È probabile che anche ad un appassionato di cinema il nome Carlo Pisacane non dica molto. Tutt’altro effetto fa invece il suo nome d’arte, Capannelle. Colpa o merito di Mario Monicelli, che nel 1958 raccolse letteralmente questa comparsa dai teatri di posa e dalle produzioni meno opulente e, folgorato da una fotografia che gli avevano sottoposto durante il casting, lo ingaggiò per la parte del buffo ladruncolo bolognese del suo “I soliti ignoti” . Da quel giorno l’attore napoletano, nato in un quartiere non ben definito, addirittura in una data non ben identificabile (c’è chi parla di 1891, chi di 1889), diventerà un caratterista coi fiocchi. Ad oggi, forse, il più famoso caratterista italiano, da quel giorno, addirittura, un must have per molti registi di rilievo.
Capannelle, pardon Pisacane, comincia prestissimo col teatro, nella grande scuola filodrammatica napoletana, esordendo quasi contemporaneamente sul grande schermo in un ruolo non accreditato nel primo film della prima regista italiana, Elvira Notari (1906). Dopo altre interpretazioni in cui svolge ruoli marginali, Pisacane partecipa per la prima volta ad un film di richiamo nel 1932, in “La tavola dei poveri” di Alessandro Blasetti, tuttavia ancora con un ruolo di secondo piano. Nonostante un fisico tagliato per i ruoli da “uomo della strada”, nemmeno il neorealismo porta Pisacane sulla cresta dell’onda, e nell’unica interpretazione di un film del filone, “Paisà”, la sua partecipazione all’episodio siciliano del film ha un numero di pose a dir poco risibile.
A oltre 60 anni, rassegnato ormai ad una carriere longeva sì, ma pur sempre come figura marginale (in cui l’obiettivo non era quello di recitare bene, ma di buscarsi il cestino della pausa pranzo), arriva la svolta con Monicelli. L‘età avanzata, in cui al fisico minuto si sono aggiunti un volto scavato, una fronte fattasi spaziosa, un nasone pronunciato, ma soprattutto due grandi fosse nelle guance tipiche degli sdentati, diventano un mix esplosivo per cucire attorno alla figura di Pisacane numerosi altri personaggi. Presenzierà in opere firmate da Mattoli, Zampa, Camerini, Francesco Rosi (che lo veste da strega in “C’era una volta…” (1970), Dino Risi, Vittorio De Sica, addirittura Pier Paolo Pasolini, che gli affida il ruolo di Brabanzio nell’episodio “Che cosa sono le nuvole” (recitando per l’ultima volta al fianco di Totò) nel film “Capriccio all’italiana”.
Un altro personaggio particolarmente memorabile è quello di Abacuc, il vecchio notaio ebreo al seguito di Brancaleone in “L’armata Brancaleone”, ancora una volta per la regia di Monicelli. Nella carriera Pisacane lavorerà senza mai sfigurare accanto al gotha del cinema nostrano (Totò, Sordi, Fabrizi, Gassman, Mastroianni), non più come comparsa, ma mai nemmeno come protagonista: le poche ma intense pose lo pongono ormai nel ruolo in pianta stabile del “caratterista”. Gli anni passano, e nonostante il ritmo serrato con cui recita (fino a nove film in un anno), quello di Capannelle rimane un termine di paragone con cui Pisacane è costretto sempre a misurarsi (anche perché il ruolo del vecchio e famelico vecchietto bolognese venne interpretato ancora ne “L’audace colpo dei soliti ignoti” e ne “Le tardone”). Quella di Capannelle è ormai una maschera per l’attore napoletano, un po’ come Charlot per Chaplin. Il connubio tra attore e personaggio è talmente stretto che al termine della carriera, alla fine degli anni ’60, l’attore napoletano verrà addirittura accreditato col suo ingombrante pseudonimo, piuttosto che col nome e cognome di battesimo. L’ultimo degli oltre 70 film interpretati in carriera sarà “Fratello sole, sorella luna” di Franco Zeffirelli, del 1972; Pisacane morirà due anni dopo, il 9 giugno del 1974, ormai ultraottantenne a Roma, la sua città di adozione.
Tra le curiosità legate alla carriera di Pisacane c’è il fatto di non aver mai recitato affidandosi alla propria voce. Oltre ai natali, Pisacane di napoletano aveva anche un forte accento. Tuttavia, i registi che lo diressero non lo vollero praticamente mai napoletano: oltre al bolognese biascicato ne “I soliti ignoti” (in cui è doppiato egregiamente da Nico Pepe) è romano in numerosi film (tra cui “Le motorizzate), siciliano (“Paisà”) e così via: tutti dialetti molto marcati, coerenti coi tratti fisicamente pronunciati del suo interprete. Perfino ad inizio carriera, quando dovette recitare in napoletano nell’adattamento di una commedia di Eduardo De Filippo, in “Un ladro in paradiso” (Domenico Paolella, 1952), il nostro venne doppiato da un altro attore partenopeo, il brillante Ugo D’Alessio (il Decio Cavallo che comprerà la Fontana di Trevi da Totò e Nino Taranto in “Totò truffa ‘62”); un altro caratterista che, silenziosamente e con orgoglio, ha fatto grande il cinema nostrano.
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