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Festa del Cinema di Roma 2019: le recensioni
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pazuzu

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Festa del Cinema di Roma 2019: le recensioni

Per la quinta volta consecutiva ho avuto l'onore anche quest'anno di assistere alla Festa del Cinema di Roma (e ad Alice Nella Città) con il ruolo privilegiato di inviato di FilmTv.it.
A fronte della vittoria a sorpresa del premio del pubblico da parte di Alessandro Piva e del suo Santa Subito, che ho apprezzato ma senza spellarmi le mani, non posso non assegnare il mio primo posto all'epico canto del cigno del gangster movie diretto da Martin Scorsese, Irishman, seguito dal folgorante esordio alla regia di Edward Norton con Motherless Brooklyn, spassoso anche come attore nel ruolo di un investigatore affetto dalla sindrome di Tourette che scandaglia l'anima della New York degli anni '50; la mia terza piazza vede un ideale ex equo tra La Belle Epoque di Nicolas Bedos, ovvero il cinema che celebra la propria capacità di far sognare e rivendica il potere di incidere sulle esistenze, The Farewell di Lulu Wang, regista sino-americana che scandaglia con delicatezza lo iato culturale che rimarca la distanza che c'è tra la sua patria naturale e il suo paese d'adozione, e Le Jeune Ahmed, con il quale i fratelli Dardenne testimoniano, con il rigore che gli è proprio, lo sprofondare nell'abisso del fondamentalismo religioso da parte di un ragazzino mediorientale di casa in Belgio.
Quella che presento qui è la mia personale classifica, che stilo mettendo in fila in ordine di gradimento, partendo da questi cinque e passando anche per il succitato vincitore, tutti i venti film che ho visto e recensito in questi dieci giorni: a beneficio di chi volesse farsi un'idea d'insieme o anche per chi non avesse avuto il tempo di star dietro alle pubblicazioni avvenute giorno per giorno. Cliccando sui voti espressi in stellette in coda ad ogni recensione verrete reindirizzati alle pagine originali delle stesse, dove poter consultare anche i trailer sia in lingua originale che in italiano, laddove entrambi esistenti e/o disponibili.

Playlist film

The Irishman

  • Biografico
  • USA
  • durata 210'

Titolo originale The Irishman

Regia di Martin Scorsese

Con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Jesse Plemons, Bobby Cannavale

The Irishman

In streaming su Netflix

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Con un racconto che attraversa in lungo e in largo quasi cinquant'anni di storia, Martin Scorsese realizza un film che ha la potenza, il passo ed il lirismo per poter aspirare ad ergersi a capitolo conclusivo di un genere: quel gangster movie 'classico' incentrato sulla criminalità organizzata negli Stati Uniti del dopoguerra di cui lui stesso è stato il capofila a partire dagli anni '70: lo fa - segnando ulteriormente la fine di un'epoca - con una produzione Netflix destinata principalmente alla fruizione online, dopo che l'alto budget richiesto aveva fatto recedere diverse case di produzione nel corso degli anni. Nel suo essere la mastodontica trasposizione in immagini (tre ore e mezza) di un romanzo (I Heard You Paint Houses di Charles Brandt) che attraversa i decenni, The Irishman presentava infatti la difficoltà tecnica di dover far ringiovanire di una trentina d'anni Robert De Niro (anche produttore), Al Pacino e Joe Pesci per ampi tratti della storia: il risultato del lavoro in CGI della Industrial Light & Magic, a tal riguardo, è stato addirittura portentoso.

A narrare in prima persona una storia che parte dalle dinamiche interne alla malavita e passa per i suoi incastri con la politica per arrivare alla controversa sparizione del sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino), è il sicario Frank Sheeran (Robert De Niro), ad ottanta suonati, ridotto in sedia a rotelle dalla vecchiaia e con lo sguardo disincantato di chi sa di averne viste e fatte tante ma sa anche di esser vicino alla propria ora e di dover quindi iniziare a tirare le somme della propria esistenza. Lungi dal voler dare al proprio film un alone malinconico o peggio ancora nostalgico, uno Scorsese in stato di grazia, capace di gestire la complessità dell'intreccio con una naturalezza che ha del miracoloso, colloca anagraficamente nella 'terza età' la prospettiva di un racconto che, seppur nella prima parte sia 'canonicamente' convulso e ritmato, nella seconda (la migliore) rallenta e si fa riflessivo: e allora il tempo che passa, l'amore che svanisce, il rimorso per un tradimento, fanno da anticamera al pensiero della morte, che si avverte sempre più incombente e inesorabile (e non è certo un caso se l'apparizione di ogni personaggio secondario è accompagnata da una didascalia che indica come e quando morrà); tutto ciò senza voler mitizzare il 'cattivo', anzi, appunto, cogliendone se possibile - e paradossalmente - gli aspetti più umani e introspettivi.
VOTO: ****½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Motherless Brooklyn - I segreti di una città

  • Drammatico
  • USA
  • durata 144'

Titolo originale Motherless Brooklyn

Regia di Edward Norton

Con Edward Norton, Bruce Willis, Willem Dafoe, Leslie Mann, Fisher Stevens, Gugu Mbatha-Raw

Motherless Brooklyn - I segreti di una città

In streaming su Amazon Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE - FILM D'APERTURA

Nella New York degli anni '50, Lionel Essrog (Edward Norton) si dà da fare come aiutante del detective privato Frank Minna (Bruce Willis), che da piccolo lo aveva prelevato da un orfanotrofio nel quale le suore gli impartivano la loro educazione a suon di botte: incurante della sindrome di Tourette da cui è affetto, che gli causa tic bizzarri e gli fa uscire dalla bocca - involontariamente - suoni e parole spesso censurabili, Frank (che lo chiama Brooklyn) lo considera da sempre il migliore delle sue quattro spalle ed apprezza la meticolosa precisione della sua mente ossessiva. Quando questi viene fatto fuori in circostanze misteriose, Lionel 'Brooklyn' dà fondo alle capacità della propria memoria per rimettere insieme i pezzi dell'indagine che l'ha portato alla morte: progressivamente abbandonato dai tre ex compari, presto dimostratisi inadatti (chi per incapacità e chi per ignavia) ad indagare con la schiena dritta, si ritroverà solo a girare tra i sobborghi, scoprendo un intreccio che tira in ballo l'uomo più influente e pericoloso della città.

Dopo aver preso per la prima volta in mano nel 1999 il romanzo Motherless Brooklyn di Jonathan Lethem (ambientato negli anni '90), Edward Norton ha impiegato vent'anni per scrivere (traslandolo indietro di quaranta) questo adattamento, dirigerlo, produrlo e recitarci come protagonista. La lunga attesa è però servita ad ottenere risultati ottimi: Motherless Brooklyn è un noir scoppiettante, montato (da Joe Klotz) in maniera veloce ma non frenetica, e soprattutto incentrato su un personaggio spassoso che, se da un lato permette a Norton attore di gigioneggiare a briglia sciolta, con un'infinita serie di smorfie, urli e falsetti in rima giustificati dagli scompensi del personaggio, dall'altro dà a Norton sceneggiatore e regista la possibilità di mitigare la tensione della storia intervallandola con impagabili momenti di humor nonsense; e merito tutto suo è quello di riuscire a non annacquarla mai, tenendo la teoria delle cantilene tourettiane del protagonista come una sorta di arma da usare alla bisogna attingendo ad un canale parallelo ma affatto secondario, essendo la sindrome del protagonista parte fondante dell'ossatura del racconto, per come, a portarlo ossessivamente alla ricerca della soluzione, sia proprio la sua necessità patologica di dare un ordine al caos che c'è (non solo) nella sua testa (ma anche fuori).

