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ALLA RICERCA DI FELLINI: Roma (seconda parte)
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(continua)

 

Occorre piuttosto precisare, sullo spunto della parola «storico» cadutami or ora dalla penna, sia pure con la riserva espressa dalle virgolette, che a Fellini non interessa affatto, almeno esplicitamente, un'osservazione storica, nel senso usuale della parola. Anzi, semmai si oppone ad ogni visione storica della realtà, in quanto riconosce sempre, in ogni momento, la stessa possibilità di vita autentica; e poiché per lui autenticità significa spiritualità, nel senso di capacità di elevarsi almeno parzialmente al di sopra della mondanità per superare ogni alienazione particolare (appunto «storica»; ma per non ripetermi ulteriormente rinvio, per chiarire questi riferimenti, a quanto ho già detto in generale su Fellini e poi su Il bidone e su , che sono i film che più nettamente impongono tali considerazioni, è chiaro che per cogliere l'aspetto essenziale della vita occorre superare la storicità. Né si tratta di semplice illazione intellettuale di critico che tende a «giustificare» razionalmente la posizione felliniana, poiché già Satyricon indicava in modo esplicito la costanza dei caratteri essenziali della vita e la presenza, anche in una Roma antica «scientificamente» ricostruita, di tanti aspetti della vita contemporanea; ed in Roma è esplicito il parallelismo fra la vita antica conservata negli affreschi e quella attuale, oppure l'analogia fra il ristorante del 1943 e quelli del 1972 e fra le minacce fasciste di allora e quelle di oggi. Le immagini del passato, dunque, non «mascherano dietro i puntig1iosi e saporosi riferimenti" storici" la più assoluta indifferenza per la storia», ma al contrario sottolineano esplicitamente questa «indifferenza», motivata da quell'esigenza fondamentale di cogliere l'aspetto costante dell'umanità che si è detto. Con tutto ciò resta possibile parlare, in qualche modo particolare, di «storicità» di Fellini: anzitutto per la felice capacità sua di cogliere dal vivo gli aspetti visivi più tipici della società in ogni suo momento, da quelli più esteriori e più rapidamente transeunti (ma non per questo riducibili a cronaca, bensì a storia dettagliata del periodo breve) ad altri più radicati all'intera epoca «borghese»; ma anche per la sicurezza con cui egli sa individuare certe associazioni e connessioni ideologiche o pratiche fra vari elementi che caratterizzano la dinamica storica odierna: certamente non li coglie tutti, né li esprime teoricamente (anche in questo senso può ancora richiamarsi al suo diritto di fare solo ciò che gli è «congeniale»: abbocchiamo volentieri anche noi all'amo da lui gettato con palese intenzione ironica per far battibeccare i critici attorno alla sua affermazione: serva anche questo a ritrovare, in quella frase, un simbolo della vasta poliva1enza del film). ma, come già a proposito di Giulietta degli spiriti abbiamo rilevato i netti riferimenti figurativi alla secessione viennese ed alla connessione che essa già esprimeva fra la retorica religiosa e l'alienazione sessuale della borghesia, così ora non si può non riconoscere la validità dell'osservazione (non nuova, certamente; ma colta vigorosamente nei fatti quotidiani) delle connessioni esistenti fra la retorica imperiale e quella della gerarchia ecclesiastica, cui resta collegata, ma ormai in forma parentetica dopo le esplicite considerazioni di Giulietta degli spiriti. l'alienazione sessuale; oppure le altre connessioni (non solo non nuove, ma addirittura teorizzate dal fascismo fin dal suo sorgere) fra il cesaropapismo fascista ed il culto dello sport, della violenza, del «progresso» affidato alle macchine.

 

