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IL CASO STEVE McQUEEN - Prima parte
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Video-artista prestato al cinema o regista di cinema con apprendistato nella video arte, Steve McQueen sembra ormai approdato stabilmente, e con folgorante successo, sul set cinematografico.

 Hunger 2008 e Shame 2011, due film e due casi singolari.

Il dibattito critico è stato ampio, il pubblico si è diviso, prevalgono i sostenitori, ma le critiche negative  fanno riflettere.

Chi è, dunque, Steve McQueen?

Un nuovo grande talento del cinema (così l’ha salutato Bruno Dumont a Cannes 61) o un abile mistificatore, dedito al “saccheggio stilistico (in particolare,Hunger) finalizzato a (non) supportare storie, inadeguate alle (in)capacità del regista stesso” (nel severo giudizio di AtTheActionPark sono sintetizzate le posizioni della critica contraria) 

Da che parte stare di fronte ad una spaccatura del genere?

Non è facile dirlo, manca la c.d. “zona cuscinetto”, o si è pro o contro, e gli argomenti sono da entrambe le parti degni di attenzione.

 

                                                  INDICE

CINEMA O VIDEO/ARTE?

BREVE STORIA DI STEVE McQUEEN VIDEO MAKER

CONSIDERAZIONI FINALI MA NON DEFINITIVE

INTEGRAZIONI (nel post seconda parte)

______________________________________________

CINEMA E/O VIDEO-ARTE?

Benchè abbia girato solo due film (il terzo, 12 Years a Slave, è in arrivo) Steve McQueen, è più famoso come regista di quanto non sia mai stato come video-artista in quasi vent’anni di onorata carriera.

E’dunque lecito chiedersi perché questa improvvisa notorietà gli sia derivata da film che però, nello stesso tempo, stando ai dissidenti, sconterebbero pesantemente le ibridazioni indotte dalla sua storia di video artista.

E’ dunque un passato così castrante il suo?

Aver partecipato a Biennali e quant’altro, fatto ricerche e trovato approdi in forme d’arte in gran voga fino a qualche anno fa (oggi sopravvivono solo i grandi, mentre la neo-figurazione sta riprendendo trionfalmente il sopravvento) ha forse precluso inesorabilmente l’utilizzo adeguato del mezzo cinematografico, arte della visione ben diversa dalla video-arte? 

O forse nel McQueen video maker c’era già in embrione il McQueen filmaker?

E quanto dell’uno è trasmigrato nell’altro?

E infine, possono i due linguaggi integrarsi senza che l’uno condizioni negativamente l’altro?

Queste sono le domande.

COSA RISPONDERE?

Non tocca a me farlo.

Mi limiterò ad una indagine sul passato del regista in cerca di tracce.

Le esegesi toccano ai semiologi e agli esperti di comunicazione visiva, i critici a tempo pieno e gli spettatori “disarmati” continueranno, probabilmente, a dividersi.

Qui avremo solo cercato qualche tassello mancante nella conoscenza di questa strana storia.

Va detto che, in rete, del McQueen video maker c’è ben poco da vedere, molto è lasciato all’immaginazione.

Se ne parla, soprattutto dopo il debutto nel cinema, ma per le sue video-installazioni bisognerebbe viaggiare in tre continenti e consultare gli archivi delle varie sedi di esposizione.

Manca, purtroppo, una cultura della comunicazione artistica che non sia solo televisiva o cinematografica.

Sembra si possa fare a meno di una conoscenza diffusa di altre forme d’arte che, pure, si fondano sulla visione, la luce e il movimento.

A meno che non si faccia parte dell’Olimpo dei grandi, e allora i video li troviamo (v.Bill Viola o Marina Abramovic).

Ma McQueen non è tra loro.

E allora, se criticare un film di McQueen significa anche guardare ad un processo formativo in cui rintracciare stilemi, in positivo o in negativo, e se questo passato non è verificabile se non per frammenti e lampi, come posso farne un punto di riferimento nell’analisi?

Viceversa, ammesso che alle spalle di un fenomeno possa esserci, o fingere che ci sia, una tabula rasa, dovremo romanticamente tornare a pensare al genio come epifania improvvisa?