Il girovagare con la leggerezza di un bambino tra gli 'slums' di Brooklyn, i jazz club di Harlem e le stanze del potere di New York City di questo strambo detective snobbato da tutti e fuori dagli schemi, varrebbe il prezzo del biglietto anche solo se si limitasse ad essere un omaggio ad una città - e ai suoi ritmi - che il regista e l'autore del libro evidentemente amano: in più, e non è poco, c'è una storia credibile, divertente e ben strutturata.
Da segnalare, accanto al corposo score di Peter Pemberton e alla colonna sonora prevalentemente jazz, la presenza di una ballata scritta e interpretata da Thom Yorke & Flea appositamente per il film, intitolata Daily Battles.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La belle époque

  • Commedia
  • Francia
  • durata 110'

Titolo originale La belle époque

Regia di Nicolas Bedos

Con Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Doria Tillier, Fanny Ardant, Pierre Arditi

La belle époque

In streaming su iWonder Full Amazon channel

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - TUTTI NE PARLANO

Victor e Marianne si conobbero nel maggio del 1974 in un café di Lione chiamato La Belle Époque. Da allora è passata veramente una vita: i due nel frattempo si sono sposati e hanno avuto un figlio ed alterne fortune sotto il profilo professionale. Lei fa la psicoterapeuta e si ritiene professionalmente soddisfatta, lui è un fumettista ma da tempo è disoccupato, perché il giornale per il quale creava caricature ha ridotto il proprio budget ed ora lavoro solo sul web. Già, la tecnologia: è in lei che Victor riconosce la sua peggior nemica, ma questo è solo uno dei mille terreni sui quali si sviluppano le dispute ormai quotidiane con Marianne.
Quando lei, che nel frattempo ha iniziato anche a tradirlo con un suo amico, lo caccia di casa, Victor, ormai annichilito, non esita ad accettare l'invito ricevuto recentemente dalla Time Traveller, un'agenzia che permette, grazie ad attori, scenografie, trucchi e comparse, di mettere in scena qualsiasi giorno, personaggio o epoca storica richiesta dal committente. Victor, ovviamente, decide di tornare in quel café nel maggio 1974 per rituffarsi nel suo primo incontro con Marianne, quando lui ancora si sentiva attraente e quando lei (che ora lo scaccia) iniziò ad innamorarsene.

Scritto e diretto da Nicolas Bedos, La Belle Époque è cinema che celebra la propria magia e la propria capacità di incidere sulle esistenze, e nel farlo ricama una storia fantasiosa, emozionante, a tratti esilarante. La voglia di Bedos di sballottare il pubblico tra realtà e finzione è chiara e dichiarata già dalla prima sequenza, un convivio in costume ambientato nel XVIII secolo nel corso del quale presto intervengono i telefoni cellulari: lo spettatore apprende così assieme a Victor di star assistendo al trailer girato da questa bizzarra agenzia che ha deciso di inventarsi un nuovo businnes, quello della nostalgia, pronta a far cenare con Hemingway, a far prendere di petto Hitler, o anche solo a far rivivere qualche genitore perso anni addietro a chiunque glielo chieda. La scelta, romantica e perdente, del protagonista di rifugiarsi nel ricordo di quel giorno che gli cambiò la vita, giunge proprio quando l'incantesimo nato allora sembra esser svanito, perché l'amore è diventato abitudine e l'attrazione ha lasciato il posto a una reciproca frustrazione.

L'apatia e lo stallo emozionale che hanno mandato a scatafascio il matrimonio tra Victor e Margot si incrociano e si oppongono con il rapporto carnale e del tutto irrazionale che corre tra Antoine, il regista della messinscena nella quale Victor ha scelto di calarsi, e Margot, la giovane attrice che recita il ruolo di Marianne giovane e che lo porterà a perdere di nuovo la testa. Merito enorme di Bedos, come regista e come sceneggiatore, è aver saputo gestire la tanta carne che via via viene messa al fuoco senza che nulla appaia mai di troppo: l'insicurezza di Victor (un divertente e divertito Daniel Auteuil), l'insofferenza di Marianne (un'elettrica Fanny Ardant), l'irrequietezza di Antoine (un incontenibile Guillaume Canet) e l'esuberanza di Margot (un'intensa Doria Tillier), alimentano la fiamma di un racconto che avvince e cresce di minuto in minuto fino a che ad entrambe le coppie non sarà chiaro che quel che serve, all'una e all'altra, è accettarsi reciprocamente e con ciò fermarsi a riflettere su come si cambia insieme e su come si viene cambiati dall'altro, cercando in questa riflessione la chiave che porti a sviluppare quel presupposto immancabile che risponde al nome di fiducia.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Farewell - Una bugia buona

  • Commedia
  • USA, Cina
  • durata 98'

Titolo originale The Farewell

Regia di Lulu Wang

Con Awkwafina, Shuzhen Zhou, Tzi Ma, Gil Perez-Abraham, Jim Liu, Diana Lin, Yongbo Jiang

The Farewell - Una bugia buona

In streaming su Infinity Selection Amazon Channel

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

A quasi trent'anni, Billi vive da sola a New York in una casa in affitto, cerca di campare scrivendo, spera in una borsa di studio e di tanto in tanto si appoggia ai genitori, che da bambina l'hanno portata lì da Changchun, in Cina, dove è nata. Si trova però costretta a tornarci suo malgrado quando apprende che il cugino Hao Hao, a sua volta emigrato in Giappone con il padre artista, sta per sposarsi con una ragazza conosciuta da poco. Indagando sulla strana notizia, viene messa a parte della verità: il ritorno in patria ha lo scopo di permettere alla nonna Nai-Nai, cui è legata e che sente spesso, di vedere tutta la famiglia unita per un'ultima volta prima di morire, dato che ha un tumore al quarto stadio ad un polmone e una prospettiva di tre mesi di vita; ma il matrimonio è solo una bugia messa in piedi per giustificare l'arrivo di tutti, dal momento che Nai-Nai è all'oscuro della propria malattia e nessuno ha intenzione di dirle come stanno realmente le cose per non rovinare l'ultimo metro del suo sereno percorso su questo mondo.

La didascalia che apre The Farewell informa che il film è «tratto da una bugia vera», un'affermazione che, presumibilmente, vuole informare sulla presenza di tratti autobiografici, essendo la sceneggiatrice e regista Lulu Wang, al pari della protagonista, nata in Cina per trasferirsi da giovane negli Stati Uniti e poi intraprendere lì studi classici. The Farewell ha il suo fulcro proprio in quella bugia, una bugia bianca detta a fin di bene al posto di una verità 'nera', che però fa emergere l'abisso che separa la cultura occidentale in cui la ragazza è cresciuta (lei che mai vorrebbe tacere all'amata nonna quali siano le sue reali condizioni di salute), da quella orientale da cui proviene, che ha abbandonato e in parte dimenticato così come alcune parole del suo cinese rimasto stentato.
The Farewell scorre lento e al tempo stesso teso sul filo di un'incomprensione, e si sofferma su dialoghi apparentemente banali o superflui ma che in realtà grattano la crosta di una confusione che si fa dissidio interiore, cercano il nodo di una contraddizione marcando una diversità che sta nel senso stesso che si dà alla vita, alla morte, alla famiglia e alla società. Con leggerezza di tocco e un senso dell'umorismo sottile, Wang si insinua in un bing bang culturale che sente proprio e lo fa come altro non potrebbe: osservando la discrepanza che c'è tra i codici che regolano la percezione stessa degli eventi, sorridendoci sopra ed evitando rigorosamente di giudicare.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

L'età giovane

  • Drammatico
  • Belgio
  • durata 84'

Titolo originale Le jeune Ahmed

Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne

Con Idir Ben Addi, Olivier Bonnaud, Myriem Akheddiou, Victoria Bluck, Claire Bodson

