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La guerra dei Vulcani
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Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto … 60 anni fa

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La guerra dei Vulcani, presentato a Venezia69 Classici, è un piccolo gioiello che brilla di luce propria, non essendo facilmente classificabile all’interno di un genere.

Non è un documentario, Patierno non ricorre ad interviste dirette e testimonianze d’epoca.

Rapide incursioni nei materiali dell’Archivio Storico Luce, RAI, Associazione Panaria Film, Cineteca di Bologna, Centro Studi Eoliano, Cristaldi Film, Corbis, Getty Images, Contrasto, Film Archive (stralci dalla Settimana Incom, prime pagine da giornali  per  una lettura veloce dei titoli cubitali) non bastano a farne un reportage nel senso canonico del termine.

Non è neppure fiction, Patierno ci parla di storie vere, con personaggi che di quelle storie furono protagonisti, artefici e un po’ anche vittime.

La guerra dei Vulcani è un pezzo di storia d’Italia dell’immediato dopoguerra, ed è anche uno spaccato di storia del cinema, un singolare esperimento di ricostruzione di un mondo e dei suoi uomini e costumi attraverso una geniale manipolazione di materiale cinematografico.

La vicenda che racconta fu esplosiva, come, appunto, i vulcani che le diedero il nome sulle prime pagine dei giornali, Stromboli e Vulcano.

 

Roma, Hollywood, Isole Eolie, fine anni ’40 inizi ‘50.

La guerra vera è finita, la vita faticosamente ricomincia e l’industria del cinema riparte per regalare nuovi sogni e straordinarie illusioni.

Grandi nomi entrano nell’immaginario collettivo, la vita dei divi del cinema appartiene al pubblico molto più di quanto accadrà nei decenni successivi, in quel processo di identificazione ed elaborazione di nuovi miti che sempre segue periodi difficili, di miseria e dolore.

I nuovi eroi sono loro, i grandi dello schermo, e sulle vite private si proietta la loro immagine artistica, saldandosi in unità inseparabile.

Dunque un triangolo amoroso, quale fu quello a cui diedero vita Magnani, Rossellini, Bergman, non poteva non esplodere agli occhi del pubblico, fino a fondersi con quella fiction che loro stessi crearono, facendo delle due isole ribollenti di forze primordiali, una di fronte all’altra sul mare siciliano, la sede dei set per i due film rivali.

Patierno  affida il racconto ad una voce esterna, ma, ed è la carta vincente di questo lavoro,  eccellente è la capacità di entrare nello spirito più intimo delle cose selezionando sequenze di film e fotografie, backstage e cinegiornali, che producono in chi guarda una straniante sensazione di galleggiamento fra realtà e finzione, mentre il flusso narrativo procede più vero del vero.

Rinasce così, con l’acronica immediatezza che il cinema dà ai fatti che racconta, una storia di uomini e donne di cui percepiamo la natura, gli umori, fragilità e durezze, in un teatro del mondo di cui sono i reagenti e come tali destinati a consumarsi nel tempo della reazione.

 

A più di mezzo secolo dai fatti, figli di una rivoluzione dei costumi che ha reso irriconoscibile quel passato, ne ascoltiamo la voce filtrata da scene di film che sono nell’archivio cinefilo di tutti.

Ed ecco allora Roma città aperta, Nannarella/Pina che corre e cade a terra, abbattuta dai mitra, e Roberto dietro la macchina a filmarla, sul set in cui nacque il loro amore, furibondo e fuori da ogni limite, com’erano loro due.

 

L’incendio alla Minerva Film, nel ’47, un patrimonio di pellicole distrutte e una lettera fatale, sopravvissuta negli archivi.

Fu recapitata solo l’anno dopo, durante la festa per il compleanno di Roberto organizzata da Anna.

Chi scrive dice che conosce lo svedese, non ha dimenticato il tedesco, in francese non riesce a farsi capire e in italiano sa dire solo “Ti amo”. Sarebbe felice di recitare per lui.

E’ Ingrid, la rivediamo, incantevole, in Notorious, Arc de triomphe, Casablanca. Ed ora è anche santa, dice lo speaker, ha appena girato Jeanne d’Arc.

 


 Sembrano scene girate per lui e noi le guardiamo con gli occhi di Roberto, “abilissimo a scordarsi le promesse, affascinante, sempre pronto a giocare su più tavoli, grande tombeur de femmes” continua il narratore (o meglio, la narratrice, la voce è di Ilaria Stagni).

