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Dell'acqua tofana e delle pozioni fatali
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Dell'acqua tofana e delle pozioni fatali

"Il termine veleno si presta a varie dissertazioni; presso i Romani si faceva una distinzione tra venenum bonum, quello che serviva a curare e venenum malum quello che era letifero. La dualità semantica del vocabolo anglosassone «gift» che nella lingua tedesca designa il «veleno» e nella lingua inglese il «dono» è stata discussa ampiamente da etimologisti e sociologi." (Francesco Mari) 

 

Giulia-Tofana-2

 

Acqua, qualcosa di estremamente vitale e importante, eppure così apparentemente insignificante agli occhi di tutti. Cade dal cielo, alimenta fiumi, torrenti e mari. Basta aprire un rubinetto e fluisce corrente nelle nostre case. Era di certo un pò più complicato, invece, recuperarla per usi domestici nel medioevo. Allora bisognava piegarsi a una fontana, magari anche scomoda da raggiungere, o manovrare la carrucola di un pozzo. Gli usi del prezioso liquido potevano, come oggi del resto, essere diversi: dal semplice sostentamento ai bagni di gioventù, oppure era un elemento indispensabile per realizzare elisir di salute o filtri d'amore. Inodore, insapore, necessaria, l'acqua fonte di vita. Ma anche, quando combinata con opportuni elementi, fonte di morte mutando in veleno. Veleno, la cui radice etimologica rimanda a Venere (venus, venenus) e quindi, per natura, intimamente collegato all'universo femminile. L'acqua da sempre è stata alleata, quando trasformata in pozione mortale, del sesso debole, sin da tempi remoti. Mutata in sostanza letifera, offriva una necessaria soluzione in grado di porre la donna in predominanza sulla forza bruta dell'uomo, soprattutto in tempi in cui i matrimoni erano combinati e il divorzio era ben lontano dall'essere, per legge, opzione fruibile. Giovani e graziose ragazze, destinate contro il loro volere magari ad anziani ricchi e possidenti. Quale migliore soluzione, pur drastica, infallibile e soprattutto invisibile, per porre fine a situazioni imposte dal patriarcato e da una società incivile? Tanto che nel Seicento a Roma, Napoli, Palermo e Perugia, nella terribile forma "tofana", l'acqua divenne un elemento di macabro commercio. Garantendo la morte alla malcapitata vittima designata, in tempi brevi ma non sospetti (in genere 15, 20 giorni), apparentemente "andata" per decorso naturale senza lasciare tracce sul cadavere, che appariva anzi di colorito roseo, al contrario dell'effetto venefico generico che lasciava tracce verdastre o evidenti lividi sul volto del bersaglio.

 

Giulia-Tofana-1

 

Acqua tofana, nota anche come toffana, tufanica, tufania o acqua perugina o, in gergo più confidenziale, acquetta, manna di San Nicola o acqua di Napoli: contenente arsenico, belladonna, piombo, alcoolato di cantaridi. In che misura gli ingredienti erano distillati non è dato sapere ma all'epoca una donna, Giulia Tofana, sapeva sapientemente maneggiare i composti per dare perfetta sostanza e forma al veleno.