L'età giovane

In streaming su Chili

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ALICE NELLA CITTÀ 2019 - FUORI CONCORSO

Ahmed Abou Salah vive in Belgio con la propria famiglia di origini magrebine: ha tredici anni, e prega Allah tenendo sotto il tappeto la foto del proprio cugino, morto suicida per l'Islam. L'imam Youssuf, al quale affida la propria preparazione religiosa preferendola di gran lunga all'educazione impura che gli viene impartita a casa e a scuola, gli insegna l'ammirazione per questo cugino martire, fornendogli la propria lettura radicale del Corano, convincendolo che chi segue confessioni diverse è un nemico e che alle donne non si stringe la mano, che non possono bere, devono indossare il velo e portare rispetto.
Ascoltati e fatti propri i precetti che l'imam gli enuncia, predicando il proprio fanatismo con una fermezza che ai suoi occhi ancora poco allenati all'analisi critica e alla mediazione appare convincente, Ahmed a casa prende sempre più di petto la madre rinnegando la memoria del padre, troppo morbido per i suoi gusti, e a scuola affronta la professoressa Ines in maniera via via più sfrontata ed aggressiva: riconoscendole, come aggravante rispetto alla colpa stessa di avere seppur donna un potere su di lui, la responsabilità di voler far partire un corso che insegni la lingua araba moderna ricorrendo alle poesie e alle canzoni, destituendo da questo compito quello che a suo avviso è l'unico mezzo deputato a farlo, il Libro Sacro. Si convince così che l'unica soluzione per far giustizia e sentirsi un buon musulmano sia ucciderla.

Con Le Jeune Ahmed (letteralmente "Il giovane Ahmed", tradotto impropriamente con L'età giovane per il mercato italiano), i fratelli Dardenne, che sceneggiano e dirigono, decidono di seguire lo sprofondare di questo ragazzino nell'abisso del fondamentalismo religioso, e lo fanno secondo il loro consueto stile asciutto, con una camera a mano che lo marca stretto e senza nessun commento sonoro ad enfatizzare alcunché: basta la storia, d'altronde, a coinvolgere e stringere il cuore. I ritrovi con l'imam e l'ossessione per la preghiera, gli scontri dialettici con i familiari e con la professoressa, ma anche la ritrosia a riflettere sulla gravità di alcuni suoi pensieri e azioni con gli educatori e gli psicologi che hanno a che fare con lui, sono passaggi di un percorso che i i due registi osservano con uno sguardo che oscilla tra il distacco e l'impotenza, tanto è oscura e nascosta nel profondo quella parte di lui che antepone l'odio alla possibilità di condividere, amare e confrontarsi.
Il precipizio al quale Ahmed si predispone è dunque lì, chiaro, evidente e ineluttabile, e la convinzione che gli impedisce di accettare o comprendere sia l'affetto di una madre che l'approccio sentimentale di una coetanea è tanto ancorata al proprio stesso essere da indurlo a resistere alle sollecitazioni che gli vengono dal mondo esterno cercando di farlo arrendere all'integrazione, e a simulare di essere 'cambiato' per poter condurre in porto il proprio proposito assassino: fatta salva la possibilità - o eventualità remota - che qualcosa di veramente inatteso possa mutare - d'improvviso - una prospettiva di vita (e di approccio alla stessa) per sempre.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Light of My Life

  • Drammatico
  • USA
  • durata 119'

Titolo originale Light of My Life

Regia di Casey Affleck

Con Anna Pniowsky, Casey Affleck, Tom Bower, Elisabeth Moss, Hrothgar Mathews

Light of My Life

IN TV Sky Cinema Drama

canale 308 vedi tutti

ALICE NELLA CITTÀ 2019 - PANORAMA INTERNAZIONALE

«It's a love adventure»: è un'avventura d'amore. Questa breve frase, pronunciata dalla piccola protagonista sul finire di Light of my Life, definisce quello che con uno slancio di romanticismo potrebbe esserne considerato il genere d'appartenenza: l'amore, in questo caso, è quello dalla portata universale che può unire un padre e una figlia coalizzati contro tutto e tutti, o meglio, costantemente all'erta nei confronti di un mondo sconvolto da una pandemia che dieci anni prima ha sterminato quasi interamente la popolazione femminile, lasciando gli uomini soli in uno stato di placido squilibrio. Sotto la scorza esposta del post-apocalisse pulsa - neanche troppo sotterranea - una metafora sull'esser genitori single in una famiglia spezzata, sul barcamenarsi in una società che non dà punti di riferimento e nella quale il concetto di fiducia si fa via via più vacuo e astratto.

Casey Affleck (che scrive, dirige e recita) e la piccola Anna Pniowsky vagano verso nord tra le cittadine quasi fantasma del midwest americano, spostandosi tra i boschi, accampandosi dove capita, e talvolta occupando case rimaste incustodite perché chi prima le abitava ora giace putrefatto in cantina. La parabola di questo padre che non è ancora riuscito ad elaborare del tutto il lutto della moglie, e della figlia nata poco prima che la 'peste femminile' sconvelgesse tutto e rivelatasi miracolosamente immune, ha lo stesso ritmo lento e compassato dei racconti con i quali lui cerca di spiegare a lei le regole, sempre più impazzite, che governano una convivenza che ormai quasi non è più tale, tra gli uomini che abitano la Terra.

Papà e figlia vivono i postumi di una doppia catastrofe, personale e planetaria, tanto che l'infanzia nella quale s'è trovato ad educarla - costretto a conciarla come un maschietto perché in quanto femmina è merce rara quindi in pericolo - non è altro che un'infanzia votata alla sopravvivenza: lui vive per proteggerla faticando a trovare le parole per definire la crudeltà umana, lei vorrebbe sempre agire d'impulso, ma il rischio è la vita. Lui dovrà iniziare a credere nelle capacità di una ragazzina, che ha pur sempre il vantaggio di non aver mai conosciuto altra realtà che quella, di aver appreso come dominarla in situazioni critiche, e lei dimostrare di esserne in grado, sì da poter esser lei, in caso di necessità, a rassicurarlo che è tutto ok e che quella che stanno vivendo, in fondo, «It's a love adventure»: è un'avventura d'amore.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Trois jours et une vie

  • Drammatico
  • Francia
  • durata 120'

Titolo originale Trois jours et une vie

Regia di Nicolas Boukhrief

Con Sandrine Bonnaire, Charles Berling, Margot Bancilhon, Philippe Torreton, Pablo Pauly

Trois jours et une vie

In streaming su Rai Play

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Pronti, via. È il giorno di Natale del 1999 ad Olloy, nelle Ardenne belghe, e un gendarme chiama a raccolta la popolazione del villaggio parlando ad un megafono: si sta cercando un bambino scomparso da poco, e per farlo si perlustrerà il bosco e tutti potranno dare una mano.
Il nastro si riavvolge, si torna indietro di tre giorni, al 22 dicembre, e si riparte dalla storia di Antoine un ragazzino di dodici anni, orfano di padre e con la passione per l'anatomia, affezionato al medico del paese ed invaghito della coetanea Emily, che in realtà già tresca con Theo.
Passa un'ora e il racconto stavolta si sposta in avanti, di ben 15 anni, con Antoine ormai ventisettenne che sta per laurearsi in medicina e torna al paese per festeggiare il Natale con la madre, il medico del villaggio che sta per andare in pensione ma non sa a chi vendere il proprio studio, Theo che è diventato dj ed Emily che è diventata bellissima ed ha il ragazzo nella lontana Parigi.
Seguiranno ulteriori smottamenti temporali, ma al centro della narrazione, per tutte le due ore di un Trois jours et une vie, film sorprendentemente tirato e coerente nei toni e nella forma, resterà sempre la sparizione di questo bambino ed i suoi effetti.

