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Spleen d'autunno
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L’arrivo dell’autunno induce a coltivare pensieri e situazioni di raccoglimento, di riflessioni sulla fine di una torrida estate e sul bisogno di tornare in se stessi, a casa propria, di chiudere le porte e apprestarsi a vivere un lungo inverno. Spesso, il ritorno a casa non è il semplice rincasare, ma il vero e proprio ritorno, per chi  si è trasferito altrove, ai luoghi della propria infanzia.

Perché, ad un certo punto della vita, da parte di molti si ritorna a casa? Che cosa ci spinge tornare sui nostri passi, rinnegando, per certi versi, una fase della nostra vita? E’ forse la constatazione della nostra insoddisfazione del presente, oppure è quello strano malessere che ci prende quando ricordiamo la nostra giovinezza, le nostre speranze, i ricordi, i momenti, i paesaggi, i nostri cari, gli amici ecc.?

Ricordate Michael Sheen, nel ruolo del “pedante” Paul, in MIDNIGHT IN PARIS? All’inizio del film, riferendosi al desiderio di Gil, il protagonista, di vivere, se potesse, nella Parigi degli anni ‘20, dice :”La nostalgia è negazione, negazione di un presente infelice”.

 

Gil è uno sceneggiatore che vorrebbe scrivere un romanzo. Per sbarcare il lunario, gestisce un negozio-nostalgia (dove di vendono vecchi oggetti, cimeli, merce il cui solo valore è quello di riferirsi a un’epoca ormai trascorsa). Il giovane è scontento della società e del mondo in cui vive. Vorrebbe vivere in un’altra epoca, come ad esempio, nella Parigi degli anni ’20. In effetti, succede che la scontentezza del presente spinga certe persone a sognare un passato trascorso nella (falsa) illusione che in quel passato, tutto fosse migliore.

E’ insomma l’insoddisfazione del “qui e ora” e l’esaltazione di un tempo che fu.

L’uomo, essere razionale, cerca la propria felicità, ma le convenzioni sociali, le regole del vivere civile, i tabù socio-religiosi e i vincoli della propria coscienza lo obbligano a compiere delle scelte che rarissimamente gli consentono di raggiungerla. L’incapacità di raggiungerla genera uno stato di perenne disagio che, spesso, lo spinge a rompere determinati schemi, a compiere certe trasgressioni che il più delle volte lo precipitano in una situazione ancora peggiore.

In altre persone invece, come si diceva, il disagio del presente spinge molte persone a cercare altrove il luogo della possibile felicità. Si sopravvaluta allora la propria gioventù, esaltandone i momenti felici e tacendone (alla propria coscienza) gli inevitabili aspetti negativi. Oppure ci si rifugia in una presupposta “età dell’oro”, un’epoca cioè in cui le condizioni dell’umanità erano molto migliori, pur sapendo, a mente fredda, che la realtà è molto diversa.

Sono atteggiamenti, questi, presenti da sempre, anche in personalità artistiche di rilievo e che, descritti in modo letterariamente assai accattivante, hanno dato luogo a grandi opere ed hanno pure influito sulle nostre menti e sulle nostre fantasie. Quando non è inquinato da sciocca esaltazione del passato e da un rifiuto irrazionale del presente, il tema del ritorno al passato è seducente e spesso porta a riscoprire valori autentici che con l’andare del tempo si sono diluiti oppure sono del tutto svaniti.

A questo proposito andrebbero riscoperti alcuni film fra gli anni ‘60 e ’70 che ripropongono, sotto diverse angolature, il tema del ritorno a casa.

 

Prendiamo LE STAGIONI DEL NOSTRO AMORE(1966). Florestano Vancini, regista diseguale ma capace di ottime prove come ad esempio LA LUNGA NOTTE DEL 43, disegna il profilo di un ex-partigiano, Vittorio Borghi, intellettuale di sinistra, che, trasferitosi a Roma,scosso dal fallimento del suo matrimonio e dall’insoddisfacente relazione con una ragazza molto più giovane, si ritrova a ripercorrere criticamente la sua vita. Decide così di ritornare nel luogo dov’è nato e cioè Mantova.

