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Cineasti invisibili (1) - Wang Bing
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  • Da oggi, noi utenti myHusky e EightAndHalf, con la collaborazione di lorebalda, pubblicheremo dei resoconti biografici e filmografici di alcuni "cineasti invisibili" poco "di moda" che si distaccano dai gusti predominanti e vanno a nutrire un cinema di nicchia che meriterebbe ben altra estensione. Un approccio semplice a grandi registi poco conosciuti: altro che salotti, il cinema è di tutti. 

 

  • «Comunque, personalmente, non ero particolarmente attratto dal sezionare momenti già dati; l'immagine in movimento era molto più interessante»
  • (Wang Bing)

 

 

  • Wang Bing è uno dei maggiori registi in attività, un esponente fondamentale di quel cinema dell'umiltà che nessuno è più disposto a fare, un cinema che basa tutto il suo fascino sullo studio della realtà e sulla presenza/assenza del documentarista in azione, in grado - come lo è effettivamente Wang - di penetrare in microcosmi di povertà, luoghi in cui le grandissime trasformazioni di un Paese o di un'intera comunità si rivelano evidenti e sbucano fuori a partire dai rapporti umani documentati. Un modo di fare film paradossalmente semplice, ma che ha costituito a buon ragione uno scossone clamoroso, per quanto riguarda il cinema odierno, tanto da entusiasmare i circoli festivalieri che hanno avuto l'onore di ospitare i capolavori di questo grande autore misconosciuto in Italia. 
  • Wang Bing nasce in piena Rivoluzione Culturale nel 1967 nella provincia cinese dello Shaanxi, da due genitori di diverso ceto sociale. Costretto a stabilirsi dal nonno paterno, in occasione della perdita della nonna, Wang visse lì alle soglie della povertà. Quando il padre - laureato in ingegneria civile - morì per un fatale incidente, Wang, grazie alle politiche lavorative del tempo, ne prese il posto: durante gli studi, però, il giovane ingegnere cominciò presto a dimostrare grande interesse per l'arte. Prima l'architettura, poi l'arte visiva e infine il cinema, un interesse che ebbe inizio e maturò nel Beijing Film Institute. 

 

  •  (Wang Bing al 69° Festival del Cinema di Venezia, quando presentò il suo lungometraggio Three Sisters, 2012)

 

  • Dopo pochi lavori anche per la televisione, Wang realizza il documentario che lo rese noto al pubblico dei festival del cinema, Tie Xi Qu - Il distretto di Tiexi (2003), in cui penetra nella realtà di una fabbrica in disarmo nel distretto del titolo, e ne contempla con apparente freddezza la dissoluzione. L'operazione che fa Wang è tanto semplice quanto maestosa: essendo un luogo a lui familiare, perché oggetto dei suoi studi fotografici, il distretto di Tiexi diviene il campo di lavoro per uno studio quasi sociologico dei rapporti umani e del destino di un intero paese. La mdp di Wang si muove, si aggira fra i corridoi, le stanze, le miserie e i giganteschi edifici dell'agglomerato industriale, registrando le voci e le insofferenze di uomini lasciati a loro stessi in un mondo che sembra sulla via della rottamazione. La pietas che simile visione innesca nasce a posteriori, e non viene sollecitata da Wang: è la realtà a parlare. Lo sguardo del regista si stende anche su ciò che a livello internazionale e umano è dimenticato, uno sguardo che mette a fuoco verità scomode che certo non lasciano ben sperare sul futuro della Cina e, più in generale, dell'umanità.
  • Perchè Tie Xi Qu, diviso in tre colossali parti per una durata definitiva di 9 ore, è anche la chiusa di un'epoca triste e drammatica, il termine di una "evidente povertà" che sarà seguita da qualcosa di ancora più temibile, non troppo distante da quel lento processo di disumanizzazione che anche un altro cineasta più famoso, Jia ZhangKe, ritrae nelle sue disperate pellicole: lo "sviluppo" industriale della Cina, quel fenomeno paradossale e contrario ai classici precetti comunisti/maoisti, uno dei terribili effetti della globalizzazione che rende, agli occhi dell'angosciato Wang, ancora più inutile e aberrante l'enorme sofferenza subita dal suo popolo durante la seconda metà del Novecento. Così, mentre i suoi primi film tengono sempre in considerazione il passato (l'interessante He Fengming [2007], un intero piano-sequenza che ascolta i racconti di un'anziana giornalista ribelle all'epoca della Rivoluzione Culturale), dal 2007 in poi, con Brutality Factory, sembra che qualcosa si disinneschi, e dia inizio a una terribile degenerazione, nella constatazioni di Wang.