Quel che sorprende, in una storia per raccontare la quale era fortissimo il rischio di perdersi, o meglio di disperdere la presa sullo spettatore tra un'ellissi e l'altra, è la capacità del regista Nicolas Boukhrief e degli sceneggiatori (Perrine Margaine e Pierre Lemaitre, quest'ultimo autore del libro da cui tutto origina) di spiazzare, fornendo quasi all'inizio una risposta che abitualmente, in film di questo genere, viene data nel finale ("chi ha fatto cosa?"). Riescono nell'operazione costruendo un racconto spiazzante, che inizia come una commedia sull'infanzia a là Stand by me, per poi prendere bruscamente, in seguito ad un colpo di scena di grande impatto, la strada del thriller e scegliere come fulcro non la scomparsa a cui si faceva riferimento nella prima scena ma i modi e i tempi del disvelamento di un terribile segreto ad essa strettamente connesso.
L'unica esitazione, comprensibile e perdonabile, si avverte nella parte centrale, quando, per un breve lasso di tempo, la direzione da prendere sembra indecisa: di lì a poco, comunque, il senso di colpa di 'chi ha fatto cosa' ricomincia a lavorare e a diventare, più ancora che in precedenza, il motore di un'opera sfaccettata e convincente capace - anche - di fingere due o tre finali interlocutori per poi piazzare quello definitivo che (al netto di qualche piccola forzatura) fa tornare un po' tutti i conti ed uscire dalla sala soddisfatti.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Antigone

  • Drammatico
  • Canada
  • durata 109'

Titolo originale Antigone

Regia di Sophie Deraspe

Con Nahéma Ricci, Antoine DesRochers, Rachida Oussaada, Nour Belkhiria, Rawad El-Zein

Antigone

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Dopo la tragica morte dei genitori, la sedicenne Antigone si è trasferita insieme alla nonna, alla sorella e ai due fratelli maggiori, da una città mediorientale a Montreal, in Canada, dove vive in un quartiere povero e coltiva dignitosamente la propria passione per la poesia, segnalandosi come studentessa modello al liceo che frequenta. Perfettamente integrata nella società, ha cominciato a vedersi con Haemon, figlio di un personaggio in vista e di due anni più grande di lei. Quando però Eteocle, il più grande dei fratelli, viene ucciso dalla polizia che ha scambiato il cellulare che ha in mano per un'arma, il mondo le cade addosso, e a peggiorare la situazione è il fatto che ciò è accaduto durante l'arresto per spaccio dell'altro fratello, Polynices, che subito dopo il misfatto si è scagliato contro i poliziotti aggravando la propria posizione. Polynices, all'ennesima reclusione, difficilmente uscirà, anzi probabilmente verrà espulso, quindi Antigone decide di sacrificarsi per lui: taglia i capelli e copia i suoi tatuaggi con l'obiettivo di andare a fargli visita e sostituirsi a lui, dando a lui la possibilità di scappare e confidando, per sé, nella possibilità di ottenere delle attenuanti essendo incensurata.

Il nome dato dalla regista canadese Sophie Deraspe ai personaggi di questa storia, ovviamente, non è casuale: Antigone è, per sua stessa ammissione, una rivisitazione della tragedia di Sofocle aggiornata, secondo la sua sensibilità laica, a questa epoca segnata da grandi flussi migratori. È Antigone il fulcro della storia, così come lo è la sua personale battaglia in difesa di quel fratello altrimenti destinato a venir rispedito nel paese da cui è scappato: un fratello che non è uno stinco di santo, spacciando coca per la gang 'habibis', come immacolato non era nemmeno il maggiore, quello finito ucciso, la cui fedina penale era pulita solo perché, essendo ad un livello più alto, lasciava ad altri il lavoro sporco. Deraspe ci fornisce queste informazioni attraverso un agente che interroga Antigone, ma dopo averlo fatto torna a metterle sullo sfondo, non perché non voglia dargli rilevanza, ma perché è ad Antigone, alla sua battaglia e al suo esclusivo punto di vista che consegna idealmente la propria telecamera: a prescindere dalle colpe di cui i suoi fratelli si sono macchiati, quel che resta è il fatto che uno è stato ucciso ingiustamente dallo stato e l'altro messo dentro dopo averlo difeso. In tempi di internet e social network, la battaglia di Antigone in difesa della propria famiglia e contro un'autorità ingiusta che soffoca la libertà ed uccide, divengono virali come virale diviene la solidarietà tra tutti coloro che ne subiscono l'arbitrio.
Ad impersonare questa eroina antica e moderna, che mette la salvezza della propria famiglia davanti alla sua stessa vita e che antepone i sentimenti alle leggi degli uomini, e la cui strabordante energia è amplificata dall'esilità del fisico, è l'ottima e finora pressoché sconosciuta Nahéma Ricci.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Lola

  • Drammatico
  • Belgio, Francia
  • durata 100'

Titolo originale Lola vers la mer

Regia di Laurent Micheli

Con Benoît Magimel, Mya Bollaers, Sami Outalbali, Els Deceukelier, Jérémy Zagba

Lola

ALICE NELLA CITTÀ 2019 - CONCORSO

Lola è una ragazza trans, da poco ha 18 anni e da un po' ha iniziato a prendere gli ormoni in vista dell'intervento che le darà un aspetto che la farà star meglio con sé stessa. Philippe, suo padre, non ha mai accettato queste sue pulsioni, tanto da cacciarla da casa ancora minorenne e costringerla a farsi una vita altrove: ospitata dal coetaneo Samir, che dal proprio padre ha avuto un trattamento anche peggiore, continua a frequentare di nascosto la madre, che invece le sue scelte le rispetta e fa il possibile per aiutarla anche da lontano. Quando questa, malata, muore, il padre riesce a non farle arrivare la notizia per tempo, tanto da farle perdere la cerimonia funebre: il furto delle ceneri da parte di Lola, unito ad un atto di vandalismo (che sa molto di ritorsione) nei confronti del negozio del padre, inducono quest'ultimo a tornare a cercarla. I due, sempre più in rotta di collisione, inizieranno di conseguenza un viaggio insieme per esaudire quello che fu l'ultimo desiderio della donna: esser dispersa nel Mare del Nord, nei pressi di quella che fu la sua casa d'infanzia.

>Laurent Micheli, giovane regista belga al proprio secondo film, affronta con delicatezza il tema forte del conflitto tra il figlio omosessuale e il genitore chiuso, disegnando due personaggi rotondi e ben definiti nei confronti dei quali è possibile empatizzare, ed avvalendosi a tale scopo delle ottime prove degli attori protagonisti: da un lato Lola, interpretata da Mya Bollaers, una vera transgender che, seppur al suo primo ruolo, riesce a trasferire sullo schermo la rabbia e la frustrazione causate da un presente ed un passato di vessazioni e torti; e dall'altro Philippe, cui presta il volto un misurato Benoît Magimel capace, con il passare dei minuti e per merito di uno script non banale, di far emergere il trambusto interiore e l'imbarazzata inadeguatezza di chi ha vissuto come una sconfitta personale il naufragio della propria idea di famiglia "tradizionale".
Strutturato come un classico road movie, Lola Vers la Mer racconta uno scontro che è al tempo stesso un nuovo incontro, tutto vissuto sul filo della tensione che nasce, potenzialmente costruttiva, quando ciascuno espone il proprio punto di vista e lo rende comprensibile all'altro: il tutto contrappuntato dal commento sonoro malinconicamente teso di Raf Keunen e supportato da brani di artisti vicini alle istanze LGBT come Culture Club, 4 Non Blondes e Antony and the Johnsons.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Santa subito

  • Documentario
  • Italia
  • durata 60'

Regia di Alessandro Piva

Santa subito

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Il regista Alessandro Piva afferma di aver approcciato alla storia di Santa Scorese casualmente, incontrando in un evento pubblico la sorella Rosa Maria e ascoltando come, a fronte di una tragedia, questa potesse definire l'assassino di Santa egli stesso una vittima: una vittima dello stato che, ai tempi, non aveva ancora codificato il reato di stalking, ed aveva di fatto 'omesso' di mettere in condizioni di non nuocere un uomo che aveva manifestato in maniera palese il proprio disagio psichico. L'assassinio di Santa, allora ventitreenne, avvenne nel marzo del 1991, e la legga che avrebbe potuto salvarla arrivò dopo altri diciotto anni, lasciando nel frattempo nel pericolo altre migliaia di donne.

