Espandi menu
cerca
ALLA RICERCA DI FELLINI: Il bidone (seconda parte)
di luisasalvi
post
creato il

L'autore

luisasalvi

luisasalvi

Iscritto dal 26 dicembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 14
  • Post 16
  • Recensioni 834
  • Playlist -
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

(continua)

 

 

 

Appaiono ormai chiari, da quanto detto finora, i pregi ed i limiti degli episodi successivi. La truffa delle case popolari, nonostante un ottimo piglio raggiunto nel culmine dell'esaltazione collettiva per la casa (quasi prevista da Picasso, che ha un momento di incertezza prima di iniziare la recita), che finisce per trascinare i bidonisti in una specie di violenza fisica, già sommessamente anticipatrice di quella finale (quell'assillare di tanta povera gente, che chiede un alloggio e viene derubata dei pochi soldi che ha, è espressione fisica - appoggiata da un incalzante ritmo dell'immagine, felicissimo, nel momento culminante dell'episodio - del disagio che i bidonisti stessi incominciano a provare. di fronte alle loro vittime: quadro che tornerà in nodo volutamente più vistoso, e forzatamente patetico - da questo punto di vista - , proprio perché ornai non più creduto, alla fine del .film, e che sarà ripreso, in prospettiva capovolta, nel finale del successivo Le notti di Cabiria), è però impoverito da tante osservazioni macchiettistiche, dispersive, dal sentimentale (Picasso che si commuove per il bimbo sul letto: non sarebbe male, se fosse di Castellani ...; ma intanto esprime quell'incertezza di cui si è detto) al comico (quei litigi fra i postulanti,- facile ripresa dei manzoniani capponi, potrebbe essere, per esempio, una discreta pagina di Monicelli; ma, nonostante la già accennata utilità tematica e strutturale dell'osservazione, Fellini ci ha già autorizzati, anche in questo film, a pretendere ben di più). L'episodio ha comunque il pregio di essere breve, e perciò di farne risaltare l'asciutta precisione del nucleo centrale. Inoltre esso continua con sicurezza, anche se sempre in modo incidentale, la satira di una società in cui le gerarchie ecclesiastiche sono pompose, ricche e vuote, la burocrazia lenta e indifferente: è satira modesta, fatta senza parere, estranea alla vicenda e quasi non voluta: in fondo quello non era un vero vescovo come questo non è un vero commendatore, per cui il film non "può" dare fastidio né alla censura né alle autorità. Anche perché è l'immagine che dice tutto, in modo apparentemente estraneo alla vicenda ed alla tematica del film (ma solo apparentemente; perché in modo sempre più netto Fellini propone, come abbiamo visto nella parte generale, una funzione precisa, di critica sociale, da parte dell'artista; funzione emergente proprio dalla scoperta dell'autenticità della vita e dalla necessità, per l'artista, di diffonderla e farla conoscere: che è l'esigenza che sottende già questo film, ed anche i precedenti). Ma intanto è proprio l'immagine che viene vista e che colpisce maggiormente: e l'accusa ne emerge precisa o si impone con amarezza alle spettatore.

La conclusione serale, con gli acquisti per il Capodanno, è un semplice, ma non banale, momento narrativo di transizione, che si raccorda felicemente con l'introduzione all'episodio successivo: l'arrivo vistoso e rumoroso di Rinaldo sulla sua enorme automobile, l'aria delusa di Augusto quando riconosce il vecchio amico ormai arricchito (questa volta l'osservazione è più delicata), la cafoneria urlata, plateale, di questi, e soprattutto, nel successivo viaggio in macchina, musica, dialogo, recitazione, ritmo e taglio delle inquadrature introducono alla chiassosa alienazione della festa di Capodanno, prima felliniana descrizione della dolce vita romana, e ne commentano fin d'ora il significato che essa assumerà per i vari personaggi, E' uno degli ambienti contro cui più si accanisce Fellini, in una descrizione crudele che stenta a venir riassunta nell'onnicomprensiva positività della vita (ancora Satyricon ci riuscirà a stento): il mondo degli arricchiti, che si trascinano dietro con sfacciata disinvoltura la cafoneria d'origine (qui più schietta, e quasi simpatica, perché più sincera, rispetto a La dolce vita), ora non solo più evidente per la differenza d'ambiente in cui agisce, ma esaltata volutamente, perché i soldi danno ogni diritto ed ogni abuso è dimostrazione pacchiana di potere o di ricchezza. E' un recitare vuoto e bestiale, sottolineato dagli sguardi spaesati, stupiti e timidamente critici, di Iris.