Non credo.

Quello che McQueen porta sullo schermo, il senso della storia, l’engagement politico, la ricostruzione ambientale, la sua idea di uomo, sarebbero gli stessi dell’uomo della strada qualsiasi se separati dalla forma che assumono e dal linguaggio che li traduce in oggetti d’arte.

L’ideale sarebbe, allora, un’analisi molto capillare, tale da andare oltre gli schemi consumati, indagando nel frammento visivo, nella grammatica e nella sintassi delle scene, mettendo a nudo l’artista nel suo studio, con la sua tavolozza di colori.

Se questo non è posssibile perché tempo non ce n’è e non siamo noi gli addetti ai lavori, cerchiamo almeno qualche strumento di lettura in più, procedendo con il poco che c’è a disposizione.

Questa ricerca, pur nella sua lacunosa brevità, vuol dar corpo alle membra sparse di una storia artistica che confluisce in Hunger e Shame, film in cui McQueen ha dato prova di sè indubbiamente fuori del comune, quale che sia il giudizio critico.

Andiamo dunque a frugare nel suo passato.

 

BREVE STORIA DI STEVE MC QUEEN VIDEO MAKER 

Dopo iniziali esperienze nella scultura e nella fotografia, di cui non esistono tracce nè scritte nè visive sul web,  le prime notizie documentate sulla sua produzione artistica risalgono al 1994.

Per anni il giovanissimo McQueen  realizza corti presso il Goldsmith College di Londra.

Dopo la laurea, entra alla Tisch School of the Arts di New York per imparare il mestiere di regista.

La trova soffocante e dicono abbia gridato, un bel giorno :

“They wouldn't let you throw the camera up in the air!"

L’approdo alle nuove tendenze dell’arte contemporanea non tarda ad arrivare.

Intitolata Bear (1993-94), la prima video-installazione presentata al Royal College of Art di Londra, mette in scena due uomini nudi (uno è lui) che lottano in totale assenza di sonoro, mentre una sottile e ambigua  componente erotica  è sottesa  all’ aggressività dei loro gesti.

La ripresa dei due corpi alterna il frammento alla figura intera, lo spazio è molto segnato, tangibile, materico, ma l’effetto realistico è costantemente in bilico tra affermazione e sovversione.

Nel 1997 presenta Catch a Documenta X, Kassel, una discesa in ascensore che sembra non debba mai finire in una miniera d’oro in Sud Africa, girato in tempo reale, a fianco dei lavoratori.

Va quindi a lavorare a Berlino, dove espone una serie di fotografie dal titolo Barrage (diga, ostacolo), realizzate con soggetto i rotoli moquette usati per bloccare o reindirizzare l'acqua delle grondaie a Parigi.

Segue Deadpan (1997) omaggio a Buster Keaton: un edificio cade intorno a lui più volte da molti punti di vista, ma lui rimane impassibile.

Scrive di lui Heike Borowski in «Tempo Vedendo» ZKM online:

“Il non-uso del colore e del suono è uno strumento classico del film narrativo ai tempi del muto, come i contrasti taglienti di luce / buio, le inquadrature insolite e le prospettive. Nell'utilizzo di questi elementi, l'artista inglese sembra adottare una certa estetica del cinema dal 1920, ma non la utilizza per ripiegare su una strategia di storicizzazione o di reinterpretazione delle origini di immagini in movimento”. 

I due video successivi sono Just above my head(1996) ed Exodus(1992-97) e la connotazione politica è più spiccata.

C’è nel primo, ispirato al romanzo omonimo di James Baldwin, l’America dei wasp che si sente minacciata dalla presenza nera, mentre nel secondo due giovani eleganti vanno in giro per le strade di Londra con palme in mano, e lo spirito di Bob MarleyExodus, aleggia con il tema del ritorno alla terra promessa.

Nel 1999 McQueen conquista il Turner Prize con Drumroll, realizzatoa New York inserendo tre telecamere dentro fusti di petrolio e facendoli rotolare per le strade di Manhattan.