Ma prima di affrontare queste analisi, che riguardano direttamente l'impostazione tematica del film, occorre ancora verificare quei due altri aspetti autobiografici cui si è accennato all'inizio di questo paragrafo. Uno di questi è l'aspetto antologico, che ha fatto parlare i soliti lettori superficiali di «riassunti del riassunto», senza notare tutto quello che c'è di nuovo in Roma, né il senso (i tanti sensi) che nel film assume anche il recupero di ciò che era stato detto in precedenza. Non mi riferisco qui al fatto ovvio che Fellini, come qualunque altro vero artista, approfondisca sempre più l'arte sua anziché tentare ecletticamente tutte le vie, e perciò «ripeta» (ma più che ripetizione è sviluppo e perfezionamento) temi, immagini e modi espressivi dei suoi film precedenti: solo chi non è artista riesce a non ripetersi in questo senso; oppure accade che chi ha doti di narratore possa in pratica mascherare al lettore superficiale la sostanziale costanza dell'arte sua sotto l'esteriore rinnovamento delle vicende narrative. Fellini «narra» poco (anche se ha dimostrato spesso, sia pur solo episodicamente, di saperlo fare da artista: come in Cabiria o in tutte le pagine narrative di Giulietta) e perciò rivela più esplicitamente la costanza di fondo della sua arte. Ma in Roma la ripetizione è anche più formale e più dichiarata; ed è a questo aspetto che ci riferiamo parlando di aspetto antologico del film: si tratta di episodi o di accorgimenti stilistici esplicitamente recuperati da film precedenti. Ma ciò che in questi era forma espositiva ora diventa contenuto, e ciò che allora era «contenuto» tematico o narrativo, ora diventa contenuto alla seconda potenza: Roma narra la vicenda esistenziale e artistica dell'autore (come unica vicenda: si tenga presente quanto già detto sulle varie identificazioni già proposte a livello di struttura) e pertanto esige il ricorso antologico ai film precedenti; d'altra parte Roma è contemporaneamente un film direttamente su Roma e sulla vita (ossia non più, in quest'altro senso, attraverso la mediazione del regista), ed infine è la coincidenza tra l'osservazione immediata e quella mediata dalla vita e dall'attività del regista: sicché lo stesso florilegio non si presenta più come una raccolta rapsodica e fedelmente documentaria di brani già scritti, ma come organico rifacimento odierno di una osservazione diretta della realtà: altra po1iva1enza del film. Non solo, ma la ripresa di brani precedenti serve proprio, paradossalmente, a sottolineare la novità del modo di vedere di oggi rispetto a quello di ieri, oltre che la costanza di certi elementi soprattutto di contenuto oggettivo: schematizzando si può dire che per Fellini la vita, ieri come oggi, è un oscillare costante tra realizzazioni autentiche e tentazioni alienanti, solo che ieri l'autore poneva l'accento più sugli aspetti alienanti, ed era interessato dai problemi personali, mentre oggi coglie (ha imparato a riconoscere e ad esprimere) soprattutto gli elementi autentici e guarda soprattutto alle manifestazioni collettive. La distinzione è indubbiamente semplicistica ed è chiaro da quanto detto finora che va ulteriormente sfaccettata e sotto certi aspetti anche capovolta (abbiamo già notato, per esempio, come proprio Roma raggiunga un massimo di individuazione dei singoli personaggi della «folla»), ma in generale i riferimenti più precisi ai film precedenti sono posti sotto il segno di questo mutamento, e spesso sembrano addirittura voler modificare la prospettiva di quelli e rintracciarvi annunzi di quella nuova. E' vistoso, in particolare, il recupero che lo spettacolo della Barrafonda fa del primo film, Luci del varietà, diretto in collaborazione con Lattuada, e ne sono significative le varianti: allora come adesso il pubblico si entusiasma di più per le canzoni che per le gambe, che lo fanno soprattutto ridere e scherzare, quasi solo per adeguarsi ad un comportamento imposto da tacite convenzioni (si pensi al lancio della protagonista Liliana, in cui le gambe hanno indubbiamente la loro parte, ma è la canzone «Ho visto un bel muchacho» che la impone, perfino a livello di immagine visiva, oltre che sonora; allo stesso modo, ora, il trio Pisa con le sue canzoni di successo conquista il pubblico, mentre le ballerine ottengono solo convenzionali ammirazioni formali che dimostrano la sostanziale inautenticità di quelle fittizie esposizioni «sessuali»). In entrambi gli episodi, poi, ciò che predomina è la netta prevalenza della vita sulla finzione teatrale: prevalenza che la rivista di varietà consente molto più che non il teatro o lo stesso cinematografo. Avevamo già rilevato ripetutamente questo fatto; ma in Roma esso diventa più esplicito che mai, e la ripresa di episodi da film precedenti sottolinea il senso che essi già avevano: il teatro ed il cinema incantano anche quando sono scadenti e retorici, perché propongono una partecipazione totale ad una realtà fittizia: il «commendatore» che «ieri sera ci ha fatto piangere tutti» nella retorica rappresentazione della morte di Cesare o il quadro della famiglia di Fellini bambino estasiata davanti alla conclusione fumettistica del film storico sulla Roma imperiale ripetono - con una cattiveria ormai solo, e volutamente, rievocata, in «riassunto», per le ragioni che abbiamo viste - l'entusiasmo di Wanda per lo sceicco bianco e quello di Sandra che perde di vista la fuga reale del suo marito vitellone per abbandonarsi alla finzione filmica. Ma ora il prontissimo recupero del senso della realtà, per precipitarsi alla caccia di un posto a sedere, restituisce, pur nella stilizzazione ironica, un maggior senso della realtà a questa famiglia non più totalmente mitizzata; così come subito dopo, di fronte all'immarcescibile entusiasmo dell'Urbe, proclamato dal cinegiornale, si preferisce riandare ad altri tipi di associazioni «storiche», fantasticando sulla moglie del farmacista, nuova Messalina, e sui suoi togati amanti. Lo stesso smorzamento dei toni derisori nei confronti delle alienazioni si ritrova in tutti i confronti con le pagine analoghe dei fi1ms precedenti; mentre quelle che si rifanno ad episodi drammatici propongono un analogo smorzamento del dramma ed una riduzione, quasi, a folklore: dall'insuccesso del fantasista che ripete quello del «fantasista internazionale Checco Dalmonte» di Luci del varietà al giovane spettatore che viene sorpreso e fermato mentre tenta di uscire dal teatro, come già Augusto ne Il bidone. L'attenuazione dei toni è legata a quella posizione di contenuto alla seconda potenza che abbiamo rilevato nell'aspetto antologico di Roma e trova un riflesso, ancora una volta, nell'ambiguità della struttura che si propone come film filmato, accentuando il distacco dai contenuti, e che d'altra parte proprio presentando il film come filmato riporta l'accento sulla vita, rispetto al film che la riproduce. Anche qui dunque è possibile applicare quanto abbiamo visto sulla compatta poliedricità della struttura del film.

 

E' ormai facile comprendere il senso di ogni altro «recupero» di episodi precedenti e delle tante variazioni sulle «simpatie figurative» che hanno accompagnato tutta la produzione felliniana: piazze e strade deserte di notte, ma ormai senza le solite «confessioni» disperate; fontane e monumenti da cartolina, ma appena accennate, in polemiche carrellate sui luoghi tipici che non deridono più le alienazioni individuali bensì introducono un discorso più vasto, politico e sociale; ecc. Sono confronti e osservazioni che possono esser lasciate facilmente come «esercizio» al lettore.

 

Resta, come ultimo aspetto dell'autobiografismo di Roma, la confessione-rinnegamento-riassunzione di alcune forme stilistiche care a Fellini: quelle atmosfere sentimentali o kafki3ne che abbiamo già rilevato proprio in immagini prudentemente presentate come film in fieri, come casuali proposte dell'operatore, e che tuttavia sono state caratteristiche di Fellini fin dal suo primo film. Il «sentimentale» esprime un po' le alienazioni individuali di tipo fumettistico, che hanno trovato la loro formulazione più tipica nell'incontro di Wanda con lo sceicco bianco ma che, in forme appena differenti, avevano servito altre volte allo stesso Fellini per esprimere la sua aspirazione all'autenticità; è vero che riconosceva la sterilità di queste aspirazioni puramente velleitarie perché a loro volta mistificate, ma subito dopo Giulietta poteva raggiungere una forma di vita autentica anche attraverso una mentalità fumettistica in modo esasperato; finche ora Fellini conclude la parabola nel senso già indicato, riconoscendo una certa dignità artistica anche alle immagini «da cartolina» dopo aver riconosciuto il diritto alla vita anche alla mentalità «da fotoromanzo». Tuttavia resta anche quel ritegno che già si è detto, per cui l'immagine appare sì, ma non firmata ed anzi derisa, confessata come una propria debolezza cui ora non vuole più indulgere - e ambiguamente, proprio così, lo fa ancora -. Un discorso analogo può esser fatto anche per le atmosfere «kafkiane», anch'esse costanti nei film precedenti, che sembrano esprimere l'assillo, sull'individuo, delle mistificazioni collettive, traducendo nell'incombenza di anonime architetture disumananti (ora in un'interminabile tunnel metropolitano, brulicante di macchine mostruose, in cui gli uomini sembrano impotenti e l'arte si dissolve) il senso della violenza esercitata dalla società, nelle sue devitalizzanti imposizioni di ordine, sull'individuo. Già nelle vaste architetture della sede di Polizia in cui si è recato Ivan ne Lo sceicco bianco si coglieva lo stesso collegamento fra queste forme alienanti e la «macchina» burocratica, che Roma sottolinea ora in modo esplicito. Agli effetti dell'arte la posizione di Fellini di fronte a questi due tipi diversi di atmosfera è evidentemente analoga, e ne abbiamo già detto anche in rapporto alla struttura del film; rispetto alla vita, invece, ed alla tematica antifascista di questo film in particolare, sembrerebbe che si tratti di due posizioni diverse, dal momento che la prima riguarda qualche alienazione personale mentre la seconda si presenta come «denuncia», generalmente drammatica, delle alienazioni collettive. Eppure in questo senso entrambe possono venir recuperate (si è già detto del raggiunto recupero delle alienazioni personali, a livello tematico, in quanto componenti esse stesse della vita), mentre si ritrova in entrambe un altro senso, reso esplicito proprio dalla tematica di questo film, per cui vanno rifiutate o almeno riviste criticamente: infatti le immagini del tunnel, viste in se stesse, possono condurre - soprattutto in quanto efficaci, «belle» - ad un pericoloso compiacimento che può invo1gere la stessa atmosfera futuristica, di predominio delle macchine e di imposizione di un ordine nuovo, anonimo, meccanico, che già le ha generate. Anche le immagini del parco, nonostante una certa apparenza idillica, ed anzi proprio nello sforzo di sublimarla in valori d'arte, restano imprigionate in un ordine innaturale: si veda nei dettagli quella «carrellata» in alto che coglie in rigorosa simmetria numerosi piani sovrapposti di «verde», inizialmente fusi insieme e poi sempre più scomposti e quasi sezionati: dall'albero in primo piano, al centro dell'immagine, al vasto bosco che gli fa da sfondo e ne sottolinea la centralità, mentre dietro, sempre rigorosamente al centro del primo albero, si erge un cipresso geometrico, cui, in un quarto piano di profondità, fornisce due ali simmetriche un pino marittimo a sua volta centrato; infine, dietro a tutto questo bell'ordine verdeggiante, con l'ulteriore elevarsi della cinepresa, si celebra un omaggio pacchiano alla Roma da cartolina turistica che appare finalmente sullo sfondo. Non nego una sua - minima - bellezza a quest'immagine (del resto penso che, per trovarla, Fellini debba aver girato assai), ma il lettore attento e sensibile avrà certamente, vedendo1a, anticipato le preoccupazioni espresse poco dopo dagli studenti che temono di ritrovare ancora una volta la solita Roma premiabile dal ministero per il turismo; ed avrà certamente respirato di sollievo vedendo, subito dopo, l'immagine demistificante dell'operatore che l'ha proposta e poi la voce ironica di Fellini che - ignaro di tutto !!? - vuol sapere che cosa egli veda.

