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Venezia 2013: Diario dal Festival - Giorno 6
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Diario personale di un inviato al Festival — Impressioni, pensieri, opinioni

Giro di boa al Festival di Venezia: siamo a metà percorso. È arrivato il sesto giorno di proiezioni e l'impressione è quella che, come capita purtroppo spesso negli ultimi anni, le opere migliori siano finite nelle sezioni collaterali. Di fronte a prodotti come Locke, Piccola patria, Still Life, L'Armée du salut o Gerontophilia, ci si chiede come mai queste non siano nella competizione principale, dove la delusione comincia a regnare sovrana. Con solo tre opere al momento degne di attenzione - The Police Officer's Wife, Night Moves e Tom at the Farm -, è lecito chiedersi quali siano stati i criteri di selezione e cosa abbia guidato i passi di Barbera in questa che rischia di essere ricordata come una delle edizioni qualitativamente più basse del concorso.

Non si tratta di pura dietrologia. Oggi, ad esempio, attesissimo era The Zero Theorem di Terry Gilliam, rivelatosi un mezzo passo falso che ancora tanto male fa a chi vi scrive. E c'è da preoccuparsi seriamente quando poi si scopre che gran parte della critica presente al Lido considera lo stucchevole Philomena di Frears, sapientemente studiato a tavolino, come il capolavoro di questa edizione o quando si legge che la giornalista di Repubblica ha dato 4 stelle e mezza a Parkland, ottimo per una serata televisiva senza troppe pretese.

 

Prima di entrare nello specifico dei film visti oggi, mi permetto una piccola parentesi personale per ringraziare il regista Xavier Dolan, che in jeans e maglietta, si è prestato a una piacevole ed imprevista conversazione alle 7:30 del mattino di fronte all'ingresso dell'hotel Excelsior. In questi giorni così concitati e febbrili, resi ancora più complicati dagli isterismi degli uffici stampa italiani, sembra un'utopia soffermarsi a chiacchierare in tutta calma e senza sicurezza intorno. Tra i tanti incontrati anche per caso, scelgo di regalarvi dal mio "archivio" personale la foto con Dolan per via della giovane età del regista (24 anni), che non sembra risentire affatto delle smanie di grandezza di cui soffrono alcuni suoi coetanei più blasonati e decisamente meno bravi (James, ti fischiano le orecchie?).

Curioso, poi, che l'incontro con Dolan abbia avuto un altro testimone eccellente mattiniero: il maestro Giuliano Montaldo, intento ad armeggiare da solo con un distributore automatico di sigarette...

 

Dunque, capitolo Terry Gilliam: un colpo inaspettato. The Zero Theorem era uno dei film che il sottoscritto attendeva con maggiore ansia ed alte aspettative. Inutile negare il senso di scoraggiamento post-visione, quello che ti coglie quando a mente lucida ci si rende conto che sembrano ormai un lontano ricordo le emozioni e le trepidazioni oniriche regalate da uno dei più grandi geni che il cinema moderno ha conosciuto.

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locandina

The Zero Theorem (2013): locandina

RECENSIONE

 

3 DOMANDE A... TERRY GILLIAM

 

 

Nonostante sia ambientato in un futuro prossimo, il suo The Zero Theorem è coloratissimo. Ci spiega il motivo di tale scelta?

The Zero Theorem è ambientato in un futuro non precisato. La storia potrebbe svolgersi anche vicino ai nostri e mi era stato prospettato un concept art elegante, monocromatico  e tutto in acciaio. La mia visione però era molto differente, tanto che io definisco il mondo di The Zero Theorem una “distopia da bubblegum”: è tutto colorato all’inverosimile e i colori principali sono il rosa, l’arancio e il verde mela. L’unico ad essere grigio in città è il protagonista Qohen, il cui spirito è come intrappolato in una gabbia.

 

Una gabbia che è fisicamente rappresentata dalla cappella della chiesa che usa come abitazione e da cui non vuole quasi uscire.

Costruita in uno studio di registrazione di Bucarest, la chiesa è di origine ortodossa, quindi molto differente da quelle anglicane o cattoliche. Le pareti sono tutte affrescate o dipinte di santi. Qohen è agorafobico ma, paradossalmente, è circondato per tutto il tempo da volti che lo seguono in ogni dove: ci sono i santi all’interno della chiesa, i volti che sembrano perseguitarlo dagli spot pubblicitari e persino da una telecamera che rimpiazza la faccia di una statua sacra.

 

 

La cappella però sottende anche a un significato metaforico, no?  

Certo, la cappella è metafora dei vecchi sistemi e delle vecchie credenze. E in più contiene al suo interno la storia dello stesso Qohen: se ci fate caso, vedete anche i resti dei lavori che stava portando a termine per sistemare la cucina. C’è del cemento e altro materiale da costruzione in un angolo, su un ripiano vi sono delle piante e c’è persino un sexy divano rosa, tutti segni di una relazione del passato andata a male.

 

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Sarà la devastazione derivata da Gilliam ma Locke di Steven Knight, visto subito dopo, appare sotto una luce inaspettata. Nato per caso mentre Knight girava Redemption - Identità nascoste con Jason Statham, Locke racconta 90 minuti dentro ad un'automobile diretta verso Londra. Con un unico personaggio in scena inquadrato dal busto in sù (il mitico Tom Hardy), il film ha il pregio di renderti partecipe dell'azione grazie al solo uso delle parole e dei dialoghi.


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Tom Hardy

Locke (2013): Tom Hardy

RECENSIONE

 

3 DOMANDE A... TOM HARDY

 

 

Per la prima volta la vediamo recitare in panni normali, dopo averlo visto come barbone, psicopatico e cattivo da fumetto. Come ci si sente?

Ivan Locke è per davvero la mia prima performance attoriale da normale. In Locke non ci sono infatti costumi elaborati, tic o posti dove nascondersi. Non sono né un mostro né un demone: sono solo un tizio comune, che porta la barba solo per essere il più ordinario e il meno visibile possibile. Poi, mi son divertito a dargli un accento gallese, quasi senza contaminazioni dialettali o particolari accenti urbani.

 

Di cosa racconta il film, girato interamente in tempo reale?

Locke è la storia della costruzione di un edificio e della demolizione di una vita. Esplora come un singolo errore, se è possibile definirlo errore, può portare al collasso completo della vita di un individuo. Curiosamente, mentre la vita di Ivan Locke va in frantumi, il suo lavoro ha bisogno invece di cementificare le basi di un palazzo di 55 piani e Ivan si ritrova a dover gestire una doppia emergenza, senza mai uscire dalla sua macchina e parlando solo al telefono con voci di cui lo spettatore non vede mai i volti.

 

È stato complicato girare sempre di notte e sempre rinchiuso all’interno di una BMW?

No, sono state semmai le cinque settimane di riprese live più eccitanti della mia vita. Come tutti gli altri film, il set era popolatissimo di tecnici e telecamere: ovviamente mancava solo lo scenografo. Inoltre,  mi sono sentito come sul set di un radiodramma dal momento che le voci che sentire al telefono erano state registrate dagli altri attori qualche tempo primo.


 

 

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Con un paio di minuti a disposizione, io e Alan Smithee (di cui trovate integrate da oggi in questo post alcune delle recensioni: si chiama lavoro di squadra) ci dedichiamo agli incontri (piacevoli) con altri utenti del sito, in una sorta di mini raduno veneziano: Yume, Gimon82 e AtTheActionPark si materializzano durante l'arco di un pomeriggio cinematografico spento, in attesa che il concorso presenti la proiezione stampa di Ana Arabia di Amos Gitai, un unico piano sequenza dal sapore (non solo) metaforicamente politico.

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Yuval Scharf, Uri Gavriel

Ana Arabia (2013): Yuval Scharf, Uri Gavriel

RECENSIONE

 

3 DOMANDE A... AMOS GITAI

 

 

Ana Arabia racconta nel suo unico piano sequenza la vita di tutti i giorni di una comunità in cui arabi ed ebrei convivono pacificamente. Da cosa deriva tale scelta di narrazione molto vicina al documentario?

Non è stata una cosa semplice scegliere dove collocare questa storia. Da sempre, credo che nel cinema è importante considerare tutto l’insieme e non la singola parte e l’insieme viene costituito probabilmente dal contesto che prendi in esame, colpa forse del mio essere prima di tutto un architetto e poi un regista. Dunque, girare all’interno della comunità appena fuori Jaffa mi permetteva di vivere il set come un’esperienza a 360° gradi, in cui la mia vita si fondeva con quella dei tecnici: fermi in un punto, senza spostarsi altrove, tutti quanti siamo diventati parte costituente della comunità, ne abbiamo assunto i ritmi e soprattutto ne abbiamo condiviso la vita quotidiana, toccando da vicino quello che poi si doveva raccontare sullo schermo.

 

Ana Arabia ha una forma che è del tutto particolare. Vuole parlarcene?

Ana Arabia racconta vignette, piccoli ricordi, storielle con cui ognuno di noi ha avuto modo di venire a contatto. Un film del genere non prevede solo l’attenzione ai contenuti, alla narrativa o alla scrittura. Per quanto mi riguarda, anche la forma ha una sua fondamentale importanza. Mi sono chiesto quale fosse la soluzione migliore per raccontare i vari frammenti e ho convenuto di scegliere il piano sequenza. Un unico piano sequenza, un’ambizione di non facile realizzazione.

 

Nel piano sequenza è possibile anche intravedere una forte connotazione politica.

 

Esattamente. La scelta di non realizzare alcun taglio è una dichiarazione politica a tutti gli effetti, che sottolinea il desiderio di non voler vedere tagli, separazioni e fratture tra i destini degli arabi e quelli degli ebrei.


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Nonostante la stanchezza e il sonnoche reclamano un letto per dormire, alle 22:00 c'è stata la vera sorpresa della giornata: la prima proiezione di Still Life di Uberto Pasolini, prossimamente in sala con BiM e con protagonista un eccezionale Eddie Marsan.

Eddie Marsan

Still Life (2013): Eddie Marsan

RECENSIONE

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GIORNO 5

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