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Venezia 2013: protagonisti. Amos Gitai
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A volte, le cose che appiono lontane, sono le più vicine.

 

Gitai, Amos; Haifa, classe 50

 

Siamo al termine: ci resta, allora, da leggere il profilo dell'ultimo candidato al Leone d'Oro.

 

Può un autore imparare a fare cinema sbagliando continuamente ? Secondo Amos Gitai, sì: “non è scritto da nessuna parte che si sappia fare all'inizio. Perché se un avvocato perde qualche causa all'inizio, può riprovare e un regista no ?”. Domande legittime, che diventano spiegazioni per la prima parte della carriera del regista di “Free zone” (premio all'interpretazione femminile di Hanna Laszlo, Cannes 2005): Amos sudia a lungo architettura. Si tratta di una scelta quasi necessaria per il figlio israeliano di un architetto tedesco delle Bauhaus, che vedeva il cinema come “un'arte assolutamente secondaria, troppo spesso inutile”. A 23 anni, però, Amos partecipa ad una guerra, in Kippur, e gli viene chiesto, dall'esercito, di fotografare l'invedibile, così, per documentare meglio gli accadimenti. Il ragazzo non si fa pregare: affianca alla macchina fotografica una Super 8, che imparerà ad usare sul campo di battaglia. Non ha certo l'intenzione di dedicarsi alla cinematografia, però: considera il suo un “servizio necessario” (forse per smentire il padre). L'evento che lo costringerà a cambiare il suo percorso in modo definitivo accade qualche mese dopo: il suo elicottero fu colpito; il suo compagno decapitato; come lui stesso tiene a precisare “l'esercito disse che considerava la sua non-morte come un fatto statistico eccezionale e del tutto casuale”; si licenziò da soldato. Impugnò definitivamente la telecamera. I suoi primi lavori, documentari televisivi, gli procurarono diverse rogne con la censura, perché raccontavano della guerra con ottica pacifista, della proprietà privata a Gerusalemme, della condizione femminile. Osteggiato pesantemente, emigrò negli Stati Uniti, dove, al seguito del padre conclude gli studi di architettura, a Berkley, nel 1986. Da questo momento, però, Amos proverà a tracciare la sua strada fuori dagli schemi paterni: si trasferisce a Parigi, dove, con la moglie e i due figli, si integra perfettamente. Quando lo incontro è a Napoli: nel 1993 (quanti ricordi...), per la prima volta, i cittadini sono chiamati a scegliere il sindaco in prima persona. Lo scontro definitivo è tra Bassolino, che diventerà primo cittadino, e Alessandra Mussolini, oggi figura arcinota della politica (?) italiana. Aveva deciso di girare un documentario (esposto poi alla Biennale di Venezia), dal titolo “Nel nome del Duce”. Anche se ho assistito a vari giorni di riprese, non l'ho visto: mi mancano gli elementi di giudizio, quindi, per tracciarne una linea critico-narrativa. Terminate le riprese, decide di compiere il passo più importante: parlare del suo paese. Non sarà una scelta facile: tornato in Israele, gira i suoi primi film di fiction con uno stile approssimativo, riempiendoli di scene erotiche non giustificate, senza un'ottica precisa, con una serie di inquadrature che affollano inutilmente l'opera (persone al mercato, senza logica; uomini che pranzano, ma non interagiscono con la storia; telefonate a vuote che non servono alla narrazione, e così via). Sembra che nel tentativo di descrivere un paese caotico, egli affondi nel suo stesso caos. “In realtà”, ammetterà, stava “imparando”. Man mano che passa da “L'inventario” (1997) a “Giorno per giorno” (1998), a “Kadosh” (1999) a “Kippur” (2000) a “Eden” (2001), e così via, affina la sua tecnica. Ricorre più spesso al piano sequenza, prepara meglio gli attori, opacizza la fotografia, disegna con maggiore cura i suoi costumi. Non è un caso che viene diverse volte coprodotto in Italia ed affidi la fotografia a Renato Berta. Con “Terra promessa” (2004) e “Free zone”, compie il salto di qualità: asciugando la trama, sposando l'ottica femminile (sono film quasi interamente fatti da donne, troupe compresa), ricorrendo a primi piani con poche spiegazioni, trova la maniera di raccontare, senza diventare retorico, l'eterno conflitto tra israeliani e palestinesi. Nonostante diverse critiche non del tutto esaltanti, il 62enne Amos Gitai, con “Ana Arabia” si candida per una piazza d'onore a Venezia 2013.

Amos Gitai

Ana Arabia (2013): Amos Gitai

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