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Idee Di Cinema
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IDEE DI CINEMA – L’arte del film nel racconto di teorici e cineasti (questo il titolo completo della pubblicazione) è un interessante volume  curato da Giovanni Maria Rossi e pubblicato per le edizioni del  “Principe Costante” che mi sento di consigliare vivamente a tutti.

Molto di quello che di positivo offre alla riflessione del lettore il volume, viene evidenziato nel videocommento che potete vedere qui

 

Forse non ci sarebbe bisogno di ulteriori parole ma visto che sono io che lo propongo, qualcosa in più mi viene voglia di aggiungere.

Da parte mia confermo allora  che si tratta davvero di una stimolante e insolita lettura. Quella che ci viene presentata è infatti una vera e propria storia del cinema abbastanza insolita nel suo procedere, perché ricostruita e raccontata attraverso le parole dei cineasti che hanno contribuito a farla quella storia, ma anche ricorrendo a quelle (contributi valutativi, suggerimenti, ipotesi)  dei critici e degli scrittori che l’hanno osservata dall’esterno in maniera diretta e non passiva. Un percorso “creativo”  quindi che è molto di più du una semplice antologia di riflessioni, invenzioni e teorizzazioni sul cinema e sulle sue metamorfosi.

Merito soprattutto di Maria Giovanni Rossi che ha ricercato, curato e “montato” i materiali per “raccogliere sì delle idee, ma anche delle vere e proprie pratiche di cinema”.

Giovanni Maria Rossi (sul quale tornerò poi meglio dopo) presenta infatti in questo volume “quegli scritti che non scaturivano soltanto dalla riflessione teorica a tavolino, per altro necessaria in ogni disciplina, ma soprattutto dal contatto fisico, appassionato, insano probabilmente, con il corpo-macchina del cinema e i suoi inesauribili prodotti, i film”. (le citazioni sono prese da “Cinema di carta” a cura di Chiara Barbo, rubrica pubblicata su “Vivilcinema” n° 1 del corrente anno).

Queste “idee di cinema” che prendono origine e partono proprio dall’invenzione dei fratelli Lumière e dalle magiche, fantastiche invenzioni dei Méliès, ripercorrono dunque un secolo di storia cinematografica (partono dalla fine dell’ottocento per concludersi praticamente al termine del secolo scorso) utilizzando riflessioni e indicazioni non solo teoriche, ma anche pratiche, che si sono sviluppate intorno allo “specifico cinematografico” e a ciò che proprio il cinema ha realizzato (i film), procedendo per “tappe” (ovviamente quelle principali) soffermandosi su quelle che ne segnano più marcatamente gli sviluppi e le evoluzioni.

Si parte così dalle “speculazioni” estetiche di Epstein e Canudo e si attraversano poi tutte le avanguardie degli anni Venti e del successivo decennio, le stimolanti proposte anche un po’ rivoluzionarie della scuola sovietica, oltre che lo sconvolgimento “epocale” del sonoro, per arrivare ad analizzare il consolidamento dei vari codici narrativi che definiscono proprio la “sintassi” creativa della settima arte, soffermandosi in particolar modo sui vari  tipi di “realismo” del secondo dopoguerra, le rivendicazioni e le  poetiche degli autori e sulle nuove teorie del linguaggio e della rappresentazione degli anni Settanta, per approdare infine alle voci autorevolissime, ma sempre più isolate, dei grandi cineasti dell’era contemporanea che continuano comunque a fare scuola e tendenza.

Ogni scritto è preceduto da una breve ma esaustiva introduzione esplicativa (il lavoro svolto da Rossi per “catalogare “ organicamente l’immenso materiale delle riflessioni dei cineasti e di coloro che ci hanno teorizzato intorno, è pertinente e attento, rivelatore della immensa cultura, della profonda conoscenza che il curatore ha del settore, oltre che della passione che lo lega indissolubilmente al cinema)  e serve soprattutto a “contestualizzare” ogni intervento, a collocarlo cioè con esattezza – cinematograficamente parlando - nel luogo e nel momento in cui lo scritto o il pensiero è stato elaborato e divulgato. Riprendo allora ancora in prestito – per concludere – il pezzo di presentazione su “Cinema di carta” che mi sembra perfetto per rendere più chiaro il concetto e fornire un esempio pratico utile a far meglio comprendere come sono stati utilizzati (e finalizzati) gli scritti e le riflessioni raccolte nel libro. Le parole che scelgo, sono quelle di Ingmar Bergman che sintetizza così l’essenza della sua opera: “Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra conoscenza diurna delle cose…”.

 

Giovanni Maria Rossi – solo di qualche anno più giovane di me – ha fatto del cinema la sua ragione di vita, anche se al di fuori della cerchia fiorentina non ha raggiunto la fama che la sua competenza nella materia avrebbe meritato. Ha al suo attivo alcuni libri, ed è soprattutto colui che per lungo tempo, succedendo a Claudio Zanchi dopo la sua dipartita, ha portato avanti molto del lavoro encomiabile svolto dalla “Cooperativa L’Atelier” di Firenze.