Piva dedica Santa Subito «a chi deve sopravvivere», e lascia che a raccontare la vita di questa ragazza sia la sorella di cui sopra, i genitori, e tutte le persone del cui affetto si era circondata, e che ne parlano con stima se possibile aumentata - per lo più gente di chiesa, essendo lei una fervente cattolica che scriveva a Gesù e avvertiva la vocazione, una volta finiti gli studi, di partire come missionaria: il suo documentario, sentito e rispettoso, segue uno stile piuttosto classico, strutturato su un'alternanza tra le varie interviste intermezzate da scorci dei posti in cui ella visse (Bari e Palo del Colle), e diviso idealmente in una prima parte più leggera, nella quale si decanta la giovialità della ragazza, e una seconda più drammatica, che parte quando per la prima volta viene introdotto il discorso dello stalking e del misterioso molestatore, anch'egli proveniente dall'ambiente cattolico ma letteralmente impazzito dopo esser stato rifiutato in un seminario, e nei confronti del quale la polizia aveva le mani legate nonostante l'esistenza di diverse denunce per 'violenza privata'.
Nel piccolo di una produzione senza pretese, Santa Subito consegna alla memoria pubblica la storia, fino ad ora sconosciuta ai più, di una ragazza come tante che ha visto i suoi sogni infrangersi per mano di una mente instabile che lo stato non aveva previsto di dover contenere.

VOTO: ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Where's My Roy Cohn?

  • Documentario
  • USA
  • durata 97'

Titolo originale Where's My Roy Cohn?

Regia di Matt Tyrnauer

Con Roy M. Cohn

Where's My Roy Cohn?

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Roy Cohn fu il consigliere di Joseph McCarty: è questo, in risposta alla domanda specifica di un intervistatore in tv, l'epitaffio che Roy Cohn voleva fosse scritto sulla propria tomba. Lo dichiarò in un'intervista in tv a pochi mesi dalla sua morte - che giunse nel 1986 a causa dell'AIDS - subito dopo aver negato di esserne malato e dopo aver reagito in maniera stizzita all'ennesima allusione alle voci sulla sua omosessualità. Una delle colpe più ignobili di una persona che ricorse ad ogni mezzo per restare sulla cresta dell'onda per oltre trent'anni, nonché la spia più evidente di quanto ogni sua scelta fosse dettata da utilitarismo e ipocrisia, fu proprio quella - nel periodo di McCarthy - di perseguire non solo i presunti comunisti aizzando la gente attraverso la demagogia, ma anche gli omosessuali come lui, stando ben attento a nascondere la propria natura tanto da continuare, dopo diversi anni, a negare l'evidenza fino all'ultimo. Allo stesso modo, sempre in quel periodo, si adoperò - lui figlio di un'ebrea - affinché gli ebrei Ethel e Julius Rosenberg venissero giustiziati per un'accusa di cospirazione ad oggi (per la donna) rimasta senza prove.

A questo personaggio che mise la propria abilità di avvocato senza scrupoli al servizio di chiunque potesse garantirgli un tornaconto, appoggiandosi alla politica, alla stampa e alla malavita, e per il quale il termine 'controverso' non può che rappresentare un banale eufemismo, è dedicato il documentario Where's My Roy Cohn di Matt Tyrnauer, che, senza strafare e limitandosi ad aggiungere dei commenti sonori quasi a simulare di esser dentro una spy story, ricostruisce la sua vita pubblica attingendo alla miriade di apparizioni televisive, e quella privata attraverso le testimonianze di diverse persone che con lui entrarono in contatto diretto, sottolineando anche l'influenza che su di lui ebbero i genitori: una madre priva di empatia che durante un pranzo pasquale preferì nascondere in cucina una domestica appena morta piuttosto che interrompere i festeggiamenti, ed un padre (che pare la sposò senza amarla - brutta com'era - ma solo dietro la promessa di venir promosso a giudice) che aveva la tessera del partito democratico e sin da piccolo lo abituò a riunioni e sotterfugi tra politici.

Ne esce il ritratto di un uomo spregevole, che prima di collaborare con McCarthy fu un pupillo di J. Edgar Hoover (che glielo raccomandò), e che difese tra gli altri John Gotti e un giovanissimo costruttore di nome Donald Trump, insegnando a quest'ultimo l'importanza del non chieder mai scusa, del non ammettere mai i propri errori negando anche l'evidenza, e del difendersi attaccando e screditando l'oppositore: l'incontro e l'amicizia con quest'ultimo, pur risultando solamente uno dei passaggi di una vita trascorsa a far da ponte tra il mondo della legalità e quello dell'illegalità, si staglia inevitabilmente come la prova lampante dell'influenza che questa figura apparentemente di secondo piano ha esercitato sulla politica statunitense, sempre rispondendo al proprio credo, dichiarato pubblicamente e oggi terribilmente condiviso da molti, secondo il quale la legge non è l'esercizio della giustizia ma un campo di battaglia dove conta solo vincere.

VOTO: ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Rewind

  • Documentario
  • USA
  • durata 86'

Titolo originale Rewind

Regia di Sasha Neulinger

Rewind

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Sasha Joseph Neulinger è il regista e il protagonista di Rewind, un agghiacciante documentario autobiografico: l'oggetto del racconto è nientemeno che la propria infanzia, reso possibile dalla mania del padre per la videocamera, comprata proprio nel giorno della sua nascita e da allora tenuta sempre accesa per riprendere ogni evento considerato degno di nota e divenuta, per dirlo con le parole della madre, un muro tra lui e la famiglia. Un muro, appunto, al punto di non accorgersi di ciò che gli accade sotto il naso e che è destinato a segnare per sempre la vita di suo figlio Sasha: è la madre, infatti, ad accorgersi delle involuzioni nei comportamenti del bambino, che dopo il compimento dei tre anni inizia a manifestare difficoltà nell'apprendimento e chiusura verso gli altri, per poi sviluppare veri e propri istinti suicidi; ed è sempre lei che, parlando con il piccolo Sasha e la sorellina minore, inizia a sospettare che qualcosa di veramente terribile stia turbando la loro crescita.

Esser cresciuto con una videocamera sempre a portata di mano e con un padre a sua volta documentarista, ha fatto sì che Neulinger sviluppasse una certa propensione per la costruzione dei racconti tramite immagini: lo dimostra questo film nel quale inizialmente nasconde il nucleo e l'oggetto vero del discorso, per poi introdurlo prima attraverso una domanda esplicita e spiazzante (Rewind è composto non solo di registrazioni di repertorio con Sasha bambino, ma anche di interviste attuali che lo stesso Sasha adulto fa ai parenti e ad altre persone coinvolte) e subito dopo con l'esposizione dei fatti, suggerendo come l'apparente iniziale superfluità di alcune scene nascondeva invece una seconda lettura ben più inquietante.
Con Rewind, Neulinger conduce in porto quello che non è tanto un atto di denuncia (quella è dettagliata e svolta nel corso del racconto) quanto piuttosto da un lato l'ultimo passaggio necessario - per sé - ad esorcizzare il male tremendo subito sbattendolo in faccia ai propri aguzzini, e dall'altra un'opera che ha la propria utilità nel consegnare ai posteri un coraggioso resoconto che mantenga sempre viva l'attenzione su un tema inquietante come quello della pedofilia.