 

 Ricordi lontani, alcuni dei quali nitidi e altri più sfocati, si affollano e si ripropongono. Ma, come qualcuno ha scritto, non si dovrebbe mai ritornare nei luoghi dove si è stati felici. La delusione è sempre dietro l’angolo, poiché quei momenti di felicità hanno lasciato il posto a un presente banale, dove tutto è cambiato e nulla è e mai sarà come prima. Morandini scrive che “il film spinge fino al grottesco la critica ai cedimenti morali e politici della sinistra, in una chiave viziata da auto-indulgenti concessioni ai tormenti interiori”. E’ una posizione, a parer mio, ingenerosa e alquanto discutibile. Per una certa critica “allineata”, un ex-partigiano e uomo di sinistra, deve essere per forza condannato a vivere una militanza che prescinda dalle ragioni dei sentimenti, come una gabbia che lo renda insensibile ai tormenti interiori e totalmente dedito all’idea e alla causa.

In quegli anni, cominciava in effetti ad affacciarsi una certa deriva

piccolo-borghese nella sinistra, là dove per piccolo-borghese si intendevano appunto “i cedimenti morali e politici” che vanno intesi i primi come comportamenti sessuali non in linea con la rigida ortodossia e i secondi come apertura verso ambienti politici di centro (certi ambienti della Democrazia Cristiana e del PSDI (ricordiamo che appunto in quegli anni si parla di “svolta a sinistra” da parte della DC, che sfocerà poi nel “compromesso storico”.

 

Va ricordato che la fine degli anni’60 segna il raggiungimento della piena maturità per coloro che, nati negli anni’20, hanno combattuto nel movimento partigiano e ora ricoprono posti più o meno importanti nella società. La Resistenza diventa, in registi come Vancini, ma non solo, come vedremo, elemento fondamentale discriminante tra chi l’ha fatta e chi l’ha combattuta. La Resistenza va intesa quindi non solo come ricordo di gioventù (per evitare appunto di cadere nel pericolo dei tormenti interiori così piccolo-borghesi), ma come spunto per rivitalizzare le proprie convinzioni politiche e sociali e ritornare alla lotta. 

 

Quando Borghi, deluso anche dai luoghi della sua gioventù(che invece di rinfocolare in lui il fuoco sacro dell’impegno sociale lo prostrano ancora di più), perde il controllo e urla scompostamente tutta la sua disperazione, non è più l’intellettuale militante di sinistra, ma un piccolo borghese che sfoga il suo tormento per banali questioni sentimentali.

Visto da altra angolatura, Borghi è un uomo che sta vivendo una difficile crisi esistenziale e di identità. Nella speranza di ritrovare entusiasmo ed energia, ritorna nei luoghi della propria gioventù, con il risultato di bruciare anche quel piccolo lembo della propria vita ritenuto intoccabile e puro.

 

Il finale di LA LUNGA NOTTE DEL ’43 sembra essere una conferma. Il ritorno di Franco Villani a Ferrara, dove è nato e da cui è fuggito durante la guerra, si rivela quanto mai deludente. La guerra è ormai finita da quasi quindici anni; Franco si è nel frattempo sposato, abita all’estero e ritorna a Ferrara per visitare i luoghi che lo hanno visto crescere e rivedere magari qualche conoscente. Chi lo riconosce è invece proprio colui che si è reso responsabile di un atroce delitto. Era infatti un caporione del fascio di Ferrara che, in epoca repubblichina, scontento per la piega moderata che stanno prendendo le cose, decide di eliminare il federale Bolognesi (nella realtà si chiamava Ghisellini)e addossare la colpa ai partigiani. Quest’atto criminale provocherà la reazione bestiale dei fascisti che fucileranno, per rappresaglia, alcuni noti oppositori del

regime, tra cui anche il padre di Franco.