 

  • (Tie Xi Qu - West of the Tracks2003)

 

  • Proprio Brutality Factory, cortometraggio tratto dal lavoro collettivo The State of World, è il primo esperimento di finzione di Wang. Il film, parzialmente riuscito, è la metafora efficace del funzionamento crudele del sistema politico in Cina. Macerie di edifici e "macerie umane" destinate alle sevizie e alle torture vengono sbattute in faccia allo spettatore con una crudezza estrema, che certo nei documentari Wang non può permettersi: ad esempio, al posto della violenza, troviamo allucinanti e monumentali attese (e gli abissali vuoti) in Crude Oil (2008), installazione museale destinata al Rotterdam Film Festival che ritrae un giorno di lavoro su una piattaforma petrolifera quasi in tempo reale, quattordici lunghissime ore. L'effetto è straniante, il risultato un po' ostico: l'utilizzo della telecamera fissa però diventa l'espressione stessa delle "trasformazioni della Cina", dall'idea di lavoro collettivo a quella dell'alienazione, con rari ma commoventi momenti di libertà (l'intera sequenza degli operai davanti alla tv).
  • Questo film è tanto estremo che Wang non sembra curarsi della risposta del pubblico. «Normalmente non mi preoccupo se il pubblico accetterà il modo in cui realizzo il film. Tu sei il regista: fare un'opera convincente è il tuo lavoro. Invece di preoccuparsi del pubblico, tu dovresti cercare dei giusti modi per rendere il tuo film buono». (Wang Bing)

 

  • (Crude Oil, 2008)

 

  • Seguono i due curiosi documentari Coal, Money (2008) e Man with no name (2010), il primo incentrato sul trasporto e sul traffico spesso illecito del carbone, il secondo distante da qualsiasi problematica di tipo sociale e attento a temi che apriranno nuove strade nel percorso registico di Wang. Se il primo non aggiunge molto alle conclusioni di Tie Xi Qu («ll film Coal, Money è un progetto incompleto. Abbiamo girato molto, a quel tempo, ma era fatto per un programma televisivo europeo, che mi concedeva solo cinquanta minuti»), il secondo diviene una riflessione sensoriale e quasi soprannaturale sull'identità e sulle sovrastrutture umane. Un uomo che riesce a vivere distante dalle insidie dell'istinto e dai pericoli della civiltà (e della politica) è un esempio di vita ascetica, priva di emozioni superflue, imperturbabile, come lo sguardo di Wang, lontanissimo dai luoghi comuni del documentario sociologico.

 

  • (Man with no Name, 2010)

 

  • The Ditch (2010) è invece un ulteriore deviazione dal percorso filmico di Wang, un ritorno alle tematiche scottanti delle repressioni avvenute alla fine della Rivoluzione Culturale, filtrate attraverso uno sguardo che non si rassegna di non averle potuto documentare e dunque le ricostruisce, con grandi capacità dissimulatrici. La regia dopotutto rimane identica: si predilige la mdp a mano, priva di primi piani ma sempre attenta a studiare ambienti e contesti, e soprattutto le intere figure umane, mai tagliate, ma sempre inquadrate nella loro totalità. Così come in Brutality FactoryThe Ditch consente a Wang di mettere in scena una crudezza efferata a tratti davvero disturbante (l'uomo affamato che si nutre del vomito di un altro prigioniero), raggiungendo livelli di violenza emotiva quasi insostenibili.
  • The Ditch è il primo film di Wang in concorso a un festival internazionale prestigioso come quello di Venezia, e per Goffredo Fofi il risultato finale è avvicinabile addirittura a Se questo è un uomo di Primo Levi. «La fossa, [...], ci racconta di una barbarie che si ripete, quella dell’intolleranza e della violenza, sempre antica e sempre purtroppo nuova, e ci racconta come l’umano possa sopravvivere anche nell’orrore, e cosa l’uomo è stato, è e sarà sempre capace di fare all’uomo se rinuncia alla speranza di un qualcosa che noi abbiamo chiamato socialismo».

 

  • (The Ditch, 2010

 

  • Anche il film successivo di Wang, Three Sisters (2012), è stato presentato in anteprima a Venezia, nella sezione Orizzonti, dove vince il premio principale: qui il regista torna alle atmosfere di Man with no Name per raccontare la vita di tre sorelle lasciate a loro stesse. «In un certo senso la povertà per noi è un problema del passato. Poi quando arrivi in questa regione di montagna, improvvisamente ti trovi davanti agli occhi la stessa povertà» (Wang Bing).
  • Anche qui il senso di solitudine si fa palpabile, ma mai come nell'ultimo capolavoro di Wang, Feng Ai (in italiano Follia e amore, 2013), straordinario inoltrarsi dello sguardo in un manicomio dello Yunnan, in cui i ricoverati sono soprattutto individui che hanno avuto intralci con la giustizia. Messi a tacere in un luogo di annientamento, e non di cura, gli internati diventano per Wang e per il suo Cinema emblemi universali della condizione umana nelle ristrettezze dei nostri contesti socio-politici: il regista riprende una corsa disperata in lungo e in largo all'interno di una prigione, un'inanità destinata a protrarsi anche all'esterno delle mura del manicomio. Una prigione mentale ed esistenziale, che distrugge le identità e le fa collassare. Il film di Wang più fondato sul movimento e sull'ipercinesi del Cinema, interessato a far muovere i suoi personaggi e a non farli ripiegare nella loro inerzia.
  • Una vera seduta ipnotica, in cui la realtà si carica di un senso altro, e l'esperienza visiva diventa Vita, così come è avvenuto in Man with no name.

 

  •  
  • (Til Madness Do Us Part, 2013)

 

  • Pertanto basterebbero le "trame" dei film di Wang (documentari e non) per dimostrare il carattere indispensabile del suo cinema, che offre la possibilità del pensiero critico a prescindere da qualsiasi tipo di dittatura (fisica o mentale).

 

 

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