VOTO: ***

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Don't Forget to Breathe

  • Drammatico
  • Slovenia
  • durata 97'

Titolo originale Ne pozabi dihati

Regia di Martin Turk

Con Matija Valant, Tine Ugrin, Klara Kuk, Ronja Matijevec Jerman, Iva Krajnc

Don't Forget to Breathe

In streaming su Amazon Prime Video

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ALICE NELLA CITTÀ 2019 - CONCORSO

L'estate dei quindici anni di Klemen scorre serena e tutta incentrata sul tennis, sport nel quale sembra eccellere e nel quale, accanto al ferramenta e allenatore a tempo perso Miro, ad aiutarlo è il fratello maggiore Peter, che ha diciotto anni e lui reputa la sua guida. Figlio di madre single, Klemen ha anche due amici, coetanei, che vede ogni giorno: Gregor e Jana. Quest'ultima, in realtà, gli fa la corte con l'inesperienza e gli impacci che quell'età comporta, ma lui sembra non calcolarla, continuando ad avere occhi solo per quel fratello maggiore e preferendo azzuffarsi nel grano con lui piuttosto che raccogliere gli input che lei gli manda.
Ma Peter inizia presto ad esser meno presente o a chiudersi in camera per parlare al telefono; e di lì a poco, l'arcano di questi suoi comportamenti inediti si rivela sotto le sembianze della bella Sonja: s'è fatto la ragazza, e Klemen vede il mondo cadergli addosso. Inizia a detestarla ma al tempo stesso la spia e se ne sente attratto, cercando di escogitare una maniera per allontanarla così da tornare ad avere Peter tutto per sé.

Accanto a Klemen, Peter, Sonja, Jana e qualche adulto che gli gravita attorno, Don't Forget To Breathe, terzo lungometraggio di Martin Turk, ha un protagonista in più: il paesaggio. Ma il regista non riesce a contenerlo, tanto che gli altri personaggi, e la storia con loro, finiscono in secondo piano rischiando di trasformare un dramma di formazione in un documentario piuttosto ripetitivo sulla Carniola Bianca. Tale zona rurale della Slovenia, infatti, è al centro di ogni inquadratura, con il direttore della fotografia Radislav Jovanov intento a riprenderla e ad indugiare soprattutto sulle riprese dal basso: in primis sui riflessi dell'acqua, talvolta sulle distese d'erba. Anche troppo spesso, però, tanto da far risultare il racconto diluito e poco incisivo.
Nel contesto di una storia di per sé fatta di conflitti interiori e piccoli assestamenti che hanno bisogno di prendersi il tempo necessario ma ne sprecano sin troppo, preso atto della presenza di una discreta costruzione dei personaggi e anche di una colonna sonora ambient folk con venature post rock (di Teho Teardo) tutto sommato piacevole e coerente, diventa plausibile sospettare che il problema stia nelle scelte fatte a monte, e che, probabilmente, una sforbiciata di un buon quarto d'ora di riprese in stile National Geographic avrebbe potuto giovare - e non poco - alla resa complessiva di un film affatto brutto, ma che si piace troppo.

VOTO: **½

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L'immensità della notte

  • Drammatico
  • USA
  • durata 89'

Titolo originale The Vast of Night

Regia di Andrew Patterson

Con Sierra McCormick, Jake Horowitz, Gail Cronauer, Bruce Davis, Cheyenne Barton

L'immensità della notte

In streaming su Amazon Prime Video

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - TUTTI NE PARLANO

The Vast of Night si apre con un'inquadratura fissa su un vecchio televisore in bianco e nero: a scorrere sono i titoli di testa, cui seguono le prime immagini - sempre in bianco e nero e con la grana grossissima propria delle pellicole usurate dal tempo - fino al loro dissolversi nel film vero e proprio. È con questo curioso artificio (che si ripeterà con i titoli di coda e qualche altra scena sparsa qua e là) che il regista, Andrew Patterson, dichiara la natura della propria opera prima, quella di omaggio, adorante e sentito, al cinema di fantascienza degli anni '50. La storia narrata, d'altronde, riprende quelli che erano i cliché degli sci-fi dell'epoca, ovvero la paura dell'alieno ed il mistero legato alla forma nella quale si intendeva presentarlo, da leggere nemmeno troppo velatamente come metafora della guerra fredda e della 'minaccia' sovietica.

Ambientato nella piccola Cayuga, nel New Mexico, The Vast of Night è incentrato sul Everett e Fay, il dj di una stazione locale e una centralinista che, in una notte nella quale la luce stranamente va e viene, e mentre tutti gli abitanti sono concentrati nella palestra del liceo locale per un incontro di basket, scoprono l'esistenza di una strana frequenza che oscura i segnali radio e sembra avere a che fare con quegli sbalzi di corrente. Indagando sulle origini del fenomeno, giungono a una spiegazione che cambierà per sempre le loro vite.

A dispetto del romanticismo nostalgico di fondo dell'operazione, delle tante buone intenzioni, e di un'atmosfera notturna comunque ben resa e sufficientemente tesa, il film di Patterson patisce alla lunga la propria eccessiva staticità, essendo, in massima parte, i progressi stessi della trama legati esclusivamente a un paio di spiegoni interminabili. C'è un piano sequenza, nel corso del film, durante il quale un drone parte dal posto di lavoro di Fay, si addentra nella palestra nel corso della partita per poi terminare il proprio viaggio nello studio dal quale Everett trasmette: sono questi i (circa) tre minuti più dinamici e interessanti di un film che, al di là di questo svolazzo, si appiattisce pigramente su quel paio di dialoghi che sono poi quasi monologhi, limitandosi a sostenerli con un (comunque valido) commento sonoro, dando per i lunghi tratti interessati la sensazione di avere a che fare non tanto con un film quanto piuttosto con una sorta di audiolibro illustrato, e senza riuscire poi a rialzarsi più, anzi arrancando senza fiato verso un finale fiacco e scontato.

VOTO: **½

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Share

  • Drammatico
  • USA
  • durata 89'

Titolo originale Share

Regia di Pippa Bianco

Con Rhianne Barreto, Charlie Plummer, Poorna Jagannathan, J.C. MacKenzie, Nicholas Galitzine

Share

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - TUTTI NE PARLANO

Mandy si sveglia di notte, riversa in terra sul giardino davanti casa: non ricorda cosa sia successo, né chi l'abbia portata lì, ma una volta entrata scorge un livido sul proprio braccio sinistro. La mattina, a scuola, gli amici la fermano chiedendole come stia e qualcuno scherza sul fatto che sia ancora viva, mentre le compagne del basket notano un altro livido, stavolta dietro la schiena. Bastano poche ore, e tra i messaggi sul suo telefonino salta fuori un terribile video che sta diventando virale nel quale lei, priva di sensi, viene molestata ad una festa da ragazzi di cui non si vede il volto. Scopertane l'esistenza, Mandy inizia ad indagare per riuscire a capire cos'è accaduto dopo che ha perso conoscenza, ritrovandosi, una volta fatta denuncia su consiglio dei genitori, al centro di un caso mediatico che la porta ad essere invisa nell'ambiente scolastico.