Nel tempo relativamente breve di un mediometraggio (52’) scorre questa guerra di dame e cavalieri, amori fatali che segnano e distruggono, come quei due vulcani, opinione pubblica che parteggia, s’indigna o si esalta, scomunica o perdona.

La morale, i grandi tabù infranti, la donna libera, il matrimonio tradito, i figli della colpa, nulla mancava in quegli anni cinquanta che furono il giro di boa  dell’Italietta massacrata dal regime e dalla guerra.

Questa fu una favola ed una terapia d’urto, cominciava una rivoluzione di costumi di cui ancora non si capiva la portata.

Da qui si costruì anche un pezzo importante del nostro cinema, e ricordiamo allora un’osservazione di Moravia:

 “Occorre dire che, senza questa avventura, non avremmo neppure avuto Stromboli che ne è la diretta traduzione cinematografica in chiave elegiaca e, si vorrebbe dire, freudiana. In altri termini, Stromboli è un film autobiografico; ed è da questa autobiografia, consapevole e inconsapevole, sofferta ed espressa con una delicatezza e un rispetto della materia rari in Rossellini, che vengono al film le sue più belle qualità di poesia e di verità psicologica.... Il carattere, la natura, l’ambiente dell’isola sono descritti col solito vigore e la solita sensibilità per gli aspetti inameni e originarii. I due pezzi di bravura, la tonnara e l’eruzione, non esorbitano nel documentario e nella pagina da antologia. Ma l’interesse del film s’impernia soprattutto sulla Ingrid Bergman che, alle prese con una parte difficile, in un clima artistico così diverso da quello di Hollywood, ha fornito ancora una volta la misura delle sue rare capacità di interprete. Ogni volta che essa appare sullo schermo, la scena si anima e si ravviva in una vibrazione umana e poetica avvertibile anche dallo spettatore più distratto”.

 

Anna è sempre la grande, incredibile donna che riesce a sembrar bella senza esserlo.

Dal monologo disperato de L’amore rivediamo le scene chiave e sentiamo che fu così, allora, in quell’Hotel Savoy, a Roma, da cui un bel mattino Roberto uscì per volare in America senza dire dove andava.

 

Ingrid aspettava lui, uomo di successo, arrivato per gli Awards assegnati a Paisà, conosciuto e amato tanto dagli americani da fargli dimenticare gli impegni con la Panaria e il soggetto scritto dal cugino per un film da girare alle Eolie.

Ma Roberto era questo, prendere o lasciare, e non si poteva non amare i suoi occhi sorridenti e ironici, e il suo “bisogno di costruire il mondo”.

 

Anna conosceva bene Roberto e sapeva che un giorno l’avrebbe perduto, ma non si arrese, volle realizzare comunque il film pensato per lei, e con il regista William Dieterle e il gruppo della Panaria Film pose il set alle Eolie e lo chiamò Vulcano.

 Lei, soprannominata “la diva sismica”, arrivò con i due fedeli cagnetti e un compenso stratosferico per essere Maddalena Natoli, e sembrava a casa sua.

L’altra ebbe il suo da fare nella parte  di Karin Bjiorsen per adattarsi  a Stromboli e alla durezza delle riprese, ma Roberto doveva “scrollarle di dosso la polvere di Hollywood” perché emergesse quella “donna che si scontra con una natura potente” che gli serviva.

Il ritmo concitato che Patierno dà ora alle scene è perfetto, l’arrivo del marito svedese che piomba a Roma, il dialogo fra i due che sembra filmato dal vivo, Ingrid che non riusciamo più a separare da Karin né Anna da Maddalena, il commento che a tratti si colora di quel sorriso che viene a rileggere vecchie storie “…e in quel luogo lontano dal mondo Ingrid si abbandona a Roberto”.

 

Sullo sfondo di una natura potente, fra mare e  vulcani che inseriscono intermezzi di colore nelle riprese, come a segnare una distanza fra il bianco e nero del ricordo e il ciclo immutato della natura, rinasce, viva e attuale, una storia quasi dimenticata, due film che furono un flop per i loro produttori, non lastricarono d’oro la strada dell’arte, ma ci dissero con tanta verità come eravamo.

 Il vulcano però è sempre là, non muta nel tempo, chiude lo speaker.

Una verità semplice, ma non banale.

 

 

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