 

D'accordo, dunque, sul parziale recupero di certi gusti personali o di una certa mentalità o di certe forme espressive; ma l'ambiguità di tale recupero trova un'ultima motivazione, che è opportuno rilevare proprio ora, alle soglie dell'analisi che dobbiamo intraprendere della tematica antifascista del film, nella minaccia costituita da ogni forma di ordine e particolarmente da quelle esaltanti una mistificata partecipazione per una natura ridotta a cartolina oppure un allucinato entusiasmo per un futuro dominato dalla tecnica e dal culto per il «progresso».

 

*    *    *

 

E' facile, alla luce di Roma, ritrovare in tutti i film precedenti di Fellini numerosi cenni polemici che ora vengono raccolti e unificati in una precisa tematica antifascista ed in generale antiautoritaria ed antitradizionalista, più che antiborghese come invece poteva apparire in precedenza. Ma in precedenza si trattava solo di cenni, così dispersi, in un'arte che, nella sua essenza, resta anche in Roma fondamentalmente disimpegnata, che molti lettori non l'hanno rilevata in passato ed hanno interpretato come accidentali o addirittura opportunistici e non sentiti né coerenti all'arte felliniana i più espliciti riferimenti dell'ultimo film. Del resto occorre subito dire che la complessa polemica che già trapela dall'intera produzione felliniana, e che si impone in Roma, è condotta in nome di esigenze (non si può neppur dire - almeno per quanto risulta dai film - di un'ideologia o anche solo di precise idee politiche e sociali) praticamente abbastanza vaghe e utopistiche: è ovvio che la maggior parte della critica impegnata non possa condividerle, e ciò spiega il fatto che questa abbia finito per trascurare completamente la tematica politica felliniana, anche nei suoi espliciti riferimenti polemici che pure essa avrebbe potuto utilmente sottolineare e sottoscrivere. Cercheremo perciò anzitutto, partendo dal «mondo» felliniano, come già lo abbiamo analizzato in generale e come ora l'abbiamo ritrovato nel film Roma, di ricostruire brevemente l'origine di quelle esigenze genericamente politiche e sociali che a loro volta determinano la precisa tematica dell'ultimo film; coglieremo poi alcuni dei molteplici nessi logici e storici che collegano tra loro i numerosi elementi polemici del film, e ne rintracceremo alcune indicative anticipazioni nei fi1ms precedenti; infine dovremo anche dilungarci in noiose rilevazioni pratiche di tali tema ti che nel film Roma, dal momento che troppo spesso esse sono state negate o trascurate o almeno considerate inessenziali e solo saltuarie nell'economia del film. Infine, per quel che riguarda la validità artistica di queste pagine polemiche, a parte quanto già abbiamo accennato finora e quanto emergerà a proposito della coerenza di esse al mondo felliniano ed alla struttura di Roma in particolare, coglieremo alcuni efficaci momenti espressivi, nella conclusiva analisi dettagliata del film: a cui rinvio anche per ulteriori confronti con film precedenti e per l'individuazione di altri aspetti tematici. Ma soprattutto, anche a questo proposito, vale l'avvertenza già fatta in precedenza sulla necessaria incompletezza di ogni lavoro critico che concerna un'opera complessa e compatta: il lettore dovrà ogni volta integrarlo con osservazioni personali, ad ogni rilettura del film.  

 

Se si vuole esprimere con un'etichetta la posizione politica che emerge dall'opera felliniana e dalla sua «concezione del mondo» si deve usare la parola «anarchico». Ma ho già detto che essa, almeno per quel che risulta dal film, non corrisponde a precise scelte politiche: come artista, Fellini vede il mondo intero come una vasta sinfonia generata spontaneamente dall'armonioso accordarsi di infinite individualità diverse, che trovano in se stesse il loro senso ed i loro vincoli, senza bisogno di norme esteriori; ma ciò non significa che il regista esiga, anche come uomo, l'abolizione non solo di ogni norma e forza coercitiva ma anche di ogni governo (si è già accennato sotto altri aspetti alla dicotomia tra l'uomo e l'artista che emerge dal film Roma e che in esso viene solo parzialmente ed ambiguamente risolta). C'è piuttosto da pensare il contrario, dal momento che anche nella sua visione di artista l'autenticità della vita è costantemente messa in pericolo: in molti momenti essa si presenta come un ideale utopistico cui l'uomo riesce solo ad avvicinarsi; in altri momenti essa si presenta invece come realizzata - in Roma anche a livello collettivo -, ma sempre in modo instabile, come continua conquista contro i pericoli delle alienazioni e della mistificazione; sicché non c'è completa fiducia, in pratica, in quell'armoniosa e spontanea autenticità che pure l'artista sa cogliere ovunque. E tuttavia il pericolo maggiore viene proprio dalle minacce di «ordine» imposto dall'esterno e perciò devitalizzante e allucinante nella sua anonima violenza.

 

Abbiamo già avuto occasione di sottolineare ne Le notti di Cabiria quello che è forse l'aspetto più tipico dell'arte felliniana, che nella prima scena della Passeggiata Archeologica di quel film trova la sua prima espressione matura, ma che affonda le sue radici fin nel primo film, Luci del varietà (per esempio nelle prove per la rivista progettata da Checco Dalmonte ed in modo diverso, più complesso e più felice, anche se più esplicito, nella lunga passeggiata notturna del protagonista per le strade di Roma) e che trova in ed in Roma le sue espressioni più complete: si tratta di un modo di composizione simile a quello dei «combo» del jazz, in cui i singoli solisti improvvisano continuamente, in un apparente trionfo di libertà estrosa slegata da ogni vincolo, ed in cui tuttavia l'insieme della composizione resta caratterizzato da un'unità di ispirazione e da un preciso compenetrarsi delle varie voci che non ha nulla da invidiare alla musica sinfonica classica. E' bensì vero che già proprio nel primo film gli scontri fra il musicista negro e quello slavo, concluso in un ostinato ripetersi di note dissonanti, aveva messo in rilievo i pericoli dell'individualismo non controllato; ma, a parte le esigenze stilistiche e narrative di quella scena delle prove generali per la rivista, risultava anche in essa una certa bellezza armoniosa in quell'intrecciarsi di libere individualità (il risultato musicale vi era disastroso; ma il risultato cinematografico, cui ovviamente, in un'opera filmica, è affidata l'espressione del mondo poetico dell'autore, era di un'armoniosità complessa ma sicura, anticipatrice della maggiore arte felliniana); e comunque, con il successivo chiarirsi della tematica felliniana (cfr. soprattutto, per questo, l'analisi che ho fatto de Il bidone), si precisa ulteriormente il senso e le condizioni di possibilità di un'armoniosa convivenza di differenti individualità.

 

Nel combo l'unità nasce dal fatto che i vari musicisti, pur nelle loro personalità a volte diversissime fra loro, hanno in comune il senso della musica ed un intimo bisogno di armonizzare la propria espressione con quella degli altri, lasciando ad altri la possibilità di prevalere o di librarsi in «a solo» in certi momenti, per compensare la stessa possibilità che ognuno chiede in altri momenti per sé: l'educazione alla libertà ne è alla base assieme all'educazione complementare alla socia1ità, alla comprensione ed al rispetto degli altri e della loro libertà. E' ovvio che con questo non intendo cogliere le caratteristiche «specifiche» del combo; ma sono questi alcuni aspetti del jazz che tornano anche nello stile cinematografico di Fellini (e la simpatia di Fellini per il jazz, ed in particolare per questi suoi aspetti, sembra abbastanza documentata dai lunghi episodi citati di Luci del varietà e dall'arrivo della banda negra che introduce il leit-motiv musicale de Le tentazioni del dottor Antonio). Tali aspetti trovano un corrispettivo di fondo nella tematica che Fellini è andato precisando nel corso della sua produzione (cfr. ancora le analisi de La strada, Il bidone, ): per realizzare la vita autentica, l'uomo deve saper raggiungere la «spiritualità», nel senso di elevarsi al di sopra del suo hic et nunc mondano per cogliere (in fondo con animo d'artista, anche se dell'artista mancano le capacità espressive) il senso totale della vita e superare con ciò ogni alienazione per vivere spontaneamente in sintonia con il tutto. Ne La strada ciò era ancora legato all'esigenza di incontrare (o «convertire») un altro essere umano con cui «comunicare»; poi Giulietta scoprì la possibilità di vivere autenticamente, nel senso detto, anche nella più totale assenza di altri esseri «spirituali»: la comunicazione avviene ugualmente, con il tutto; infine ora c'è la consapevolezza che, almeno a livello istintivo, tale spiritualità è assai diffusa, soprattutto fra i semplici; e che perciò è possibile anche trovare un'intera società che viva autenticamente: Roma ne è un esempio, soprattutto - ma non soltanto - nei suoi ceti più popolari.

 

I punti fermi di base, per tale possibilità, sono il senso spirituale della vita e, come conseguenza, il superamento di ogni forma di alienazione individuale: sono queste che tolgono serenità e libertà all'individuo, ed insieme lo spingono a trascurare le libertà altrui, a non riconoscere e rispettare le altre persone. Inutile ripetere qui le considerazioni già fatte in generale sulle alienazioni colte e derise da Fellini (del resto è questo uno dei suoi aspetti più vistosi, e perciò più noti). Ciò che preme è riconoscere il fatto che una società che abbia superato le alienazioni può vivere autenticamente senza bisogno di costrizioni esterne, per spontanea armonizzazione dei singoli individui; il tutto ottenuto grazie ad un atteggiamento «spirituale» nel senso detto. Tale atteggiamento è «capito» faticosamente, attraverso un lungo processo di chiarificazione, dal regista Fellini che deve esprimerlo (processo descritto in ); ma è sentito istintivamente e spontaneamente dall'uomo vivente (a parte lo sforzo eventualmente necessario, per esempio per Giulietta, per mantenerlo o recuperarlo in circostanze difficili), senza bisogno di chiarirlo ideologicamente: forse il tono ambiguo, ed artisticamente poco convincente, delle ultime parole di Guido in , nasce dalla difficoltà di conciliare a livello espressivo l'aspetto istintivo con cui l'uomo Guido recupera il senso della vita e l'aspetto riflesso con cui esso viene compreso dal regista Guido-Fellini; solo in Roma l'ambiguità strutturale e narrativa assunta dalla figura di Fellini acquista una precisa e coerente funzione espressiva in questo senso: l'aspetto istintivo con cui l'uomo Fellini vive anche la sua attività registica si concilia ormai pienamente, attraverso la presentazione ironica che egli fa di se stesso, con la consapevolezza critica del proprio atteggiamento e della propria funzione. Ciò spiega anche il fatto che le polemiche felliniane, anche quelle generate da precise considerazioni tematiche (rilevabili con sicurezza ad una attenta lettura critica), sono sempre implicite, presentate senza sottolineature e senza apparenti connessioni ideologiche, e perciò recepibili solo a livello istintivo dallo spettatore normale: poiché è questo che conta, per Fellini; e non una astratta comprensione teorica.

 

In realtà però le connessioni ci sono, e generalmente assai valide: sia come concatenazione concettuale sia come indagine storica sulla situazione italiana di oggi (e più generalmente sulla mentalità borghese). Anzitutto, se è possibile un'istintiva spiritualità collettiva per realizzare una società viva, spontaneamente armonica, appare chiara la funzione dell'artista, già espressa in Satyricon e che abbiamo già delineato: non solo l'arte è tale solo se coglie la vita autentica, ma l'artista, cogliendola, realizza anche uno scopo «umano» (parziale soluzione della dicotomia indicata) presentando in modi festosi ogni forma di vita, sferzando le alienazioni che la impediscono e rilevando i pericoli insiti nella società contemporanea (la dicotomia resta a questo ultimo livello, poiché l'artista tende a recuperare la positività anche di questi elementi negativi che l'uomo deve solo denunciare): in tal modo si concilia sostanzialmente (a parte, cioè, il rilievo appena fatto) l'ideale di purezza dell'arte («arte per l'arte») che spinge l'artista a difendere il suo diritto a fare solo ciò che gli è «congeniale», e l'ideale pratico dell'uomo («arte per la vita») che vorrebbe vedere un'arte funzionale: proprio quando l'arte esprime con pienezza la vita - senza di che non è arte - assolve ad un preciso compito « educativo» popolare, squisitamente « morale»; la stessa tradizionale formulazione dell'opposizione fra le due poetiche (per l'arte o per la vita) appare priva di senso nel mondo felliniano.

 

Come l'arte, proprio in quanto tale, cogliendo la vita diventa educativa, così la scuola stessa, la cui funzione educativa è, almeno teoricamente, da tutti condivisa, può esser tale solo cogliendo la vita. In tal modo Fellini ci reintroduce, per vie diverse, fin dall'inizio del film, in quella che è la tematica centrale di esso e che abbiamo già visto imporsi per altre vie come essenziale al suo mondo. Infatti la descrizione, ormai solo ironica e quasi gioiosa, priva dell'astiosa polemica di altri film, dei metodi e dei programmi scolastici italiani della giovinezza dell'autore ma anche di oggi, ripropone il tema delle alienazioni individuali, già tipico dell'autore. e lo inserisce nel contesto più vasto e più pericoloso delle mistificazioni collettive che impediscono la vita sociale organizzandosi in un complesso di «violenze» ideologiche, economiche, fisiche, morali, culturali ecc, significativamente precisato come «ordine ». Fellini coglie infatti con lucidità quell'identificazione che a volte sfugge al senso comune e comunque appare come contraddittoria, fra la pretesa di «ordine» e l'uso incondizionato della violenza: non è raro il caso di storici o politici non del tutto superficiali che interpretano l'attività sovversiva dei gruppuscoli di estrema destra come semplice strumentalizzazione provvisoria che serva a indurre la parte più ingenua (e forse più numerosa) della popolazione a scegliere un «partito dell'ordine»; in Fellini invece era già implicita fin dall'inizio, ed in Roma viene colta concretamente in modo inequivocabile, una connessione più profonda, non provvisoria né semplicemente strategica: l'ordine stesso, in quanto tale (cioè anche, ma non soltanto, in quanto imposizione) è violenza, ed è ovvio che di altre violenze si serva.

 

E' questa la ragione di fondo per cui anche la critica impegnata di sinistra rifiuta ogni valore politico alla cinematografia di Fellini e la relega nel limbo dell'arte « borghese»: perchè ad essa è rigorosamente estraneo il concetto di lotta di classe, o di impegno sociale come rivendicazione di un potere economico o politico che, per quanto «giusto», è sempre inessenziale alla vita ed anzi, capovolgendo i termini e mantenendosi nell'ambito dei rapporti di forza o di potere, continua, a ben guardare, uno stesso discorso di «ordine», e quindi ancora di violenza. E' evidente da sempre, in Fellini, la simpatia per gli strati più bassi della società; ma non per questioni di giustizia, bensì per ragioni di vita: essi appaiono meno alienati, più vivi. Non a caso proprio ora che ha raggiunto una piena maturità espressiva e sa cogliere con sicurezza l'autenticità della vita egli è tornato alla descrizione delle masse popolari, cui aveva rinunciato quando, incapace di coglierla (forse perché non aveva ancora chiarito a se stesso come intenderla), finiva per confonderla con istanze etiche sostanzialmente alienanti (cfr. l'analisi de La strada): si pensi come ancora ne Le tentazioni del dottor Antonio, che già sembra esteriormente anticipare l'impostazione descrittiva di Roma nella scena degli operai che montano il cartellone di Anita, in pratica i risultati siano spesso di facile e superficiale fo1klorismo; è vero che un confronto oggettivo ritrova lo stesso atteggiamento in entrambi i film, per quel che riguarda le masse popolari, ma è anche ovvio che per comprendere un'opera d'arte occorre guardare più alla riuscita espressiva che non ai particolari oggettivi; e quella soltanto in Roma arriva a dare pienamente il senso festoso della vita come libertà. Prima in Fellini la simpatia per i «poveri» poteva far pensare ad un falso rimpianto per una condizione umana sostanzialmente privilegiata, proprio perché libera dai condizionamenti legati alla ricchezza ed al benessere sociale; in realtà tale prospettiva di comodo, strettamente legata ad una mentalità conservatrice, non è mai stata condivisa da Fellini, ed il sospetto poteva nascere solo a causa della difficoltà espressiva dell'assunto. In Roma, finalmente, esso viene realizzato in pieno: non c'è più folklore «popolare», ma semmai «romano», che accomuna in un'unica festa i commensali di ieri e di oggi, che siano essi popolani o celebri attori.

 

Fellini rifiuta dunque l'esaltazione della povertà come condizione necessaria per una vita autentica, ma non esige neppure una più equa distribuzione della ricchezza o una maggior mobilità sociale: non dico che le rifiuti, ma, nei suoi film, queste sono cose ines~'enziali perché estranee all'autenticità della vita. Ciò che conta, anche a livello sociale e politico, è l'allontanamento di ogni violenza alienante; e, soprattutto (ma non soltanto) nei confronti degli operai, il maggior pericolo alienante è costituito dalla meccanizzazione, che riduce anch'essi a macchine anonime: è forse questo il senso principale del lungo episodio della metropolitana, con la fugace apparizione di un anonimo gruppo di operai, tutti uguali nei loro caschi e nelle loro tute, costretti a lavorare sotto terra per nove o dieci ore consecutive; mentre tutto l'episodio esprime la violenza delle macchine sull'uomo. Si ripensi ancora a quei due aspetti tipici del gusto felliniano, denunciato in Roma, il «sentimentale» ed il «kafkiano»): dei due, il primo rappresenta una tipica alienazione individuale (soprattutto alla luce dei film precedenti, esplicitamente chiamati in causa in Roma e perciò essenziali alla comprensione di questo), attraverso alla quale si può tuttavia raggiungere una certa autenticità (espressa anche dal tono festoso delle immagini che vi si riferiscono, da una spensierata freschezza narrativa e dagli esiti che essa ha) mentre il «kafkiano» esprime la disumana violenza dell'ambiente, sempre connessa a motivi burocratici e di ordine, ora come in precedenza, ed ora, attraverso tutto il tessuto del film, collegata al fascismo: è questo l'aspetto più allucinante, più pericoloso, perché minaccia una massificazione generale, fatale all'arte come alla vita.

 

Abbiamo colto finora alcuni aspetti tematici particolari del film, presi a caso e sempre emersi da considerazioni generali sul mondo poetico dell'autore; si potrebbe continuare, e troveremmo che ogni altro tema sociale o politico trova sempre la sua origine e la sua giustificazione nella sostanza dell'arte felliniana, anche se in precedenza ne era emerso solo saltuariamente; e tutti trovano in Roma una sistemazione coerente ed esplicita, anche se non formulata teoricamente, nella polemica anticonservatrice che costituisce il filo tematico del film. Perciò, anziché continuare a muovere da singoli motivi colti a caso per giungere sempre a questo polo centrale, converrà riassumere brevemente alla luce di questo ogni altro aspetto.

 

Lo sfondo implicito è dato dalla coincidenza sostanziale fra l'ordine e la violenza e la morte: se la vita è libero accordo di persone fra loro diversissime (purché non alienate) e spontaneamente armonizzate, l'ordine, togliendone la spontaneità, impedisce la vita e si costituisce a violenza. Le parvenze di vita che esso può presentare non sono che ipocrisia e mistificazione: la vera espressione dell'ordine è nell'anonimità di qualunque apparato burocratico, in cui l'uomo sparisce nella funzione, nell'abito, nel comportamento; ne sono corollari il travestimento, la simulazione, il culto della forma - anche solo nell'abito -, già derisi ne Lo sceicco bianco, in cui Ivan, nella sua mania per le convenzioni sociali, si adegua costantemente ad un ruolo, qualunque esso sia, e raggiunge il culmine dell'alienazione nella visita alla polizia, fra scartoffie, schedature, vuoti corridoi, sfilate militari: vi sono già anticipati, in modo farsesco, molti aspetti tipici dell'ordine, che torneranno con più precisi agganci storici e con profonda amarezza in Roma; fino alla sfilata di moda ecclesiastica che in quest'ultimo film celebra in modo paradossale il culto per la forma che unisce l'aristocrazia della chiesa e quella della società.

 

Storicamente il culto dell'ordine, oggi, si rifà al fascismo e si appoggia al tradizionalismo della gerarchia ecclesiastica: è questa l'associazione tematica più vistosa del film, cui si aggiunge, in forma più riassuntiva perché già vigorosamente descritta in passato, quella con le tante inibizioni ed alienazioni sessuali: un moralismo gretto che vieta ogni libero accordo sessuale (anche la vera armonia sessuale, come quella sociale, è basata sullo spontaneo accordo di personalità diverse e libere e non su grottesche convenzioni), per auspicare invece un ritorno alle case di tolleranza, che ipocritamente nascondevano l'esistenza stessa del sesso, e di fatto lo riducevano ad anonimi rapporti di ordine, codificati da precise norme di comportamento, controllati dall'austera tenutaria e ricondotti a rapporti economici (oltre che, anche qui, di potere: cfr. l'arrivo della personalità, che vuol scegliere privatamente la sua occasionale compagna). aveva già messo a fuoco l'origine «religiosa» (ma ovviamente solo nel senso di gerarchia ecclesiastica) delle inibizioni sessuali; Giulietta degli spiriti ha colto con esattezza, attraverso l'esasperata figurazione liberty, la matrice comune delle alienazioni sessuale e «religiosa»; ora a quell'accostamento si aggiunge con rilievo quello fascista, che esaspera la retorica mortificante e l'imposizione di ordine che era già in quelli: lo ritroviamo già nell'educazione (si fa per dire) che Fellini ricevette a Rimini; anche a Roma le prostitute lavorano sotto i monumenti antichi ed i balletti erotici della rivista di varietà sono molto significativamente associati alla propaganda fascista (ambientati sulla tolda di una portaerei, con i cannoni illuminati ed un enorme fascio torreggiante, e le ballerine vestite da marinare).

 

E' compito dello storico verificare l'esattezza dei rilievi felliniani: qui basti riconoscerli, per facilitare la comprensione e la valutazione del film. Ma è di assoluta evidenza, in tutti i paesi a regime autoritario di destra, tale connessione, indipendentemente dall'esattezza della spiegazione che implicitamente il film ne dà. Così come è esatto il collegamento che c'è, storicamente, fra l'esaltazione dell'ordine e quella del «progresso», rappresentato dal culto per la macchina: lo stesso futurismo, ed i miti della produzione che accompagnarono il trionfo del fascismo (indipendentemente dai risultati) c che entusiasmano anche oggi i nostalgici, ne sono prove evidenti. Si noti, a questo proposito, che Roma è lungi dal combattere una generica battaglia contro l'uso delle macchine; lo stesso entusiasmo con cui Fellini osserva e filma la caotica circolazione stradale di Roma ne è una prova. Ma c'è, nel film, un costante senso di allarme nei confronti della meccanizzazione come culto alienante, che dimentichi i valori umani per un puro funzionalismo; e sembra dirci che tale meccanizzazione si distrugge da sola, se si pensa all'associazione che viene sottolineata fra la lentezza della «macchina» burocratica che deve organizzare gli scavi metropolitani e lo scopo che questi hanno, di consentire una maggior rapidità: macchine mostruose ed allucinanti sia quelle burocratiche sia quelle usate nel tunnel: e che ottengono l'unico effetto evidente di provocare la distruzione di opere d'arte e soprattutto la disumanizzazione esemplificata negli operai che vi lavorano, ma espressa in modo figurativamente più valido nella dissoluzione dell'uomo in tutto l'episodio. L'aspetto alienante delle macchine era già stato indicato nell'incubo con cui iniziava ; ma allora esso nasceva da un atteggiamento che poi veniva superato nel corso del film e provocava un astratto desiderio di «evasione» che era rifiuto della realtà; oggi la visione felliniana è meno semplicistica: non c'è alcun rifiuto della realtà odierna, ma solo allarme nei confronti della meccal1izzazione: sicché il caos stradale si presenta come esuberanza vitale, mentre l'invasione di giovani in moto che conclude il film rivela il pericolo di un culto per il motore che fa perdere il senso dell'individuo: si noti come questi giovani son tutti uguali, nei loro caschi e nella loro marcia ordinata, mentre prima, anche attraverso i finestrini bagnati di pioggia, emergeva un'umanità ricca e varia, in cui anche gli aspetti più deformati sono pur sempre vivi ed umani.

 

Si è già detto dell'importanza che ha la scuola, e più in generale l'educazione, per insegnare a vivere. Ma la scuola italiana, soprattutto attraverso il culto per la cultura classica (legato a sua volta all'educazione «religiosa», in definitiva solo moralistica: sulla parete dominavano un crocifisso con ai lati il re ed il duce ... ), propina solo alienazioni e retorica, sui fasti ed i nefasti di Roma (abbiamo visto che anche i nefasti, essenzialmente sessuali e simboleggiati, nel film, da Messalina, sono necessari per consentire quelle esplosioni moralistiche già colte, nei loro collegamenti, ne Le tentazioni del dottor Antonio; e già in questo film, come ora in Roma, il gigantismo sessuale della donna è indicato come «il diavolo»). Alla compostezza cadaverica dei resti monumentali dell'impero si accompagna inevitabilmente, nella rievocazione «storica» (ma qui davvero la parola è totalmente errata: non quando è riferita all'analisi felliniana), la gloria militare dell'impero romano ed un implicito senso di nostalgia. Sicché lo stato, nelle sue preoccupazioni «educatrici» coerenti allo spirito che informa programmi e metodi scolastici, dà la massima diffusione alle notizie riguardanti le partite di calcio e consente e protegge (e patrocina: il film non lo dice espressamente, ma il fatto è troppo ovvio per non sentirvi l'allusione) incontri di pugilato, con relativi scontri fra tifosi (incidentalmente notiamo che è tanto meglio, poi, se è un negro che finisce al tappeto), ma vieta energicamente le pacifiche sedute degli hippies, che col loro culto per la pace e per la libertà, anche morale, sovvertono tutti i «valori» tradizionali e perciò costituiscono un pericolo per la società.

 

Un ultimo cenno polemico nei confronti dell'esercito riconduce anche questo al discorso di fondo contro le assurde strutture gerarchiche: tre militari che si recano allegramente in una casa di tolleranza, devono interrompere i loro scherzi per salutare rispettosamente un ufficiale che palesemente ne è appena uscito: la violenza, materialmente espressa dalle ingiustificate cariche della polizia contro gli hippies e comunque implicita nell'esistenza stessa dell'esercito (indipendentemente, è ovvio, dallo spirito dei militari di leva e perfino degli ufficiali, che non vengono individualmente condannati), viene ricondotto anche sotto questo aspetto al mito dell'ordine che ne è all'origine. E' notevole comunque, in questa breve scena ma più in generale in tutto il film, il fatto che la polemica non colpisca mai i singoli individui: forse, possiamo facilmente dedurre da quanto abbiamo visto finora sulla tematica felliniana, perché ogni uomo, per quanto ha di «individuale», mantiene una propria autenticità umana; ciò che assume toni allucinanti è l'assoluta disumanizzazione, tipica delle macchine ma ancor più drammatica se conseguita in esseri umani, come lo schieramento della squadra mobile durante la manifestazione filmata del primo episodio moderno, o come l'attacco della polizia contro gli hippies, o infine come l'ultima corsa dei giovani in moto: in essi (e il fatto che siano tutti episodi contemporanei conferma ulteriormente il preciso «impegno» del film) non è più riconoscibile alcun elemento umano, mentre è ancora possibile ritrovarne anche nel fascista esaltato che nel rifugio antiaereo combatte la sua ultima isolata battaglia con un'ostinazione fanatica che diventa perfino patetica, o anche nel burocrate neofascista che con altrettanta ottusa ostinazione nega i fatti che si svolgono sotto i suoi occhi durante la carica della polizia: il primo è più patetico nella sua stupidità, il secondo più ridicolo (a parte il tragico scaturente dall'attualità e dalla verità dei fatti descritti); entrambi vengono in ultima istanza salvati proprio per la vistosità delle alienazioni individuali di cui sono vittime (si ripensi a quanto già abbiamo detto sul recupero delle alienazioni); solo uno schieramento di automi impedisce ogni recupero ed impone solo un senso di allarme e di paura.

 

E' facile ritrovare in quest'ultimo aspetto un altro motivo di fondo, o, meglio, un altro aspetto dello stesso motivo già detto, per cui la critica di sinistra rifiuta perfino di analizzare la tema tic a felliniana: troppo netta è l'esigenza di individualismo di Fellini, anche se costantemente equilibrata dalla sua viva «spiritualità», intesa proprio solo nel senso di un superamento dei limiti dell'individuo in una più elevata comprensione della totalità in cui esso si muove; troppo netta per non essere tacciata di «borghese». Tanto più che sempre più nettamente Fellini riesce a cogliere. invece, l'origine «borghese» del concetto di ordine, inteso come annullamento dei caratteri individuali Ce data l'estensione assunta dal termine «borghese», che ora tende a coincidere con quello di civiltà occidentale, non è certamente questa l'unica coppia di «ideali» contradditori riconducibile alla mentalità «borghese»); del resto proprio fra chi ha provato direttamente l'autoritarismo d'oltre cortina è abbastanza frequente il caso di rilievi analoghi: anche là l'ordine, annullando la personalità dell'individuo, soffoca la vita e l'arte e si riduce a burocrazia, ossia finalmente a «invo1uzione borghese». Fellini limita la sua polemica al fascismo; ma proprio la precisa corrispondenza fra la sua tema tic a e quella di tanti autori del mondo comunista dovrebbe far riflettere la critica «impegnata» e spingerla a maturare una tema tic a «di sinistra» che eviti certe pericolose analogie con l'ideologia fascista. Sono considerazioni estranee alla comprensione ed alla valutazione di un'opera d'arte; ma per la prima volta in questo film Fellini ci autorizza a farle, data l'insistenza con cui egli stesso affronta in esso la tematica politica.

 

Ritorniamo comunque subito al film, per rilevare proprio questa insistenza, che pure da molti è stata negata. Ci limiteremo a considerazioni sull'antifascismo, perché sono quelle centrali e perché per gli altri temi secondari abbiamo già avuto occasione di riferirei spesso agli episodi che li propongono: solo per l'antifascismo non abbiamo fatto riferimenti, proprio perché essi sono numerosissimi e riguardano l'intero film. Tutta la prima parte del film, ambientata a Rimini, a parte la sua ovvia funzione autobiografica, dal punto di vista tematico non ha altra funzione oltre a quella di riassumere, in brevi quadri, vari aspetti della mentalità e della propaganda fascista, capillarmente diffusa in ogni manifestazione «artistica» ed «educativa» (esplicito, poi, è nel film il rilievo che in realtà non si tratta di arte e di educazione, bensì proprio della loro negazione). Anche a Roma colpisce subito la presenza di militari e di preti, di manifesti connessi all'imperialismo fascista (una carta dell'Abissinia, la fiera di Tripoli ecc.), di monumenti ed immagini convenzionali. Ben presto però la vita (la vera vita) di Roma si impone al giovane Fellini; il fascismo resta sempre presente sullo sfondo, ma proprio il fatto che esso si dissolva di fronte al prorompere della vita, e resti solo come ombra negativa, ne sottolinea l'inutile propaganda retorica, tanto più inutile e falsa in quanto costante e costantemente ignorata da chi vive, mentre qualche breve richiamo in primo piano la propone come presenza minacciosa, allucinante, sempre significativamente connessa ad immagini notturne: durante il sonno dei vivi, essa prende corpo e si fa più pericolosa ... Infatti la radio continua a rovesciare fiumi di inutili parole Ce non credo sia casuale, nel contesto del film, anche il fatto che argomenti e toni del giornale-radio siano tanto simili a quelli di oggi), in mezzo all'indifferenza generale, mentre la guerra e Mussolini sono oggetti di derisione esplicita o di curiosità; solo a guerra iniziata, nell'episodio della rivista di varietà, la polemica si fa più netta; ma anche ora agli aspetti drammatici vengono sempre alternati altri di allegra spensieratezza: il fascismo o fa soffrire, per le sue conseguenze, oppure fa ridere (cfr. il richiamo alle armi di alcuni giovani; ed anche l'indifferenza - alternata al pianto di chi è toccato direttamente dalla guerra - con cui il bollettino è ascoltato, e poi commentato implicitamente con la canzone «Maramao perché sei morto», analoga alle battute di Rascel nel suo «E' arrivata la bufera»). Si tratta di un antifascismo antieroico, ma non per questo meno efficace: sembra suggerita l'affermazione che il fascismo è caduto più per l'indifferenza dei molti che non per l'opposizione partigiana, che nel film non trova posto. Indipendentemente dalla validità storica dell'affermazione, che del resto il film non enuncia esplicitamente (si limita a rilevare l'estraneità, per la vita, della retorica di un governo «morto»; e con ciò a sottolineare il fatto che questo è morto, assurdo), è comunque certo che oggi Fellini non propone indifferenza, bensì una allarmata attenzione al risorgere del fascismo; infatti le immagini allucinanti del fascismo di ieri, che concludono le due rievocazioni del ristorante e del teatrino della Barrafonda, richiamano figurativamente in modo esplicito tante immagini di oggi: la squadra mobile sinistramente schierata in conclusione del primo episodio odierno; il senso mortificante che domina l'episodio metropolitano e che si conclude con la completa dissoluzione delle ultime tracce della vita antica (e si noti lo sguardo attonito e quasi un ritrarsi e raggrupparsi delle figure rappresentate negli affreschi, che sembrano guardare con apprensione l'arrivo fatale della mostruosa macchina del futuro); la carica della polizia che colpisce i giovani hippies, così esplicitamente associati alle figure degli affreschi, come esempi della vita autentica di oggi, e le assurde (ma tanto diffuse) parole del neofascista che vede in quei giovani e nella mancanza di repressione le cause del dilagare della delinquenza; l'invasione di manifesti elettorali del MSI, così simili a quelli fascisti di ieri, e significativamente associati all'incontro di pugilato ed all'arrivo conclusivo dei giovani in motoretta; infine la posizione strutturale di quest'ultimo episodio: tutto il film è un incalzare di moniti per l'uomo di oggi, nonostante il radicale ottimismo felliniano che, per quel che concerne il fascismo, si esprime nella constatazione «storica» che esso non può diffondersi tra un popolo vivo.

 

Prima di concludere questa parte di analisi generale del film, notiamo ancora che in precedenza Fellini aveva già toccato esplicitamente la questione dell'ordine come tentazione mortificante e già lo aveva condannato come tale, anche solo a livello individuale, in : in esso la «ragazza della fonte» rappresentava infatti le vaghe aspirazioni di Guido (e del precedente Fellini) prima della crisi spirituale risolta anche grazie all'aiuto di Claudia attrice che avrebbe dovuto impersonare la «ragazza della fonte» e che con la sua presenza reale, ben diversa da quella evanescente (e pur suggestiva; ma, appunto per ciò, pericolosa) sognata da Guido, lo aiuta invece a recuperare il senso concreto della vita, sicché Guido arriva finalmente a scoprire che la vita, proprio in quanto tale, è confusione, e che solo nella confusione è possibile per l'uomo recuperare il senso e la giustificazione della vita e per l'artista quello dell'arte; mentre l'ordine asfittico cui aspirava Guido, ed espresso dalle uniche parole pronunciate dalla «ragazza della fonte» («voglio far ordine, voglio far pulizia»), è compostezza funerea, e in definitiva esso stesso instabile perché, non avendo recuperato il senso della vita, resta esigenza velleitaria di incasellarne ogni aspetto secondo criteri astratti: sicché la vita si presenta, per chi aspira a questo tipo di ordine, come un continuo assillo di fatti, persone, sensazioni nuove, impreviste, e che rifiutano ogni incasellamento; il risultato è che proprio la mania dell'ordine, nella vita come nell'arte, finisce per dare un forte senso di confusione, questa volta irriso1ubile ed insoddisfacente perché falsa. Tutto ciò è espresso in modo artisticamente riuscito nella struttura e nelle singole immagini del film, ed in particolare nella netta differenza fra l'attrice Claudia ed il personaggio sognato in precedenza dal regista; ed è confermato nel modo banale e didascalico che già abbiamo denunciato a suo tempo nelle parole conclusive di Guido, quando egli riconosce finalmente la confusione vera della vita, «bella confusione», ben diversa da quella precedente, formata da tessere svariate che egli, dopo aver arbitrariamente staccato dalla vita, tentava di incasellare a modo suo. A suo tempo qualche critico particolarmente infelice aveva pianto sul mutamento che Claudia attrice segnava rispetto alla «ragazza della fonte», dimostrando, nella sua nostalgia per quelle esigenze di ordine ormai definitivamente rifiutate, di non aver compreso per nulla il senso del film. Ma ora Roma è talmente esplicito, non solo nel rifiutare a livello individuale, ma soprattutto nel condannare anche a livello sociale e politico quelle esigenze, che non dovrebbero più esserci dubbi in proposito: la vita, come l'arte che la esprime, è confusione apparente, dovuta solo al fatto che la sua infinita varietà e ricchezza risponde ad un'armonia troppo complessa per poter essere codificata; mentre l'ordine, sia esso morale (per la vita individuale) o estetico (per l'artista) o politico (per la vita collettiva), non può che esser mortificante, ed inutilmente, perché, come già aveva notato Guido, la vita se ne vendica proponendo sempre nuove varianti inclassificabili nell'ordine precostituito e perciò generanti una più falsa e «brutta» confusione di morte. Eppure anche in Roma qualcuno è riuscito a «ritrovare puntualmente» «l'odio-amore, fascino-ripugnanza, per tutto ciò che è decomposizione, carnalità sfatta e fermentante, energia misteriosa e abnorme di un mondo già morto, ma proprio per questo brulicante di vita come un verminaio». Il fatto che esistano ancora (e purtroppo non siano rare) delle «interpretazioni» (si fa per dire) così grossolanamente errate e superficiali mi ha costretto a dilungarmi in noiosi confronti e verifiche testuali, che hanno dilatato eccessivamente questa analisi generale del film: mi auguro almeno che la maggior fatica che ne deriva serva almeno a convincere anche i lettori più distratti e soprattutto a persuadere i giovani critici ad intraprendere analisi critiche più attente, diligenti, dettagliate (anche se più «noiose» e faticose), dei film che intendono esaminare: non basta la fiducia nelle proprie capacità di intuizione (quand'anche queste ci siano) per garantire l'esatta lettura di un film, ove manchi una costante verifica testuale.

 

 

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