La violenza sulle donne ai tempi del voyeurismo tecnologico e la condivisione non autorizzata, via internet, di materiale con contenuti sessuali espliciti: questi sono i temi che la regista Pippa Bianco mette in scena in Share, riprendendo l'omonimo corto che già le aveva fruttato un premio a Cannes nel 2015. Lo fa con mano sicura e attenzione a mantenere un'atmosfera claustrofobica, ma ostinandosi a tenere il proprio focus fisso sul lato psicologico della protagonista (ben interpretata dall'esordiente Rhianne Barreto), della quale descrive egregiamente il senso di isolamento ma alla quale, in fase di scrittura, manca di fornire il supporto di uno scavo vero sulla storia personale, inibendo di conseguenza al film un qualsivoglia crescendo emotivo, lasciandolo carente nella descrizione del contesto e anche privo di un minimo approfondimento dei personaggi secondari.
L'esposizione insistita della lotta interiore di Mandy contro il suo fantasma, della sua sofferenza e della sua forza, resta così fine a sé stessa, e mostra presto la corda perché poco supportata da una sceneggiatura dal fiato corto, che latita e si attorciglia su sé stessa dando l'impressione che la regista non sia riuscita a percorrere del tutto la distanza che separa un cortometraggio da un film di 90 minuti.

VOTO: **½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Scary Stories to Tell in the Dark

  • Horror
  • USA
  • durata 107'

Titolo originale Scary Stories to Tell in the Dark

Regia di André Øvredal

Con Zoe Margaret Colletti, Michael Garza, Gabriel Rush, Austin Zajur, Austin Abrams

Scary Stories to Tell in the Dark

In streaming su Now TV

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Nella notte di Halloween del 1968, con la guerra del Vietnam alle porte e Nixon sul punto di diventare presidente, i giovani Stella, Chuck e Auggie, travestiti come la ricorrenza comanda, scappano da una banda di bulli poco più grandi di loro che vogliono pestarli, e trovano ospitalità, all'interno di un drive-in, nella macchina di un messicano solitario di nome Ramon. Proseguendo la fuga - con Ramon alla guida - nei pressi un bosco, Stella conduce il gruppo in quella che la leggenda narra esser stata nel XIX secolo la dimora dei Bellows, la cui figlia Sarah visse segregata nella propria stanza senza che nessuno potesse mai vederla, declamando da dietro la parete storie spaventose a tutti i bambini che incuriositi andavano a cercarla e in seguito alle quali in un modo o nell'altro morivano. Ella stessa, secondo la leggenda, presto si suicidò, ma nella casa restò il libro che raccoglieva i suoi racconti, vergato con il sangue versato da quegli stessi bambini. Trovato il libro, Stella lo porta via con sé, ma presto questo ricomincia a scriversi da solo, e i fatti in esso narrati a verificarsi 'in diretta'.

Basta leggere sommariamente il canovaccio di Scary Stories to Tell in the Dark, per trovare qualche dozzina di film horror a cui potrebbe somigliare: ma tant'è. Di fatto, non è certo l'originalità il primo requisito che il produttore Guillermo Del Toro ed il regista André Øvredal ricercavano in questo che nasce come un adattamento/omaggio all'omonima serie di storie brevi scritte negli anni '80 da Alvin Schwartz e illustrate da Stephen Gammell rivisitando perlopiù racconti popolari 'da falò'.
Per dare all'operazione una forma e una durata coerente alla definizione di "lungometraggio", gli sceneggiatori Dan e Kevin Hageman fanno ruotare un'accozzaglia di scene madri (talune ben girate: quella del brufolo/ragno e quella dell'accerchiamento nel corridoio) attorno alle sorti dei soliti quattro adolescenti disadattati, lavorando in maniera puerile e scontata sulla tematica del 'diverso' ed ottenendo come risultato un teen horror dalla pronunciata cifra fantasy ma sostanzialmente innocuo, troppo leggero per far paura a dispetto del titolo e dell'assunto, e caciarone al punto da non poter aspirare a nulla più che qualche sorriso nelle parti in cui - tra spaventapasseri assassini e zombi parlanti alla ricerca dei propri alluci - l'umorismo nero è servito in grana grossa.

VOTO: **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La sfida delle mogli

  • Commedia
  • Gran Bretagna
  • durata 112'

Titolo originale Military Wives

Regia di Peter Cattaneo

Con Kristin Scott Thomas, Sharon Horgan, Greg Wise, Jason Flemyng, Emma Lowndes, Gaby French

La sfida delle mogli

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Stando ai dati forniti dalle note di produzione, esistono oggi oltre 2300 donne, mogli di militari, che si sono raggruppate in 75 cori in giro per il mondo: la funzione di questi cori è tenerle occupate, distogliendole dal fardello dell'attesa del ritorno dei mariti spediti sul fronte.
Con la scusa sempreverde del prender spunto da una storia vera, Peter Cattaneo si tuffa a pesce in un'operazione che ricorda da vicino la sua pellicola di maggior successo (o forse l'unica), Full Monty, come quella strutturata su un training che si conclude su un palco dove però, al posto dello spogliarello, c'è stavolta una prova canora. La missione è quella di raccontare la storia edificante del primo gruppo di autoaiuto trasformatosi in coro ed arrivato ad esibirsi nella Giornata della Memoria al Royal Albert Hall di Londra, scegliendo come location di partenza l'immaginaria base militare di Flitcroft, nell'Inghilterra impegnata in Afghanistan del 2001, e ponendo a capo di questo drappello due donne in perenne attrito tra loro: da un lato Kate, moglie di un colonnello non più giovanissimo partito volontario, che crede nell'utilità del progetto e che dall'alto del lutto già subito con la morte in una missione precedente del proprio unico figlio si sente in diritto di dare alle altre indirizzi e consigli, e dall'altro Lisa, moglie del sergente maggiore e vero 'capo' imposto dall'alto, che vede questi incontri però come dei semplici passatempi.

A tener viva l'attenzione di Military Wives è quasi unicamente il rapporto conflittuale tra loro (interpretate rispettivamente da Kristin Scott Thomas e Sharon Horgan), dove alla puntigliosità ed al fare metodico della prima fa da contraltare l'approccio disimpegnato della seconda, e dove gli altri personaggi sono definiti anche in maniera decente, ma calati in una sequela di scenette pseudo-comico-musicali dal fiato corto, alternate con il bilancino ai momenti in cui il pathos sale cercando di strappare la lacrima. Tutto è laccato e calcolato, e la scelta, per le prove del coro, di una gamma di brani varia e importante presi perlopiù dagli anni '80 (con nomi come Tears for Fears, Sister Sledge, The Human League o Soft Cell), può servire qua e là a trovarsi a canticchiare qualcosa, ma non certo a farsi coinvolgere da un film karaoke prevedibile fino all'osso.

VOTO: **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Il ladro di giorni

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 105'

Regia di Guido Lombardi (II)

Con Riccardo Scamarcio, Massimo Popolizio, Augusto Zazzaro, Giorgio Careccia

Il ladro di giorni

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Vincenzo (Riccardo Scamarcio), piccolo delinquente pugliese, esce di galera dopo sette anni e si imbarca fino al Trentino, dove il figlio Salvo (il giovanissimo Augusto Zazzaro), che non lo vede da quando ne avevo quattro, vive serenamente con gli zii ma di fatto soffre la sua assenza, tanto da aver ricordato proprio in quel giorno, neanche a farlo apposta, l'ultima mattinata passato con lui in un tema che lo ha portato a guadagnarsi, a scuola, la coccarda di 'primo della classe'.
Ufficialmente, l'idea del viaggio gli origina dalla volontà di vederlo per stare con lui qualche giorno, ma la ragione vera non ha nulla a che fare con l'amore paterno: Vincenzo ha in macchina un carico di 70 chili di coca, e il figlio gli serve come copertura, perché «un bambino è meglio di una pistola». E nel frattempo, visto che c'è, ha anche una mezza idea di andare a regolare qualche conto rimasto in sospeso dai tempi del suo arresto.

