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Gli sposi promessi ma non mantenuti
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Tanto attesi, i Promessi sposi del 1989, diretti da Salvatore Nocita, si rivelarono un'operazione demenziale da parte della RAI, che vi spese più o meno venti miliardi di lire dell'epoca.

L'errore principale fu, secondo me, quello di impostare tutta la recitazione in inglese, a scopo di esportazione del prodotto: ma anche se l'idea, dal punto di vista commerciale, poté funzionare, si risolse in un totale fallimento artistico. Mette tristezza, in particolare, vedere Alberto Sordi e Dario Fo che sbiascicano in inglese, costretti a doppiarsi in italiano successivamente.

Un secondo, gravissimo, errore fu la scelta del cast. I due protagonisti sono davvero improponibili. Troppo bella la Lucia della parigina Delphine Forest, tanto da non giustificare, alla fine, la delusione dei nuovi vicini bergamaschi, ma anche da far rimpiangere la Paola Pitagora dello sceneggiato di Sandro Bolchi. Per non parlare dell'impietoso confronto tra il dinamico campagnolo di Nino Castelnuovo e il goffo figlio di Anthony Quinn (non si vede in virtù di cos'altro possa avere ottenuto quella parte), che più che un operaio lombardo del Seicento fa venire in mente il Signor Bonaventura di Sergio Tofano.

Ma anche - delusion delle delusioni - Alberto Sordi non mi è mai sembrato adeguato al ruolo di Don Abbondio (all'epoca in quel ruolo ci avrei visto meglio, per esempio, Paolo Villaggio), che non ha la finta autorevolezza che in alcuni passi il prete manzoniano, ingannevolmente, dimostra. Inoltre, verrebbe da ricordare agli autori che il Manzoni, per scrivere i Promessi sposi, sciacquò i propri panni in Arno, ma si guardò bene dal bagnarli nel Tevere. E perfino, se devo dirla tutta, Dario Fo, tanto lodato, non mi convinse allora e non mi convince oggi per il ruolo di Azzecca-garbugli: troppo gigione l'attore e troppo confusionario il personaggio, che nel romanzo, pur nella brevità dell'apparizione, si ritagliava una nicchia assai significativa. E non parlo del cardinal Burt Lancaster che, per usare una locuzione di stretta attualità, mi pare «un po' spompo».

Qualche pregio, nel cast c'è: il Don Ferrante di Renzo Montagnani non è male, il Fra Cristoforo di Franco Nero è sobrio quanto basta e perfino il Don Rodrigo dello sconosciuto (almeno per me) Gary Cady ha, soprattutto nel finale, quando lo vediamo disfatto dalla peste, accenti convincenti.

In più, funziona qualche descrizione storica, come quella della carestia di farina che provoca l'aumento del prezzo del pane, o quella del passaggio dei Lanzichenecchi nel Milanese, con la conseguente diffusione della peste e così come qualche momento lirico (per esempio l'«addio monti») preso a piè pari dal testo manzoniano e recitato da una bella voce attoriale.

Ma l'insieme è, come dicevo, deludente. In ossequio alla necessità di far finire l'opera televisiva con il ricongiungimento dei due innamorati, vi manca perfino la morale manzoniana apposta al termine del libro, con quell'invito a confidare in Dio per salvarsi da quei guai che, volenti o nolenti, ti vengono a cercare anche da soli. E manca, soprattutto, l'ironia del Manzoni (che fa da contraltare alla religiosità che pervade il romanzo) e la capacità dello scrittore milanese di descrivere un personaggio, di raccontare una situazione, di dare l'idea di una vita, in poche parole, quasi con un tratto di penna. La RAI, con questo sceneggiato (all'epoca non si chiamava ancora fiction) volle la magniloquenza, che però non è propria della grande Letteratura

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