoi lavorare ovunque ti trovi. Scrivere, libri o sceneggiature, è sicuramente la cosa che mi appaga di più. Poi, è chiaro che, avendo un’azienda, faccio anche tutto il resto, burocrazia compresa e che non amo.

Il tuo nuovo film sarà Forever Young, già nel listino Medusa, ed entrerà in lavorazione a breve. Si tratta, come da comunicato, di un ritorno alla “commedia all’italiana”.

Assolutamente sì. Ho sempre girato commedie romantiche mentre Forever Young sarà una commedia di satira sociale ambientata nell’Italia di oggi sul fenomeno dei finti giovani. I protagonisti hanno un’età compresa tra i 30 e i 70 anni e, appartenendo alla stessa fascia d’età, sono autorizzato a prenderli in giro.

Non hai paura che ci sia in questo momento in Italia una sovrapproduzione di commedie? Ne arrivano in sala quasi una decina al mese.

Ce ne sono parecchie in giro e proprio per tale ragione cerco di diversificare. Non cerco di andare dietro all’onda delle commedie che in questo momento affollano i cinema ma voglio realizzarne una molto cattiva, fustigatrice e senza lieto fine. Una sorta di film d’altri tempi che dia un ritrattino amaro dell’Italia di adesso. È arrivato il momento di meritarmi quel premio Monicelli di cui mi hanno onorato qualche tempo fa. Visto che non me lo sono meritato precedentemente, è arrivato il momento di meritarmelo.

Perché pensi di non essertelo meritato?

Ho fatto soprattutto commedie romantiche che il buon Mario non avrebbe poi amato così tanto. Il mio è stato finora un genere differente da quello che realizzava Monicelli. Forever Young, invece, secondo me gli sarebbe piaciuto. È molto Risi/Monicelli, molto Il sorpasso e su quelle persone che credono di essere immortali.

Per la WildSide, invece, questo è un momento molto fortunato. Dopo il successo di Pif e la partecipazione di Incompresa al Festival di Cannes, è nelle sale Nessuno si salva da solo di Castellitto, uscirà il 19 marzo La solita commedia – Inferno e sta per partire in tv 1992.

E tra meno di un mese, il 9 aprile, arriva in sala un’opera prima particolarmente riuscita: Se Dio vuole di Edoardo Falcone con Alessandro Gassman e Marco Giallini, un film molto divertente, una sorta di Quasi amici all’italiana, incentrato sulla storia di un uomo che cerca di non far diventare prete il figlio. Gassman interpreta un prete strepitoso.

Da produttore, come scegli – o, meglio, come scegliete, dal momento che alla WildSide siete più di uno – i progetti su cui investire?

Il nostro è un apparato sociale molto democratico. Ci riuniamo in gruppo, ci confrontiamo e siamo i primi editor cattivi degli altri. Dobbiamo convincere tutti della valenza o del perché di un progetto, artistico o industriale che sia. Si tratta di un metodo di lavoro molto sano e i successi o gli insuccessi ricadono su tutti. Lavoriamo su due fronti diversi, su opere che possano competere nei migliori festival del mondo, da Cannes a Venezia, e su opere che possano incassare. A volte succede che le due strade trovino dei punti in comune, come è accaduto ad esempio con La mafia uccide solo d’estate di Pif: ha vinto molti premi e si è rivelato un successo al botteghino.

Eppure qualcuno ultimamente si è divertito a farvi le pulci con un articolo al vetriolo in cui si passavano in rassegna i fondi che la WildSide avrebbe ricevuto in “regalo” dal Governo.

Quell’articolo era di base sballato perché confondeva i fondi automatici che le Regioni elargiscono a tutte le produzioni filmiche con i fondi dei finanziamenti per il cinema. Pensa a quanto possa essere sbagliata come impostazione: più che informazione, quella era disinformazione vera.

Tornando un momento a Se mi vuoi bene, perché chi entra in una libreria deve acquistarlo?

Deve leggerlo chi ha voglia di sorridere con dei temi importanti, chi ha un gusto vintage e chi si sente un primista come me. Troverà un romanzo divertente, al di là del tema. È vero che è un libro sulla depressione ma vi assicuro che in realtà è un antidepressivo.

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