Ne Il ladro di giorni, il road movie vorrebbe mescolarsi con il gangster movie passando per il percorso di (de)formazione in una storia debole e senza alcuna evoluzione degna di nota, eccezion fatta per il sin troppo piatto e veloce uniformarsi del figlio al 'pensare criminale' del padre.
Privo di un guizzo che sia uno, il terzo film di Guido Lombardi (che porta sullo schermo un suo stesso libro) si trascina stancamente, passando per diverse tappe tutte interlocutorie ma pretendendo di sfociare in un melodramma che non attecchisce mai, anzi si ingolfa tra dialoghi agghiaccianti (l'elegante metafora del 'pisello' che diventa 'cazzo' che, già pronunciata dal padre, si sublima come leitmotiv del film quando ad esprimerla - a dir poco fuori luogo - è il figlio nel corso di una rapina), scelte inspiegabili dei personaggi che fanno precipitare le scene nel comico involontario (l'esito del 'duello' finale, o la decisione dei carabinieri di desistere da una perquisizione dell'auto praticamente già avviata abboccando a una scusa puerile accampata dal ragazzino) e simbolismi semplici e/o banali (il robottino di Mazinga Z e la fine che fa, o il tuffo non tuffo, con l'apoteosi del trampolino conclusivo). Decisamente perdibile.

VOTO: *½

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Tornare

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 107'

Regia di Cristina Comencini

Con Giovanna Mezzogiorno, Vincenzo Amato, Beatrice Grannò, Clelia Rossi Marcelli

Tornare

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE - FILM DI CHIUSURA

Novembre 1991. Dopo anni di lontananza, e dopo aver fatto carriera negli Stati Uniti, Alice torna a Napoli e alla villa con affaccio sul mare in cui è cresciuta e nella quale s'è da poco spento il padre malato. Nella casa, ormai disabitata, ad accoglierla è la sorella Virginia, ma chi maggiormente lo ha sollevato dalla solitudine della sua malattia nell'ultimo anno è stato il vicino Mark, che veniva a trovarlo quotidianamente e che parlando con Alice - della quale è coetaneo - le dimostra di conoscerla a fondo nonostante lei di lui non abbia ricordi. Dopo il funerale, Virginia torna alla sua vita di sempre, mentre Alice decide di fermarsi per gestire le visite propedeutiche alla vendita dell'abitazione. Nel corso della sua permanenza, avrà modo di confrontarsi con il proprio passato e di affrontare un evento rimosso che le ha cambiato la vita.

Quando - dopo la prima notte passata nella casa di famiglia vuota - la protagonista si sveglia nel maggio del 1967 con Don't Worry Baby dei Beach Boys alla radio e sé stessa diciottenne che si prepara ad una festa e che le annuncia i propri programmi, e l'unica cosa che riesce a dirle è «Ma i capelli non te li leghi?», appare evidente che - dal punto di vista drammaturgico - nel film ci sia un problema. Già, perché il 'confronto con il proprio passato' cui si accennava poco sopra, è un vero e proprio incontro tête-à-tête di Alice con sé stessa, anzi con ben due sé stesse, dato che a un certo punto ne salta fuori anche la versione bambina, in una sorta di rimpatriata dell'ego che lascia attoniti non per la scelta in sé, ma per la maniera in cui i diversi livelli sono gestiti, o meglio non-gestiti, secondo un'anarchia registica che mescola e sovrappone senza criterio alcuno il presente, il passato e il trapassato generando più volte (complici dialoghi talvolta irritanti) rovinose cadute in un delirio involontariamente comico.

«Non c'è passato, non c'è presente e non c'è futuro: il tempo è solo un modo per misurare il cambiamento»: la presunzione da cui parte Tornare di Cristina Comencini (responsabile anche della sceneggiatura, insieme a Giulia Calenda e Ilaria Macchia) è che farlo precedere da questa citazione del grande fisico Carlo Rovelli possa giustificare qualsiasi forzatura o paradosso. Ma Comencini non è Nolan, e l'ambizione di poter mescolare diversi piani temporali in un thriller dell'inconscio che si vorrebbe costantemente in bilico tra sogno e percezione del vero naufraga miseramente, perché il registro onirico e il 'realismo quantistico' si confondono disorganicamente e senza mai lasciar trasparire il filo rosso di un discorso coerente, laddove il tempo dovrebbe essere esso stesso vivo e cangiante e scorrere all'interno della testa della protagonista, laddove la memoria ne sarebbe una sua lettura e dovrebbe favorire l'interazione tra lei, il suo doppio ed il suo triplo, ma dove l'unica 'costruzione' che riesce, tanto da venir proposta due volte per assicurarsi che tutti l'abbiano compresa, è la banalissima metafora della tripla matrioska con cui il film si apre e si chiude sottolineandone - di fatto - il carattere di operazione goffa e pretenziosa.

VOTO: *½

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Gioventù perduta

  • Thriller
  • USA
  • durata 90'

Titolo originale Run with the Hunted

Regia di John Swab

Con Michael Pitt, Ron Perlman, Sam Quartin, William Forsythe, Mark Boone Junior

Gioventù perduta

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019 - SELEZIONE UFFICIALE

Charles Bukowski può star tranquillo ed evitare di rivoltarsi nella tomba: il Run With the Hunted di John Swab non ha nulla a che fare con il suo - titolo a parte, anzi è tutta farina del sacco del regista, che è anche autore della sceneggiatura. Tuttavia, l'impressione che si ha all'uscita dal film è proprio quella di aver assistito alla trasposizione cinematografica frettolosa e malriuscita di un libro zeppo di eventi: invece, probabilmente, zeppo di spunti era il taccuino cui il regista ha attinto in fase di scrittura, peccato non sia stato in grado di condensarli in un film di 90 minuti che avesse almeno la parvenza di un minimo di coerenza.
Quella raccontata cronologicamente (a parte una breve ellissi nell'incipit) in Run With the Hunted è la storia di Oscar, ragazzino che a tredici anni, dopo aver ucciso il padre della sua migliore amica Loux perché violento, scappa e si fa una vita altrove, finendo in men che non si dica cooptato da una gang di giovani criminali; a metà esatta del film, dopo aver concentrato l'attenzione sul training del ragazzino e sui suoi rapporti con la coetanea Peaches (più spiantata di lui) e con i due boss Sway e Bird (quest'ultimo interpretato da Ron Perlman, anche produttore esecutivo), l'azione si sposta avanti di quindici anni, con Oscar che ormai se la comanda, insegna a sua volta l'arte della rapina a nuovi giovani disperati e ha sviluppato un rapporto morboso con Peaches, e con Loux che di colpo arriva in città e si mette sulle sue tracce non prima di aver trovato lavoro come assistente di un investigatore privato.

Il primo difetto di Run With the Hunted salta agli occhi ed è oggettivo: Mitchell Paulsen e Michael Pitt - ovvero Oscar ragazzino e Oscar adulto - non si somigliano per nulla, e l'effetto del passaggio dagli occhi marroni del primo ai fari verdi del secondo è a dir poco straniante, e questo particolare (che non è un 'particolare') non aiuta a fugare l'impressione che con il salto in avanti di quindici anni si sia passati a guardare un film totalmente diverso, rinforzata dal fatto che anche le movenze dei due attori siano diametralmente diverse (con Pitt fastidiosamente sopra le righe a fronte dei modi morbidi di Poulsen).
Aggiunto ciò come semplice ideale parentesi, il problema principale sta in una sceneggiatura arruffata e confusa, con personaggi che si suppongono fondamentali che appaiono per poi sparire o finire dimenticati e con eventi che mancano di una spiegazione logica o per lo meno chiara, in una progressione che vorrebbe essere drammatica ma si impantana in un meccanicismo sfuggente fatto di piccole scene madri senza capo né coda per poi sprofondare, inesorabilmente, in un finale ridicolo.

VOTO: *½

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