Ha comunque una solida preparazione “trasversale” che non è soltanto cinematografica (i miei principali ricordi delal sua persona e del suo impegno culturale, sono legati al  periodo in cui, studente universitario faceva parte attiva come “attore” del Teatro Universitario di Firenze che aveva la sua sede nel benemerito Teatro dell’Affratellamento di Via Gian Paolo Orsini, la cui anima principale era quella del regista del collettivo, Valerio Valoriani (che avrebbe poi proseguito anche una breve ma intensa attività strutturando il gruppo in “Cooperativa” professionale autogestita), ma se si considerano i tempi (gli anni che vanno dalla fine dei ’60 ai primi anni ’80) non si poteva che vedere nel lavoro svolto, la collaborazione attiva – anche di pensiero - di tutti i partecipanti, attori compresi, e quindi anche di Giovanni Maria Rossi.

Quello è stato un periodo particolarmente fecondo per la vita culturale fiorentina  (per nulla secondario – in campo teatrale – a quello della più “rinomata” e conosciuta esperienza delle cantine romane) e il gruppo di Valoriani è stato in questo campo un vero “fiore all’occhiello” per riconoscibilità e inventiva, anche perché poteva contare su un gruppo omogeneo che ha formato  nomi poi diventati importanti (alcuni fondamentali) della scena teatrale italiana.

Fra i tanti spettacoli realizzati dal gruppo con la partecipazione diretta di Giovanni Maria Rossi, mi piace ricordare in particolare lo straordinario risultato raggiunto con “Uomo Massa” di Toller (il gruppo avrebbe  affrontato successivamente  anche un altro testo imprescindibile di questo autore: “I distruttori delle macchine).

Scorrendo la locandina di quella  (per me) memorabile rappresentazione, si ritrovano nomi diventati di assoluta eccellenza, oltre a quello appunto di Giovanni Maria Rossi che ha preferito distinguersi però in campo cinematografico:  fra gli attori, cito la presenza di Luca Biagini, adesso uno dei riferimenti più celebri, importanti e richiesti del doppiaggio di qualità, il compianto Mario Pachi (qualcuno lo ricorderà estroso interprete di Berlinguer ti voglio bene accanto a Roberto Benigni e Carlo Monni) e Stefano Gragnani di ben altri meriti, ma che deve soprattutto la sua notorietà a uno spot pubblicitario di qualche anno fa su un noto panettone (Ma per chi mi hai preso, per Babbo Natale?). Le scene abbastanza minimali (per gli scarsi finanziamenti disponibili ma di estroso ingegno) erano di Maurizio Balò diventato a sua volta uno dei più rinomati scenografi italiani non solo nel campo della prosa, ma anche in quello della lirica.

Queste le note del regista che accompagnavano il programma di sala: “Uomo massa” di Ernst Toller, scrittore espressionista tedesco, ci ha fornito lo spunto per una riflessione su alcuni problemi della nostra società. Gli avvenimenti dell’insurrezione spartachista del 1919 sono stati interpretati sul filo dell’ambiguità o meglio dell’indistinguibilità storica, in maniera da permettere allo spettatore di recuperarli sia come documento del passato sia come materiale di discussione sul presente.

La soluzione dello spettacolo, di tipo aperto, è lasciata  al dibattito col pubblico ed è concentrata sul problema della necessità o meno di usare la violenza per trasformare il mondo.

La discussione viene proposta all’interno del movimento operaio e quindi a un pubblico di classe, senza però rinunciare a fare del teatro, anche se del teatro politico e, in prospettiva, rivoluzionario.

Anzi nello spettacolo una nuova forma teatrale tenta di contrapporsi decisamente alla vecchia postulando:

a)      un nuovo rapporto con il pubblico e il completamento della ipotesi brechtiana della partecipazione critica dello spettatore alla rappresentazione. Questa ipotesi limitata agli elementi letterari e linguistici del teatro tradizionale, anche se usati attraverso la forma dirompente dello straniamento, è riuscita ad ottenere questa partecipazione soltanto a livello mentale e intellettivo. Oggi secondo noi è necessario fare uno sforzo per ottenere una partecipazione razionale e critica del pubblico anche all’azione teatrale e una presenza dello spettatore all’interno dello spazio scenico, senza che questo assuma mai una dimensione purificatrice.

b)      Una nuova forma di teatro che non è la vecchia (anche se della vecchia recupera a livello di frammento tutti gli stimoli e le sollecitazioni possibili) e che si presenta come un tentativo di recupero di certe ipotesi stilistiche dell’avanguardia storica (espressionismo, dadaismo, neo-obbiettivismo, realismo epico, etc.) alla ricerca di un nuovo linguaggio teatrale che saldandosi concretamente ai processi sociali in atto nel nostro paese, tenti di rappresentare la realtà in maniera critica e distaccata e di rappresentarla allo spettatore come degna di trasformazione.

Mi rendo conto di essere andato forse un po’ troppo fuori tema rispetto o ciò che mi prefiggevo di “raccontare” e suggerire con la presente nota, ma tirare fuori dal cassetto della memoria questo avvenimento teatrale, mi è sembrata la maniera migliore per sottolineare l’importanza strategica davvero a 360° di una persona come Giovanni Maria Rossi nel panorama culturale non solo fiorentino ma anche italiano, anche perché il “dibattito” aperto in tale circostanza (la necessità o meno di utilizzare la violenza per trasformare il mondo) mi sembra che sia  di nuovo adesso di una attualità sconcertante (vedi che cosa sta accadendo in Africa), In ogni caso questa era la fonte più personale e diretta per parlarne, frutto di un’esperienza in qualche maniera condivisa (sia pure - per quanto mi riguarda – in un altro tempo e in un’altra vita).

 

 

 

 

 

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