La vita sembra prendersi quindi gioco di Franco, proponendogli un’Italia ormai lontana anche mentalmente da quegli anni ed interessata più che altro all’esito di una partita di calcio trasmessa alla tv.

Il ritorno a casa quindi, per Vancini, rappresenta il luogo della delusione, del tradimento del ricordo, della fine delle illusioni.

 

Un discorso apparentemente simile sembra essere quello di Alberto Bevilacqua nel film QUESTA SPECIE D’AMORE (1972). Anche qui il protagonista, Federico, ha lasciato la sua terra (Parma) per recarsi a Roma, dove sposa la figlia di un ricco uomo d’affari romano e va a vivere con lei nella di lui sontuosa villa. Un discreto successo personale non gli evita di muovere una cruda analisi della propria vita coniugale e sociale. Il rapporto con Giovanna, sua moglie, è ormai stanca routine; ha accettato compromessi di varia natura che poco a poco hanno eroso la fiducia in se stesso, la sua dignità. Suo padre viene un giorno a trovarlo. La sua presenza lo mette in piena crisi. In effetti, la sua integrità morale (ex-partigiano, incarcerato e messo al confino, comunista “duro e puro”, mette a nudo le manchevolezze del figlio.

Il ritorno di Federico a Parma diventa la ricerca delle radici solide, genuine che sono state alla base della sua formazione e che ora vorrebbe ritrovare per rifondarsi, per rifondare la sua vita.

 

A differenza del deludente esito del ritorno a Mantova di Borghi, Federico sembra ritrovare il senso da dare alla sua vita, riscoprire i valori che poco a poco si erano persi. Sua moglie, contro ogni aspettativa, sembra sinceramente conquistata dalla nuova figura che suo marito sta poco a poco riacquistando. Abituata alla vanità, all’effimero, alla vacuità sostanziale della sua vita,  constata che il senso della vita lo danno i valori elementari ma al tempo stesso autentici: l’incontro con la madre di Federico la convince definitivamente. Quanto a Federico, dopo aver reagito a una vigliaccata compiuta da alcuni giovinastri nei confronti di suo padre, riceve da lui il regalo più bello: la sua commossa gratitudine, segno di una riconquistata dignità.

Al di là del valore del film, forse un tantino sbilanciato sul piano retorico, il tema del ritorno a casa assume quindi i connotati positivi della ritrovata dignità.

Questi due film rappresentano un punto di riferimento fondamentale per interpretare il senso del ritorno.

Il ritorno a casa va insomma interpretato non come banale  e sterile desiderio di ritrovare i propri cari, i vecchi amici, i paesaggi, gli usi e costumi. Il ritorno a casa vale come riscoperta dei veri valori fondanti. E nel nostro Paese i veri valori fondanti sono, per la nostra cinematografia, quelli legati alla lotta anti-fascista, alla riconquista della libertà e della propria dignità personale e nazionale.

Se in Vancini quei valori si sono ormai perduti, in Bevilacqua essi ancora rappresentano la possibilità del riscatto morale.

 

Il “riflusso”, e cioè quella particolare temperie che prende il sopravvento sulla realtà socio-politica del nostro Paese soprattutto a partire dagli anni ’80, con l’arrivo del craxismo, spegnerà le speranze (o illusioni?) di un’intera generazione, chiudendo definitivamente la partita con l’eredità della Resistenza. Oggi, il ritorno a casa dei nostri giovani è sempre più spesso il mesto ricorso al patrimonio familiare, intaccato da politiche dissennate e lascito materiale di una generazione che ha costruito con fatica e speranza risorse importanti, favorite da un clima di ritrovata libertà e di conseguente euforia.

Speranze che ora sembrano foglie d’autunno.

 

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