Negli States McQueen si sente più ben accetto e spiega:

"Maybe because black artists are more noticeable over there and gain a broader acceptance”

J.P. Stonard,  nel 2001, nell’area Artisti della Tate Gallery di Londra, sottolineava il pregio dei suoi muti in bianco e nero, caratterizzati da una stupefacente qualità visiva altamente controllata.

In particolare Deadpan (1997) proiettato sulla parete intera di una stanza cubica, chiusa e bianca, creava un forte rapporto fisico tra spettatore e film, nonostante l’approccio minimalista e anti-narrativo del’installazione.

 

In un articolo del 2003 su Le Monde, il critico d'arte Geneviève Brerette aggiungeva:

La quindicina di film che ha fatto negli ultimi dieci anni, della durata di pochi secondi o, in minuti, meno di mezz'ora, affrontano realtà di tipo apparentemente diverso.

Sono come sonde sul bordo di voragini in cui nulla può essere più misurato in termini conosciuti. Uno non li dimentica. Tuttavia egli è giovane (33 anni), ma ha argomenti visivi e intellettuali la cui efficacia deriva dall'economia dei mezzi che mette in gioco per costituire il significato e dall' impatto fisico delle immagini che produce e che, viste dal di dentro, cancellano lo schermo e la distanza tra oggetto e spettatore”.

Nel 2002, a Documenta XI, Kassel, McQueen presenta Caribs’ Leap/Western Deep, due esperienze in luoghi diversi: l'isola di Grenada, dove sono nati i suoi genitori, con il suicidio di massa degli indigeni dell’isola caraibica che, nel 1651, si gettarono nell’Oceano da un’altura, in rivolta contro la colonizzazione francese, e la miniera d'oro in Sud Africa già esplorata in Catch del ’97.

Era l’anno, a Kassel, del focus prevalente sul tema caro al curatore, il nigeriano-newyorkese Okwui Enwezor, delle ibridazioni culturali e delle "democrazie non realizzate".

Una figura cade attraverso l'aria.

Non lo vedo saltare e non lo vedo toccare il suolo.

E’ appena caduto attraverso la luce.

Un minatore entra in una gabbia.

La gabbia precipita, due miglia nel corpo della terra.

Sta scendendo nel buio.

(didascalia dell’opera)

McQueen sceglie per  le immagini di Western Deep un fondo luminoso di assoluta neutralità, su cui si annullano le disuguaglianze.

Negli spazi claustrofobici di una delle miniere  più profonde del Sud Africa i corpi grondanti sudore sono stretti fra pareti rocciose, le luci lampeggiano fino a ferire l’occhio e gli oggetti si fissano in forme scabre.

Schiavitù e dominazione sono i termini di una ferocia visionaria che sfiora i limiti della narrazione, pur restando video-arte a tutti gli effetti.

Nel 2003 Mc Queen è nominato artista di guerra dal comitato d'arte dell’Imperial War Museum, e l’esperienza in Iraq confluisce in Queen and Country, installazione esposta nel 2010 alla National Portrait Gallery di Londra.

Foto in serie di soldati britannici uccisi in Iraq, riprodotte a ritmo compulsivo su facsimili di pagine e pagine di francobolli della Royal Mail, scandiscono giovani volti appiattiti nella ripetitività dell’immagine filatelica.

Sappiamo che le famiglie delle vittime accettarono di mettere a disposizione le foto per aiutare l’artista nella vittoriosa impresa di far emettere dalle poste inglesi autentici francobolli  con i soldati morti.

Nel 2005 la Fondazione Prada di Milano gli dedica un’antologica e nel 2007 McQueen partecipa alla Biennale di Venezia.

Vi torna nel 2009, nel padiglione britannico, come special guest e presenta un video di 30 minuti, Giardini, girato nei Giardini della Biennale fuori stagione, quando i riflettori sulla kermesse artistica sono spenti e il posto torna desolato fra rifiuti, residui di installazioni e levrieri neri che si aggirano, frugando nella spazzatura.

 

Per finire, un profilo critico redatto in occasione dell’antologica alla Fondazione Prada:

Steve McQueen ha iniziato a lavorare nei primi anni 1990 e ha subito ottenuto un riconoscimento internazionale attraverso il suo uso sofisticato del linguaggio cinematografico con riferimento diretto al cinema verité, in particolare al regista d'avanguardia francese e documentarista Jean Rouch.

