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Federica Villa, Il cinema che serve. Giorgio Bassani cinematografico
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Il corpus narrativo di Giorgio Bassani è particolarmente avaro di riferimenti cinematografici, peraltro, privi di quella rilevanza quasi mitica che sulle pagine del Romanzo di Ferrara assumono altri frammenti, citazioni, microtesti di carattere letterario, musicale o artistico.

L’«affollata e fumosa sala del Diana» è il luogo in cui trova serenità Lida Mantovani, che, seduta accanto al suo David, capriccioso e imbronciato, confonde la sua storia sentimentale con quella proiettata sullo schermo. Dal canto suo, Micol Finzi Contini utilizza l’espressione «molto cinematografo, orge di cinematografo» per definire le sue inconcludenti storie veneziane con gli studenti della Ca’ Foscari. E in «un’arena all’aperto» – una sera d’agosto – il narratore del Giardino dei Finzi Contini prende piena coscienza dell’odio nei confronti degli ebrei.

Eppure i rapporti di Giorgio Bassani con il cinema sono stati particolarmente intensi. A ricostruirli è Federica Villa, docente di filmologia presso il DAMS di Torino, in un documentatissimo volume dal titolo Il cinema che serve. Giorgio Bassani cinematografico (Kaplan, pp. 240, € 23,00). «Arrivare a Bassani e il cinema – scrive la studiosa – ha significato perdersi in un dipanarsi continuo di fulminee occasioni di incontro, prove avventurose di scrittura per sceneggiature, esperienze di confine nate con l’intento, senza tregua di creare immagini per rispondere alle domande incessanti di un presente, sicuro di non essere più e per questo incerto nel suo essere».

Il cinema è per lo scrittore ferrarese un mezzo per continuare, oltre la pagina scritta, la propria ricerca; una ricerca volta a «prendere le cose e restituirle al mondo». Bassani, come la maggior parte dei suoi colleghi residenti a Roma negli Cinquanta e Sessanta, partecipa alla stesura di numerose sceneggiature, molte delle quale divenute film per la regia dell’amico Mario Soldati. Titoli come Le avventure di Mandrin (1951), La mano dello straniero (1952), La provinciale (1953) o La donna del fiume (1955), l’episodio Il ventaglio del film collettivo Questa è la vita (1954), certo non memorabili – cinema medio, si direbbe oggi – di soggetto per lo più letterario, dove la firma di Bassani accompagna quelle di Flaiano, Moravia, Pasolini (come è noto, fu proprio l’autore del Romanzo di Ferrara a spalancare al poeta friulano le porte del mondo del cinema).

Inoltre la filmografia bassaniana presenta anche la partecipazione al soggetto dei Vinti di Michelangelo Antonioni (1952) – intitolato originariamente I nostri figli e destinato ad essere completamente stravolto dalla censura del tempo – e alla sceneggiatura, niente meno, di Senso di Luchino Visconti (1954), svolgendovi un ruolo presumibilmente marginale. E vi sono anche contributi di Bassani come narratore nelle Ragazze di piazza di Spagna (1952), grande successo di Luciano Emmer, e nella Rabbia (1963), nonché doppiatore di Orson Welles nella Ricotta (1962), entrambi i lavori a firma di Pier Paolo Pasolini

Pur non mostrando affatto quel complesso di superiorità intellettuale del letterato rispetto alla materia cinematografica, Bassani è perfettamente consapevole del carattere effimero e transitorio della sceneggiatura. Egli tuttavia ritiene che questo lavoro, sia pure «subalterno», di scrittura gli consente – come da lui sottolineato – di uscire da quella «presunzione giovanile, di origine forse ermetica, dell’ineffabilità», che gli impediva di «tirar fuori» quanto aveva dentro di sé.

Letteratura e cinema sono quindi, due media distinti, ognuno con i propri mezzi, che non vanno confusi: «l’autore cinematografico si esprime per mezzo dell’immagine in movimento, lo scrittore per mezzo della parola e dei segni di interpunzione». Per questo Bassani non può che esprimere il suo dissenso da Alberto Lattuada per quanto concerne l’invito del regista, rivolto agli scrittori, ad avvicinarsi al cinema. E non esita a rimproverare all’amico Soldati, discutendo del romanzo di questi Le due città, l’uso di «finalini» e di «dissolvenze tipicamente cinematografiche».

Naturalmente una parte significativa del saggio della Villa è dedicata al “Giorgio Bassani cinematografico”, cioè all’analisi dei film tratti dai racconti. È il caso de La lunga notte del ’43 (Florestano Vancini, 1960); Il giardino dei Finzi Contini (Vittorio De Sica, 1970) e Gli occhiali d’oro (Giuliano Montaldo, 1987). Pellicole su cui gravano le perplessità dello scrittore, autore di una celebre stroncatura della riduzione desichiana, peraltro baciata da una grande successo nazionale e internazionale, culminante nel premio Oscar. Perplessità del tutto legittime visto che, come osserva la Villa, queste pellicole offrono solo un’antologia delle tematiche e delle stilistiche dell’opera di Bassani, non riuscendo a coronare «la medesima impresa che lo scrittore fece in quei primi anni Cinquanta, quella cioè di ragionare sulla simpatia di scritture diverse che si confrontano e trovano perfetta adesione, splendida forma di adattamento evolutivo al proprio ambiente».

Vito Santoro

 

 

 

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