La festa è introdotta dall'arrivo di Augusto, Picasso ed Iris per le scale (immagine cara a Fellini, che sa variamente sfruttarla): il primo li guida con voluta disinvoltura, orgoglioso delle proprie amicizie ed ornai fiducioso in un futuro successo; gli altri due indietro di qualche passo, timidi o incerti come due scolaretti: unici bravi ragazzi in mezzo a tanti imbroglioni, ed unici poveri (come sottolineerà, accogliendoli, lo stesso Roberto: "Ci sei anche tu? allora è proprio una serata popolare ..."). Anche la conclusione, ottimamente preparata dallo stupido furto commesso da Roberto e che avrà conseguenze solo per gli altri due, pur facile, ha una certa efficacia, in coerenza con la linea della vicenda psicologica e tematica del film; il dialogo fra il debole Picasso e la moglie piangente potrebbe disturbare un po' per il suo tono lacrimevole; ma ormai sappiamo che anch'esso è voluto, e vi riconosciamo un rigore che a prima vista esso non aveva. Anche la successione delle scene, dalla banale partenza di Roberto, al pianto di Iris, alla solitudine di Augusto, invitato allegramente, nella solita piazza deserta, dalle solite prostitute, ripropone molto opportunamente, con naturalezza, la stessa struttura dell'intero film. Davvero, alla luce dell'intero, appaiono spesso spunti felici nei singoli episodi.

La notte di Capodanno segna una svolta nella vicenda; svolta relativa, poiché in pratica ogni episodio costituisce un inesorabile approssimarsi alla crisi finale, ed attenuata anche dal parallelismo strutturale dei vari episodi; ma psicologicamente sottolineata dalla conclusione, più esplicita delle precedenti, e dal netto mutamento di tono del bidone successivo, in cui proprio Roberto, il futile e incapace Roberto, appena svergognato da Rinaldo, diventa il capo e organizzatore del colpo, cui gli altri due obbediscono, nonostante i propositi precedenti. A casa di Rinaldo viene riassunto ancora una volta, con particolare estro creativo e senza artificiose sottolineature, l'intero significato del film ed anche ciò che la conclusione annunzia soltanto: c'è il fallimento professionale dei tre bidonisti, e c'è anche la condanna, non solo moralista, della vita dei bidonisti in generale, anche se arricchiti, come Rinaldo; la condanna morale è espressa dagli sguardi di Iris, in modo più riuscito ancora di quanto non appaia nella conclusione, che invece rischia il patetico; ma c'è anche una condanna più radicale, autentica, che nasce dalla contemplazione, da parte di Fellini, ma a volte almeno inconsciamente anche di Augusto, dello stridente ammasso di alienazioni meschine: anticipo di quell'esigenza di spiritualità autentica che emergerà nella conclusione, ed anche del disperato riprecipitare di Augusto che pur la intravede, anche qui, ma che fin d'ora si ostina ad inseguire un successo di bidonista in cui ormai spera poco e che soprattutto ritiene ormai futile. Ma a tutto questo, che viene detto nell'arco del film, si aggiunge qui un'ulteriore riassunzione di tutte quelle alienazioni, in una amorosa accettazione totale di tutto, perché tutto fa parte della vita: lo si ritrova in numerose immagini, che spesso proprio attraverso l'esasperata deformazione fisica o morale ritrovano una loro precisa verità di vita: non sono più solo maschere, o simboli, o creazioni fantastiche, bensì evidenti riproduzioni di persone reali: quell'uomo scimmiesco che balla con Iris, o l'enorme femmina tutto sesso (poi Fellini troverà Anita Ekberg), o la stupidità della belloccia che vuole tentare un concorso di-bellezza, sono assurdi ma verissimi, ed è evidente che si tratta di pittura dal vero; è proprio questa loro verità di vita, che si ritrova in ogni personaggio, in ogni fatto, in ogni scena di questa festa, che giustifica quel fondo di gioioso recupero che la sottende, e che, ritrovato in ogni particolare espressivo, segna il netto progresso del film rispetto ai precedenti ed un anticipo del felliniano stile più maturo, de La dolce vita. Se come netto ritrovamento nel senso della spiritualità, ad un livello superiore a quello etico, il film si solleva più in alto, forse, dello stesso , come ritrovamento del senso della vita anche nelle alienazioni - che è un fondamento dell'arte felliniana, ma di difficile formulazione espressiva - solo questa scena costituisce un netto anche se implicito approfondimento; mentre, come si è detto, l'intero film ne costituisce solo un premessa, in una prospettiva che resta ancora in negativo.