Nata a Palermo, nei primi anni del 1600, si narra che Giulia fosse o figlia o nipote di Thofania d'Adamo, guarda caso donna giustiziata a Palermo nel luglio del 1633, con capo d'accusa: "avvelenamento del marito Francesco". A farle compagnia, il giorno dell'esecuzione, era presente anche il suo accusatore, Placido di Marco, che dopo aver confessato sotto tortura venne squartato nella pubblica piazza. Il legame stretto (figlia o nipote) di Giulia rispetto a Thofania, giustifica la sapienza della prima sul micidiale composto, e pure il suo odio verso il genere maschile. Stando a fonti ovviamente incerte, pare che l'acqua tofana sia stata scoperta da Thofania d'Adamo, mentre Giulia ne avrebbe fatto in seguito commercio, sdoganandola da Palermo per diffonderla su territorio nazionale. Rimasta sola, ossia dopo la tragica morte di Thofania, Giulia per sopravvivere oscillava tra due professioni: prostituta e fattucchiera. Si rese conto, però, che essere palpata, accarezzata e posseduta da uomini spesso anziani e forse anche puzzolenti non le dava piacere, al contrario il piacere lo ricavava dal far loro chiudere gli occhi. Per sempre. Giulia ne fece dunque commercio, dell'acqua tofana, vendendo boccette per 200 scudi d'oro, diventando in breve tempo assai ricca e coinvolgendo anche la sorella, da parte di madre, Girolama Spera. Questo sommerso e invisibile commercio di morte con il passare del tempo divenne a suo modo emblematico atto di guerra verso il genere maschile. Giulia doveva sicuramente unire, all'interesse economico, una spirito altruista verso le altre donne, ovvero le maritate senza speranza. L'acqua tofana, nella sua composizione ottimale, appariva trasparente e incolore, impercettibile ai sensi in quanto inodore, pertanto un veleno ideale da somministrare, gradualmente (giorno per giorno) con gocce celatamente poste in bevande o cibi destinati all'ignara vittima. Omicida seriale dunque, dato l'alto e incalcolabile numero di vittime che tramite il passaggio delle ampolle - quindi di mano in mano - a livello che oggi definiremmo virale, sono cadute a causa sua. Una femminista ante litteram, nella guerra contro gli ubriachi stupratori e i mariti maneschi? Anche. Giulia era analfabeta, tuttavia la sua capacità di mettere assieme i micidiali elementi per dare origine al composto le diedero superiorità e riscatto nei confronti di chi sapeva leggere e scrivere, magari finendo i suoi ultimi giorni sorseggiando lentamente l'acqua tofana. Abituata a cedere il suo corpo come merce, era solita giacere anche nel letto di preti e uomini di chiesa: fu proprio grazie alla solidale amicizia (sessuale) con un frate speziale che riuscì a procurarsi gli ingredienti necessari a comporre l'acqua tofana. E così, dopo aver inventato e diffuso il veleno più efficace mai concepito, finiva per venderne una dose a un distratto acquirente, tale Spadafora che, volendo eliminare velocemente un rivale in affari, gli somministrava veleno troppo frettolosamente e in gran quantità, provocandone un decesso repentino. Finita nelle mire dell'Inquisizione, riparava sotto la protezione di un altro frate, Girolamo di Sant'Agnese, che la ospitava - assieme alla sorella Girolama - a Roma, nell'ambiente ecclesiastico. Gli anni ronzavano attorno al 1640: Giulia, a spese dell'amante clericale, trovava alloggio in un elegante appartamento nel rione Trastevere. Pare che in questa occasione avesse velocemente imparato a leggere e scrivere, nonché a vestire con eleganza da vera dama di corte. Palermo e gli anni oscuri della prostituzione erano per lei solo un lontano ricordo, il nuovo livello sociale la metteva ora in contatto con prelati e aristocratici. Giulia voleva forse stendere un velo sul passato, i delitti dovevano forse finire. Senonché, per risollevare moralmente un'amica maltrattata dal coniuge - nella città Santa e in barba all'Inquisizione - ancora una volta riforniva la donna di acqua tofana. E riaffiorava pure la sua vecchia attività, destinata a una clientela selezionata ed esclusivamente femminile, tranne un'unica eccezione. Le versioni della sua storia qui si fanno vaghe e variano. Anche se la più plausibile vuole che Giulia abbia venduto la pozione alla contessa di Ceri che, per quanto prima liberarsi dell'incomodo marito, gli versò un'intera boccetta di acqua tofana nel pasto. L'improvvisa morte dell'uomo mise in allarme i parenti e con loro i poliziotti che ben presto arrivarono a rintracciarla. Giulia subiva infine processo assieme, impressionante dirlo, altre 600 clienti romane (un solo acquirente era di sesso maschile) che tra il 1633 e il 1651 avevano fatto ricorso al veleno. Numero sconcertante, come detto, in considerazione anche del fatto che riguardava l'attività criminale di Giulia e delle sue acquirenti solo in area romana. Quante erano state le altre ignare vittime, tenendo conto anche del suo agire a Palermo, Napoli, Perugia e chissà in quali e quante altre città? L'acqua tofana, come un virulento virus mor(t)ale trasmesso - da donna a donna, da uomo a uomo - partendo proprio dal suo inventore (il paziente zero, portatore sano), ha lasciato dietro di sè incalcolabili vittime. Incalcolabili dato l'impeccabile successo del composto. Quale fu il destino di Giulia, artefice di uno sterminio di massa il cui numero di vittime non potrà mai essere identificato, nemmeno approssimativamente? Condannata alla pena capitale, assieme alla sua ultima cliente (la contessa Ceri), venne murata viva nel Palazzo della Sacra Inquisizione, a porta Cavalleggeri. Mentre gli operai scavavano le nicchie a loro destinate, le due donne invocavano inutilmente pietà gemendo, urlando e piangendo. Non volevano lasciare la vita, non così, perlomeno non in quel modo orribile e disumano. I soldati le spinsero a forza nei loculi, mentre gli operai avrebbero poi proceduto a murarle vive, impassibili alle loro irrefrenabili grida e alle copiose lacrime versate. L'agonia delle povere disgraziate diventava, lentamente, sempre più silenziosa, sino a cedere posto - dopo diversi giorni di inimmaginabile tormento - alla morte, giunta probabilmente loro come gradita liberazione. Nel 1651 l'acqua tofana circolava ancora, l'eredità di Giulia era passata nelle mani della sorella Girolama che però - meno fortunata della parente - nel 1659 venne arrestata e giustiziata, assieme alle sue collaboratrici, a Campo dè Fiori.

 

2048px-death-comes-to-the-banquet-table-memento-mori-martinelli-noma

 

Lagoon (Einmusik & Jonas Saalbach)

 

"Non ricordo più l'odore dei fiori, i sapori di un piatto pieno
E nemmeno i colori di un arcobaleno
Ma non scorderò mai il veleno che bevo ogni giorno
Non aspettarmi tesoro, stavolta non torno."

(Emis Killa)

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Titolo suggerito dal benemerito Marcello del Campo

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Cloud Atlas

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  • Germania, USA
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Titolo originale Cloud Atlas

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Barry Lyndon

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In streaming su Raro Video Amazon Channel

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Film aggiunto da vermeverde

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