Ispirato alle tecniche di improvvisazione utilizzate in italiano dal Neo-Realismo, Rouch ruppe con montaggio tradizionale abolendo il lavoro di post-produzione e rendendo evidenti le potenzialità all'interno con l'uso 'libero' della fotocamera.

Egli considerava possibile fornire allo spettatore l'esperienza diretta della percezione della realtà, e, prendendo questa procedura come punto di partenza, McQueen ha sviluppato una tecnica narrativa che inevitabilmente lo ha portato lontano dal cinema tradizionale per adottare un approccio più libero basato sulla casualità e l’ incertezza.

In questo contesto l'artista ha adottato diverse tecniche che sono diventate tipiche del suo modo di lavorare: l'utilizzo di una telecamera palmare, l'offuscamento dei confini tra immaginazione e realtà, tra lo spazio occupato dallo spettatore e quello del film, e, soprattutto, la rottura della continuità del film, alterando la sequenza narrativa.

Il visualizzatore deve quindi fornire il proprio senso e si trova di fronte a un linguaggio che dà alcuni indizi ma che si basa su dinamiche complesse, in cui interagiscono elementi chiave, quali la chiarezza dell'esposizione, la densità pittorica e l'equilibrio della composizione .

Concentrandosi sulla intensità delle immagini e la loro capacità di evocare la dimensione straordinaria in eventi ordinari, McQueen suscita pathos attraverso la non-ortodossia di associazioni narrative.

Episodica nella struttura, la sua procedura non è lineare ma àncora la nostra messa a fuoco seguendo un percorso linguistico in cui si intrecciano immagini e ricordi.

Lo scopo di questo dispositivo è quello di trasformare il concetto generale di ciò che è reale.

Con la creazione di significati discordi, l'artista tenta di provocare un corto circuito emotivo che metterà lo spettatore a contatto con l'indefinito, l'inspiegabile e, soprattutto, con la parte più intima e sconosciuta di se stesso […] Caratterizzato da riduttivismo visuale, monumentalità severa e distillate immagini essenziali, il lavoro di McQueen usa la sorpresa come un elemento chiave.

 

"Voglio mettere il pubblico in una situazione in cui tutti diventano molto sensibili a sè stessi, al proprio corpo e alla respirazione", ha detto McQueen

( da Indepth Arts News:"Steve McQueen: Solo Exhibition" Fondazione Prada,Milano)

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Nel 2007 Mc Queen inizia a girare Hunger

Il resto è storia nota.

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CONSIDERAZIONI FINALI MA NON DEFINITIVE

Per chiudere questo percorso retrospettivo non resta che tornare al presente e ripensare ai due lungometraggi, cercarvi i segni del McQueen del passato per capire se e in che misura siano coerenti con la sua storia di artista, o se, come a volte succede, abbia trovato finalmente nel cinema l’approdo più idoneo al suo temperamento.

I due film godono di ampie recensioni, non è mia intenzione farne un’altra né esprimere un giudizio di qualità che sarebbe solo personale e ininfluente.

Non nego che la visione, ripetuta un paio di volte, sia sempre risultata gradevole e avvincente, piena di sollecitazioni e ricca di spunti di riflessione.

E’ certo il lavoro di un filmaker di consumata esperienza sul piano del confezionamento dell’immagine…

ma, chiediamoci:

è arte del cambiamento?

è avanguardia?

e lasciamo anche che Debord dica la sua, sempre pertinente e dirompente:

“L'arte nell'epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo teso al superamento dell'arte in una società storica in cui la storia non è ancora vissuta, è allo stesso tempo un'arte del cambiamento e l'espressione pura del cambiamento impossibile.

Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua vera realizzazione è al di là di essa.

Quest'arte è necessariamente d'avanguardia, e non lo è.

La sua avanguardia è la sua scomparsa.”

 (Guy-Ernest Debord, La societa' dello spettacolo, cap. 8, Buchet/Chastelm, Paris 1967) 

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Il caso Steve McQueen   seconda-parte

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