Con la conclusione dell'episodio, e soprattutto con l'episodio successivo del furto ai benzinai, il film cala nettamente di tono: resta rigorosa la progressione strutturale, psicologica e tematica; ma è una progressione razionale, o banalmente sentimentale, che non sa ritrovare una felice espressione artistica. Ne sono evidenti - ed emergono già dall'analisi precedente - i valori strutturali; mentre la resa figurativa è riuscita soprattutto per quello che ha di comune con I vitelloni; le novità, le osservazioni particolari sulle tre psicologie, indagate esplicitamente nella lunga conclusione dell'episodio, sono precise e si mantengono ad un livello espressivo decoroso, ma senza colpi d'ala e semmai con cedimenti retorici (il facile simbolismo della pioggia purificatrice su Picasso che lascia i compagni).

La stessa cosa può dirsi per l'episodio successivo, dell'incontro con la figlia Patrizia, in cui l'unica osservazione di rilievo è il modo ambiguo con cui Augusto si riavvicina alla figlia Patrizia, per far bella figura, per il piacere di far credere a lei, promettendole un aiuto economico, ed agli altri, facendosi vedere a spasso con lei che è diventata una bella ragazza, una propria riuscita di bidonista: il richiamo all'etica è appena .accennato, per lo spettatore che lo esige (e che riceverà con maggior dolore, a conclusione del film, la mazzata dietro la schiena), ma inesistente per Augusto che da un lato lo supera perché ne riconosce l'insufficienza (ma per ora questo aspetto non è reso in modo sufficiente, se non per il dialogo precedente o alla luce della conclusione) e dall'altro lato lo rifiuta per restare radicato ai suoi moventi "professionali".

Dalla conclusione si è già detto abbastanza in precedenza. Si può ancora notare - rilievo che non aggiunge nulla al valore artistico della conclusione, di cui costituisce semmai un artificioso raffreddamento; ma che ne approfondisce l'importanza tematica - l'accostamento ultimo fra Augusto ormai precipitato nella più nera miseria e percosso dai compagni fino a non poter più camminare e la paralitica. Il confronto, che pare confermato dall'altro richiamo alla paralitica da parte dei contadini che passano per la via, è pleonastico e, anche se non esplicito, acquista un sapore retorico; tuttavia, accompagnato dalla faticosa ascesa dell'ormai invalido Augusto, che risale a vedere i contadini che passano e le montagne innevate, suggerisce lo sforzo necessario per raggiungere la spiritualità, e propone anche la necessità dell'infermità, del dolore, della miseria materiale, per raggiungere la ricchezza spirituale. Il tema, per ora, si presenta un po' come un immeschinimento del "beati i poveri", di cui pure il film ha già espresso in modo sicuro il senso più elevato, di spirituale di­stacco dal mondo che prelude ad un recupero totale di es­so (secondo l'esatta formulazione: "beati i poveri in spirito"); immeschinimento assai diffuso, che può trovare un riscontro nell'istintiva simpatia di Fellini per i poveri (e che ritorna, con maggiore insistenza e consapevolezza, e perciò più pesantemente, in Pasolini), e che ha un pa­rallelo nell'altra deformazione della stessa beatitudine, forse ancora più diffusa ed anch'essa in precedenza sfio­rata da Fellini: quella del "beati i poveri di spirito", che lo porta a trovare suggestioni di spiritualità (ma pur solo suggestioni, quasi simboliche) nello scemo Giu­dizio de I vitelloni o - più nettamente, perché in forma più umana --nel candore di Gelsomina. Solo alla luce delle chiarificazioni di Giulietta, ed anche del buon senso, apparirà chiaro che qui non si tratta della necessità della miseria materiale per un recupero della vita (semmai essa costituisce solo un aiuto; o forse addirittura si vuol indicare che non grazie alla miseria, bensì anche in essa si può arrivare alla spiritualità: la stessa ambiguità si manterrà ancora in Le notti di Cabiria; poi il pro­blema verrà abbandonato, come inessenziale, prima ancora di esser posto con lucidità e perciò senza trovare una soluzione): si tratta piuttosto del recupero di ogni cosa, del male materiale come anche dell'abbrutimento spirituale, alla luce del senso della vita ormai raggiunto: solo in questo senso anche il male diventa "essenziale" in es­sa; ma comunque mai "fondamentale", come qui si potrebbe intendere (cfr. l'analisi di ).

 

 

 

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati