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Festa del Cinema di Roma 2018: le recensioni
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Festa del Cinema di Roma 2018: le recensioni

È terminata la 13° edizione della Festa del Cinema di Roma (e quindi la 16° della "gemella" Alice Nella Città), la quarta che mi ha visto impegnato in qualità di inviato di FilmTv.it: un'edizione che conferma come la Festa sia a immagine e somiglianza del suo direttore Antonio Monda, con una chiara e netta predilezione per ciò che proviene dall'America tutta a scapito della proposta orientale, sempre relegata in un'angolo. Purtuttavia, il colpo di coda è giunto proprio nell'ultimo giorno con uno dei pochissimi titoli cinesi in programma, peraltro diretto da un regista (Hu Bo) che mai potrà saper nulla delle lodi che gli giungono da ogni angolo del mondo, avendolo abbandonato con un gesto estremo appena terminate le riprese. Il suo esordio/testamento capolavoro (o quasi) An Elephant Sitting Still, comanda la mia personale classifica seguito dai bellissimi The Old Man & the Gun di David Lowery, con un monumentale Robert Redford alla sua (forse) ultima interpretazione, e Green Book di Peter Farrelly, con uno spassoso Viggo Mortensen nella parte del buttafuori italoamericano che prende coscienza di cosa sia il razzismo nell'America profonda degli anni '60 in cui vive: razzismo che è stato senza dubbio il tema più gettonato della rassegna.
Le recensioni dei tre film di cui sopra le ripropongo qui, seguite da quelle di tutti altri da me visti ed ordinate in base al mio gradimento: per chi non le avesse lette o per chi, più semplicemente, volesse farsi un'idea di cosa sia passato per Roma in questi dieci giorni di cinema.

Playlist film

An Elephant Sitting Still

  • Drammatico
  • Cina
  • durata 230'

Titolo originale Daxiang xidi er zuo

Regia di Bo Hu

Con Yu Zhang, Yuchang Peng, Yuwen Wang, Congxi Liu

An Elephant Sitting Still

In streaming su Rai Play

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - TUTTI NE PARLANO

Per difendere un suo amico accusato di avergli rubato il cellulare, Wei Bu manda fortuitamente giù per una rampa di scale il bullo della scuola, costringendolo in ospedale in condizioni critiche; il fratello di quest'ultimo, Yu Cheng, a capo di una piccola gang locale, decide di dargli la caccia per vendicare l'accaduto, ma è a sua volta assalito dai sensi di colpa perché il suo migliore amico s'è appena suicidato davanti ai suoi occhi dopo aver scoperto che lui andava a letto con sua moglie; nel frattempo Huang Ling, la ragazza che Wei Bu corteggia invano, si fa sorprendere mentre tresca con il vicepreside della scuola, mentre un anziano vicino, Wang Jin, viene invitato a lasciare casa ed accettare l'ospizio dal figlio, che sotto quello stesso tetto non riesce a far stare sia la moglie che la figlioletta se lui rimane in mezzo ai piedi.

Il cielo sempre cupo di una città dell'entroterra del nord della Cina fa da sfondo ad un racconto nel quale i percorsi di quattro personaggi si intrecciano e nel quale tutti, con ragioni diverse ed in tempi diversi, arrivano a citare, idealizzare o desiderare Manzhouli, un paese ancora più a nord, verso il confine, nel quale si dice che un elefante se ne stia seduto, imperturbabile, ignorando chiunque si raduni lì per farlo mangiare o per farlo spostare.
L'elefante in questione è la rappresentazione plastica del bisogno che essi hanno di fuggire da una realtà chiusa e opprimente, da una società bloccata che non concede nemmeno i sogni e condanna le persone ad essere ciò che sono restando assoggettate alla condizione di partenza: la scuola frequentata dai protagonisti è prossima alla demolizione è li costringerà, se poco abbienti, ad esser trasferiti in una ancora peggiore che gli garantirà un futuro di incertezza e stenti, in un'atmosfera da post-apocalisse sociale e politica nella quale lo stato e le istituzione non danno segni di sé.

Quella descritta dal regista Hu Bo con piani sequenza e camera principalmente a mano, seguendo i personaggi da vicino e talvolta braccandoli alle spalle, è un'umanità piccola e priva di speranza dominata da un senso generalizzato di frustrazione e rassegnazione, nella quale i caratteri ricorrenti sono la solitudine e l'egoismo, tanto che anche i legami interpersonali - sono sempre aridi, spenti o falsi: e allora Yu Cheng arriva ad attribuire alla moglie dell'amico suicida e addirittura a una propria ex le colpe di quel gesto estremo, con il solo obiettivo di liberarsi la coscienza; il padre ex poliziotto di Wei Bu non fa altro che urlargli dietro, accusandolo anche delle proprie mancanze ed arrivando a derubarlo dei risparmi che nasconde sotto il materasso; la madre di Huang Ling è anaffettiva e totalmente distaccata, incapace di accogliere le sue richieste di aiuto; il figlio di Wang Jin lo caccia da casa sua scaricandolo come un fazzoletto usato senza neanche domandarsi se lo stia ferendo.

An Elephant Sitting Still concentra la propria azione nell'arco di un'unica giornata, dall'alba al tramonto, e in questo lasso di tempo i protagonisti si influenzano, ciascuno portatore di un diverso grado di dolore e di un proprio male di vivere, finendo per ruotare attorno a Manzhouli e al suo elefante come l'ultimo domicilio (s)conosciuto, come all'unica alternativa esistente e (im)possibile ad un'esistenza inespressa. Il regista Hu Bo, che plausibilmente lo stesso male di vivere dei suoi personaggi lo ha vissuto in prima persona così come la voglia di fuggirne via, è fuggito via davvero togliendosi la vita subito dopo aver finito di girare il film, nell'ottobre del 2017 all'età di 29 anni. E quello che, con le sue quasi quattro ore sofferte, rabbiose e rigorose, senza neanche un minuto di troppo, un eccesso o un compiacimento, sarebbe potuto essere lo splendido primo atto di una grande carriera, rimane un atto unico, un esordio e al tempo stesso un testamento precoce di abbagliante bellezza destinato ad essere ricordato negli anni, a sopravvivere negli occhi e nella mente di chi lo guarda e a conquistarsi un angolo di spazio tutto suo nella storia del cinema.

VOTO: ****½

Rilevanza: 1. Per te? No

The Old Man & the Gun

  • Drammatico
  • USA
  • durata 93'

Titolo originale The Old Man & the Gun

Regia di David Lowery

Con Robert Redford, Casey Affleck, Sissy Spacek, Elisabeth Moss, Danny Glover

The Old Man & the Gun

In streaming su Paramount Plus

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Forrest Tucker conosceva solamente un mestiere: la rapina. Ma quel mestiere lo svolgeva in maniera assolutamente personale, probabilmente unica. Tucker detestava la violenza, e soprattutto sorrideva sempre: anche mentre ordinava al malcapitato banchiere di turno di riempirgli di banconote una valigetta, anche dopo aver trovato il modo di fargli vedere una pistola che comunque non avrebbe sparato mai, anche quando usciva col malloppo dalla banca zeppa di gente senza che nessuno si fosse accorto di nulla.
Anche in un'altra cosa Tucker era un maestro (pure se non può definirsi un mestiere): scappare di prigione. Lo fece 16 volte, da 16 posti e in 16 maniere diverse. L'ultima, quella rimasta nel mito, costruendo un kayak assieme a due compagni di cella con legno, fogli di plastica e nastro adesivo raccattati al negozio di legname della prigione di San Quentin, sulle coste della California, calandosi in acqua dopo aver detto alla guardia carceraria «Torno tra un minuto».
The Old Man & the Gun parte da poco dopo l'avventuroso sbarco che ne è seguito.

Al tempo aveva circa 60 anni, anche se nel film ne dichiara 70 per bocca di Robert Redford, che gli presta il suo corpo ad 80 suonati: marchiano errore di calcolo o media ponderata? In fondo, chi se ne frega! Una licenza poetica di una decina d'anni ci sta, se permette di far interpretare un ruolo del genere ad un Robert Redford in stato di grazia, tanto più che ha anche annunciato (per poi pentirsene) che sarà l'ultimo della sua carriera da attore.

The Old Man & the Gun è uno spasso di film, con un regista in gran forma (David Lowery) che fa proprio il mood scanzonato ed il tono farsesco del suo magnetico e bizzarro protagonista, senza farne un'agiografia né giudicarlo: piuttosto il giudizio lo sospende, o meglio non è proprio interessato a darne. Semplicemente, partito dall'omonimo articolo di David Grann uscito sul New Yorker, ha deciso di romanzarlo concentrando il racconto sui modi paradossalmente entusiastici e gioviali di questo rapinatore gentiluomo capace di farsi ammirare dai poliziotti che gli hanno dato la caccia (un meditabondo Casey Affleck), di convincere altri due arzilli vecchietti a fargli ancora da spalla stando sempre alle sue regole (Danny Glover e Tom Waits), e di far innamorare di sé una donna consapevole di essersi sentita imbellettare nel tempo, ma con infinito garbo, una marea di bugie (una solare Sissy Spacek). Il risultato è un film davvero notevole che attorno ad un gigantesco Redford conta almeno tre sequenze da ricordare (il dialogo Redford/Spacek nella tavola calda, la scena del bacio, e il carosello finale con tutte le fughe condensate in meno di un minuto).

VOTO: ****½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Green Book

  • Biografico
  • USA
  • durata 130'

Titolo originale Green Book

Regia di Peter Farrelly

Con Viggo Mortensen, Mahershala Ali, Linda Cardellini, Mike Hatton, Dimiter D. Marinov

Green Book

In streaming su Now TV

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Bronx, 1962. Quando il night club nel quale lavora come buttafuori viene fatto chiudere, Tony Vallelonga ha bisogno di trovare il modo per mantenere sua moglie e i suoi due bambini. Rifiutandosi di accettare affari loschi dalla malavita, e non potendo sperare che il suo fisico possa sopravvivere a lungo incamerando 26 hamburger di fila alla volta in gare d'azzardo a chi ne mangia di più contro bestioni di 117 chili, accetta l'invito ad un colloquio per fare da autista ad un tal "dottore". Recatosi al suo domicilio, scopre che ad esser chiamato così è Don Shirley, un pianista afroamericano ricco sfondato che sui comodini ha zanne d'elefante, come sedia usa un trono, e si veste «come il re della giungla». La proposta è di scarrozzarlo per due mesi con la sua Cadillac per dei concerti che terrà in giro per il sud degli Stati Uniti senza fargliene saltare alcuno, e la paga è ottima; ma alla richiesta di lavargli anche i panni si rifiuta, lui che a casa usa gettare le stoviglie, se poco poco vengono toccate da operai neri... Il "dottore", però, è veramente interessato ad avere i suoi servigi, quindi riformula l'offerta stornando i compiti da massaia e l'affare è fatto. Giusto il tempo di consegnargli il Green Book, la guida turistica che riporta la lista delle strutture nelle quali i neri non vengono derisi o massacrati di botte, e si parte.

Don Shirley e Tony Vallelonga sono esistiti davvero: il primo era un genio del pianoforte per il quale si sperticò in lodi anche Igor Stravinsky, il secondo il padre italoamericano del regista e sceneggiatore Nick Vallelonga. E proprio da lui, che la storia di quel viaggio che al padre aprì la mente l'aveva sentita raccontare mille volte sin da piccolo, è partita l'idea di farne un film, che poi ha sceneggiato assieme a Brian Currie e Peter Farrelly per la regia di quest'ultimo, qui orfano del fratello Bobby e per la prima volta alle prese con il genere drammatico. Drammatico, infatti, ne è il tema portante, perché i due mesi nel profondo sud metteranno i due a contatto con il razzismo istituzionalizzato dalle leggi di Jim Crow, in posti nei quali l'ipocrisia dei bianchi li porta ad invitare nei locali l'artista nero che li fa sentire colti per poi però rifiutargli l'accesso al bagno buono o negargli un pasto nella sala dove suonerà, o più genericamente in città nelle quali gli è vietato fare acquisti o addirittura uscire per strada dopo il tramonto. Senza alcuna intenzione di ammorbidire o edulcorare alcunché, il cuore duro e serissimo del film è alleggerito dal tono scanzonato del racconto.

Perché Green Book fa ridere, fa ridere di gusto alla pari di quanto fa riflettere, mantenendo un equilibrio che non sa mai di forzatura: merito di una sceneggiatura d'acciaio capace di inanellare gag in sequenza senza mai allontanarsi dall'obiettivo, di una regia che sa il fatto suo nel sostenerne il ritmo, e di due attori (Viggo Mortensen ingrassato e Mahershala Ali altezzoso sono impagabili) che si prestano divertiti a creare una coppia (comica) paradossale (il bianco che fa da servo al nero) di opposti. Tony "Lip" (che è il suo soprannome, ovvero "labbro", perché con la sua parlantina, per quanto greve, sa intortarsi chiunque) è rozzo, manesco, sboccato, fumatore incallito e mangiatore ad oltranza, Don Shirley è educato, forbito, pignolo, sempre ben vestito e anche poliglotta (come si scopre nel corso di una delle tante scene esilaranti); hanno punti di vista diversi su tutto, ma il loro progressivo aprirsi li porta inevitabilmente ad avvicinarsi, contaminarsi e diventare amici, permettendo a Tony di tornare nel Bronx cambiato per sempre, consapevole che in giro c'è un veleno chiamato razzismo che va debellato con la conoscenza, il rispetto e la tolleranza, e che ciascuno nel proprio piccolo può contribuire a farlo.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Il coraggio della verità

  • Drammatico
  • USA
  • durata 129'

Titolo originale The Hate U Give

Regia di George Tillman jr.

Con Amandla Stenberg, Regina Hall, Russell Hornsby, Anthony Mackie, Common, K.J. Apa

Il coraggio della verità

In streaming su Disney Plus

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

All'età di sette anni, Starr - insieme ai suoi due fratelli - ha ricevuto dal padre Maverick un insegnamento che ha mandato a memoria: la polizia può fermarci in macchina in qualunque momento, anche se non abbiamo fatto niente; in quel caso mi vedrete mettere le mani bene aperte sul cruscotto, e voi dovrete sempre fare lo stesso. Maverick s'è fatto la galera ma adesso è pulito, e sa bene che, specie contro gli afroamericani, e specie in un ghetto come è quello di Garden Heights in cui vivono, la polizia può usare la violenza con qualsiasi pretesto, quindi è bene non dargliene. Nove anni dopo, Starr si trova a dover mettere in pratica quelle nozioni quando la macchina in cui viaggia con l'amico Kahlil viene fatta accostare per una freccia non inserita: peccato che Kahlil abbia un carattere poco accomodante e, ignorando i suoi consigli, anziché restar fermo e seguire gli ordini dell'agente, si muove e anche troppo; fino a quando, dopo aver preso in mano una spazzola, viene ucciso da quello con un colpo al cuore perché l'aveva scambiata per una pistola.

Diretto da George Tillman Jr. e sceneggiato da Audrey Wells partendo da un romanzo di Angie Thomas, The Hate U Give parla non solo del razzismo come malattia endemica e quasi inestirpabile della società, ma anche e soprattutto della necessità di essere sé stessi, di difendere la propria dignità e di superare la vergogna del sentirsi diversi. Mandata dai genitori a studiare in una rinomata scuola frequentata da bianchi per permetterle di avere maggiori opportunità, Starr si trova a muoversi a cavallo tra due diversi codici di comunicazione e di identità, perché quando va lì si trasforma per sentirsi accettata, recita una parte cercando di evitare di fare le cose che finirebbero per renderla assimilabile allo stereotipo.
L'assassinio del suo amico la pone dunque davanti ad un bivio nel momento in cui solamente un suo intervento, in quanto unica testimone, può far sì che ci sia qualche flebile speranza che l'agente omicida non la faccia franca. Attirarsi addosso la luce dei riflettori rischierebbe però da un lato di rovinare la sua reputazione tra i suoi nuovi amici bianchi (bianco è anche il fidanzato), e dall'altro di rendere pericolosa per sé e la sua famiglia la permanenza nel quartiere, dal momento che Kahlil spacciava per King, il boss della mala locale.

Il conflitto interiore che mina la protagonista è la spina dorsale di un film intenso ed emozionante che Tillman Jr. conduce con mano sicura, puntando le dita su un pregiudizio che è tanto radicato, strisciante ed elevato a sistema da contagiare non solo i bianchi "progressisti" che se ne sentono immuni, ma anche gli stessi neri passati dall'altra parte della barricata (è illuminante, a tal riguardo, il dialogo tra la protagonista e Carlos, l'afroamericano entrato in polizia).
Contrappunto coerente ad un film orgogliosamente afroamericano è la colonna sonora, prevalentemente (ma non solo) hip hop: non a caso, il titolo stesso del film nasce dall'espressione "THUG LIFE" del compianto Tupac, un acronimo che sta per "The Hate U Gave Lil' Infants Fuck Everybody", ovvero, "L'odio che insegnate ai bambini fotterà tutti": a ricordarci che è l'odio il carburante universale di ogni pregiudizio.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Stanlio e Ollio

  • Biografico
  • USA, Gran Bretagna
  • durata 97'

Titolo originale Stan and Ollie

Regia di Jon S. Baird

Con Steve Coogan, John C. Reilly, Shirley Henderson, Nina Arianda, Danny Huston, Rufus Jones

Stanlio e Ollio

In streaming su Rai Play

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Stan & Ollie di Jon S. Baird, inizia a Los Angeles, in California, con un piano sequenza: è il 1937, e Stan Laurel e Oliver Hardy, che oltre ad essere una coppia comica, la più famosa del momento, sono anche amici, parlano di fatti personali e non solo. A Stan è scaduto il contratto, e chiedendo l'appoggio del compare intende rivendicare, per il nuovo, una percentuale sugli introiti dei film, come fa Charlie Chaplin, come fa Buster Keaton; nonostante Oliver non sia convinto, Stan tiene fede al proposito, ma il produttore gli dà il benservito.
Con uno stacco si passa al 1953: Stan & Ollie, per il pubblico, sono dei grandi che appartengono al passato. I due attori, tornati a Newcastle in Inghilterra, decidono di tornare in pista partendo dal teatro e con l'obiettivo di fare successivamente un nuovo film insieme, se e quando il produttore con cui ne hanno parlato troverà i finanziamenti.

Ad interpretare il duo negli ultimi anni di carriera sono due attori che si superano in quanto a capacità mimetiche: Steven Coogan e John C. Reilly sono infatti incredibilmente vicini agli originali, riproducendone al meglio tic, guizzi e movenze; alla loro qualità si aggiunge il merito del regista di aver calato il racconto in un'atmosfera generale di romantica malinconia, assecondando una sceneggiatura (di Jeff Pope) che ha l'esatto intento di sottolineare come a determinare le loro scelte, specie avvicinandosi inesorabilmente al canto del cigno, sia stato proprio un legame profondo e indissolubile fatto di affetto oltre che di rispetto e stima. In un film che si incentra sulla relazione umana intercorsa tra Laurel e Hardy filtrandola attraverso il ricordo di quello che è stato il loro genio ed il loro contributo all'arte comica a livello artistico, le scenette improvvisate (alla reception di un albergo come per la strada), così come gli screzi seguiti al riemergere dei fantasmi legati alla fine del vecchio sodalizio, o le difficoltà e le scelte sempre condivise in base alle condizioni di salute incerte di Oliver (con un ginocchio in disordine e il cuore debole) hanno sempre - e intenzionalmente - il sapore naif e genuino di un'amicizia tenera e vera.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Tre identici sconosciuti

  • Documentario
  • USA
  • durata 96'

Titolo originale Three Identical Strangers

Regia di Tim Wardle

Con Robert Shafran, Eddy Galland, David Kellman, Silvi Alzetta-Reali, Ron Guttman

Tre identici sconosciuti

In streaming su Netflix

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Three Identical Strangers è un documentario strutturato nella maniera più classica, con gli intervistati che parlano rivolgendosi alla telecamera in primo piano mentre scene ricostruite si alternano materiale d'archivio, e la storia è tanto sconvolgente da raccontarsi quasi da sé: ma l'abilità del regista Tim Wardle sta nel renderla cinematograficamente accattivante rivelandone i particolari poco alla volta.
Si parte da quando, nel 1980, un diciannovenne cambiò college ritrovandosi, nel giorno del suo arrivo, salutato dai nuovi compagni con un calore ingiustificato: lui non li aveva mai visti prima, ma loro lo abbracciavano e baciavano come se lo conoscessero da tempo. In realtà, erano convinti di avere davanti il fratello gemello, che aveva frequentato quell'istituto l'anno precedente: i due, nati ovviamente dalla stessa madre, erano stati dati in adozione a due famiglie diverse dopo la nascita senza aver mai saputo l'uno dell'esistenza dell'altro. La notizia iniziò presto a girare e la loro foto a circolare sui giornali, e fu così che di lì a breve un terzo fratello vi si riconobbe e completò il quadro.
Questo incredibile trio di gemelli monozigoti riuniti divenne un caso mediatico, e ciò gli porto fama ed attenzioni, con ospitate nei programmi televisivi dell'epoca (durante le quali i tre ragazzi trovavano gusto - come è logico e naturale che fosse - nell'accentuare i contorni di ogni similitudine), e addirittura un'apparizione al cinema con Madonna nel film Cercasi Susan Disperatamente.

Quello che sin qui era sembrata una storia bizzarra ma a lieto fine, imbocca però una direzione ben più inquietante quando alle congratulazioni, alle pacche sulle spalle e all'orgia cinetelevisiva iniziano a subentrare le domande: perché dividere alla nascita dei gemelli omozigoti? e perché tenere all'oscuro di tutto anche i genitori adottivi?
La seconda parte del film cerca di rispondere a questi quesiti nei limiti del possibile, giungendo ad indagare su un vero e proprio studio segreto 'sui gemelli separati' di cui loro - insieme ad altri in giro per lo stato di New York di cui alcuni verosimilmente ancora ignari - sono stati le cavie: uno studio condotto dallo psichiatra infantile Peter Bela Neubauer (morto nel 2008) attraverso la sua Jewish Board (una clinica ancora esistente) con la connivenza della Louise Wise, l'agenzia che si occupò dell'affidamento dei bambini (e che oggi non esiste più), che aveva a che vedere con il rapporto tra il corredo genetico e l'educazione ("tra la natura e l'ambiente") e si presume intendesse anche quantificare l'incidenza potenziale delle malattie mentali, e che il medico decise di interrompere proprio nel 1980, senza mai pubblicarne i risultati e ottenendo di conservarli presso la biblioteca dell'Università di Yale vincolandoli a restar chiusi fino al 2066, anno nel quale tutte le cavie saranno presumibilmente morte.
Attraverso un percorso che sembra una discesa negli inferi della follia umana, Three Identical Strangers documenta, con sensibilità e la dovuta discrezione, una storia straziante dalla quale si esce frastornati e intenti a riflettere su quale debba essere il limite tra il progresso scientifico ed il rispetto per il diritto di ogni individuo alla libertà e alla salute.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La diseducazione di Cameron Post

  • Drammatico
  • USA
  • durata 90'

Titolo originale The Miseducation of Cameron Post

Regia di Desiree Akhavan

Con Chloë Grace Moretz, Sasha Lane, Forrest Goodluck, Jennifer Ehle, John Gallagher Jr.

La diseducazione di Cameron Post

In streaming su Amazon Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - TUTTI NE PARLANO

Nata e cresciuta in Montana, nella rigida provincia dell'entroterra americano, Cameron vive con la zia ultraconservatrice, ma lo fa nascondendole la propria vera indole: si lascia infatti corteggiare da un ragazzo a modo, con il quale ufficialmente è fidanzata, ma il vero amore lo esprime solamente con la coetanea Coley, ogni volta che sono sole, di nascosto da una comunità che altrimenti le giudicherebbe. Quando però, fortuitamente, lui le scopre baciarsi sui sedili della macchina, la notizia fa in men che non si dica il giro del circondario, e la zia decide di spedirla al God' Promise ('La Promessa di Dio'), un centro religioso all'interno del quale sarà trattata assieme ad altri giovani che, come lei, hanno bisogno di ricevere una 'terapia di conversione' che li guarisca dalla 'malattia' dell'omosessualità.

Ancor prima di entrare le viene requisita una cassetta dei Breeders "perché non cantano lodi al Signore", e una volta dentro la si avvisa che il diritto ad arredare la propria stanza, come tra gli altri quello ad avere accesso alla corrispondenza, andrà guadagnato con il tempo tenendo una condotta consona. Ad accoglierla sono il reverendo Rick e la dottoressa Lydia Marsh (dalla quale il primo afferma di esser stato guarito), i quali iniziano nei suoi confronti un bombardamento psicologico incentrato sul senso di colpa, che parte dall'assunto che le sue pulsioni sessuali siano sbagliate e vadano corrette cercando, tra una preghiera e l'altra, di risalire al trauma che le ha provocate.

Ambientato nel 1993 e tratto dall'omonimo romanzo di Emily Danforth, The Miseducation of Cameron Post ha prima di tutto il merito di portare a conoscenza di una realtà agghiacciante ed ancora terribilmente attuale, se è vero che centri di conversione come il God's Promise, ispirati alle teorie omofobe di Joseph Nicolosi (confutate in ogni sede perché non basate su metodi scientifici), ne esistono ancora oggi laddove non sono stati esplicitamente vietati.

A quattro mani con l'italiana Cecilia Frugiuele, la regista Desiree Akhavan (nata a New York da genitori iraniani) scrive una sceneggiatura semplice ma efficace, attenta a restituire alla protagonista e ai suoi compagni di sventura la dignità che il trattamento cui sono sottoposti vorrebbe negare loro, e a definire ciascuno dei personaggi in maniera tonda e credibile, passando anche per brevi scene di sesso omosessuale che sanno comunicare autentità e romanticismo - per merito, anche e soprattutto, della complicità tra Chloe Grace Moretz e Quinn Sheppard (rispettivamente Cameron e Coley). Senza calcare ulteriormente su una drammaticità già evidente, Akhavan predilige un registro laconicamente ironico, puntando sul lato grottesco e assurdo delle varie vessazioni mostrate per farci sopra un sorriso amaro (i sogni erotici interrotti dalla luce di una torcia puntata in faccia, gli esercizi di ginnastica 'gioiosa' eseguiti guardando una videocassetta al ritmo di raccapriccianti canzoncine christian pop), in un film che non eccelle per originalità, ma sa recapitare, chiaro e forte, un sentito messaggio in favore del sacrosanto diritto di ogni individuo all'autodeterminazione.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

A Private War

  • Biografico
  • USA
  • durata 106'

Titolo originale A Private War

Regia di Matthew Heineman

Con Rosamund Pike, Jamie Dornan, Stanley Tucci, Tom Hollander, Raad Rawi, Alexandra Moen

A Private War

In streaming su Now TV

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Reporter d'assalto coraggiosa e ribelle, Marie Colvin perse l'occhio sinistro nel 2001 nello Sri Lanka occupato dalle Tigri Tamil, colpita dai detriti di una bomba nel percorso di ritorno dopo aver svelato come malattia e fame stessero uccidendo migliaia di civili al riparo dai riflettori. Partendo da qui, A Private War segue tutte le tappe che la portarono ad esser riconosciuta come un'icona del giornalismo di guerra; passa per Iraq dove scoprì una fossa comune che nascondeva centinaia di cadaveri di kuwaitiani, per Afghanistan dove i talebani attaccavano civili e aiuti internazionali, per la Libia dove testimoniò gli stupri dei lealisti alle ragazze in rivolta ed ottenne un colloquio faccia a faccia con Gheddafi; fino a fermarsi in Siria nel 2015, dove perse la vita quando rischiò oltre il dovuto per restare vicina ai civili che venivano bombardati.

A Private War è il primo lungometraggio 'narrativo' di Matthew Heineman, che ha accumulato esperienza come documentarista di guerra e si vede, per la capacità - complice la fotografia movimentata ma lucida di Robert Richardson - di mettere in scena azioni frenetiche capaci di restituire la devastazione che questa porta, e di togliere il fiato cingendo lo spettatore nello stesso stato d'assedio dei personaggi. A dare cuore, testa dura, e benda nera da pirata a Marie Colvin è una Rosamund Pike fisica e potente, bravissima nel restituire la testardaggine di una donna che aveva scelto come missione della vita quella di spingersi alla ricerca delle atrocità andando sempre un passo più avanti degli altri, spesso disobbedendo agli ordini di scuderia e dando retta solo al proprio istinto.

Il prezzo da pagare per quel suo spendersi oltre il limite era la 'Guerra Privata' che la inseguiva a casa al ritorno da ogni missione, ovvero il disturbo post-traumatico che arrivava puntuale e sempre più dirompente, portandola a fumare sigarette in serie e bere vodka fino ad ubriacarsi per scacciare dalla testa i fantasmi sporchi di sangue che si portava fin dentro il letto, assieme alla paura di invecchiare che andava di concerto con quella di morire troppo giovane: Heineman si sofferma su questo aspetto più intimo con la giusta empatia, e Pike lo rende palpabile aggiungendo un ulteriore punto di sofferenza ad un'interpretazione già di gran livello; talmente di livello, da finire per mangiarsi il resto del cast.
Non aiuta, da questo punto di vista, la sceneggiatura di Arasha Amel che, costretta a coprire quattordici anni di storia in meno di due ore, tende alla schematizzazione e non sempre riesce a conferire peso a tutti i personaggi di contorno: chi se la passa peggio è Stanley Tucci, il cui uomo d'affari Tony Shaw - di cui la protagonista si innamora - è in relazione all'importanza il più debole del lotto.
Come doverosa chiosa ad un film importante nel saper mostrare come il lavoro dei corrispondenti di guerra, fondamentale per documentare crimini che altrimenti resterebbero nell'oblio, sia sempre più vissuto in condizioni di estremo pericolo, giunge sui titoli di coda lo struggente brano Requiem for a Private War, scritto e cantato appositamente da Annie Lennox.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Halloween

  • Horror
  • USA
  • durata 109'

Titolo originale Halloween

Regia di David Gordon Green

Con Jamie Lee Curtis, Judy Greer, Andi Matichak, Will Patton, Haluk Bilginer, Rhian Rees

Halloween

In streaming su Amazon Prime Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

A quarant'anni dalla notte in cui Mychael Myers uccise tutti i suoi amici, Laurie Strode ha ancora il pensiero fisso di farsi trovare preparata nel caso di un suo eventuale ritorno: vive in una villa isolata della quale controlla scrupolosamente ogni potenziale via d'accesso, dotata di una cantina segreta da usare come eventuale rifugio, con dentro un arsenale di armi con le quali allena la mira sparando nel bosco antistante a fantocci con le fattezze del Mostro. Questa ossessione l'ha portata a bruciare due matrimoni prima, e ad allontanare da sé la figlia poi. Una figlia che, scappata a gambe levate dalla sua educazione paranoica all'autodifesa, ha con lei tuttora un rapporto burrascoso, che con scarsi risultati la nipote liceale cerca di ricucire.

Myers, chiuso da allora - per la seconda volta - nel manicomio criminale di Smith's Grove, ha nel frattempo un nuovo psichiatra di riferimento: al dottor Loomis, che lo seguiva nel '78 quando la prima volta fuggì, e che sosteneva che l'unica maniera per estirpargli la sua malvagità era sopprimerlo, è subentrato il meno drastico dottor Sartain, convinto a cercare una strada per scalfire la barriera del suo mutismo autoindotto. A tal scopo, accoglie di buon grado la visita di due giornalisti venuti a visitarlo per cercare di comunicare con lui, ottenendo però come unico risultato quello di risvegliare la belva: di lì a poco, infatti, Myers riesce a fuggire di nuovo durante un trasferimento, intenzionato a completare, ancora una volta nella notte di Halloween, il lavoro lasciato a metà esattamente quarant'anni prima.

Questo nuovo Halloween diretto da David Gordon Green, con il bollino di garanzia di John Carpenter (che appare tra i produttori esecutivi oltre che come autore delle musiche) e di nuovo Jamie Lee Curtis protagonista nel ruolo di Laurie, si presenta come seguito diretto del primo, intendendo quindi far tabula rasa degli innumerevoli seguiti (benedetti o meno da Carpenter, e interpretati o meno dalla Curtis). E se è vero che quella di Michael Myers è ormai una maschera immortale nella storia dello slasher movie, lo è altrettanto che - a cotanti anni e tanti film di distanza - il rischio di reiterare stancamente un cliché era dietro l'angolo.

Gordon Green, che fino ad ora aveva girato perlopiù drammi o commedie, supera l'esame senza strafare, esordendo nell'horror con una storia convenzionale ma tutto sommato convincente, ben scritta (con Danny McBride e Jeff Fradley) ma non priva di forzature, che punta forte da un lato sull'evoluzione del personaggio di Laurie e sulla sua elaborazione tragica e maniacale di quel lutto mai troppo vecchio per essere dimenticato, e dall'altro sull'assoluta immutabilità di quello di Meyers - che fa paura proprio per il suo essere ancestralmente malvagio seppur tecnicamente umano, ma che un po' si perde sugli altri, a partire dalla coppia di giornalisti, che alla faccia del minutaggio riservatogli in avvio sono troppo 'leggeri' e sembrano assolvere una funzione meramente strumentale (prima di esser spazzati via in una delle scene meglio riuscite), e per finire con lo psichiatra, poco credibile per ciò che fa, e per le motivazioni che teoricamente ci sono dietro, in un momento cruciale del racconto.

VOTO: ***½

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Go Home - A casa loro

  • Horror
  • Italia
  • durata 85'

Regia di Luna Gualano

Con Antonio Bannò, Sidy Diop, Shiek Dauda, Cyril Dorand Nzeugang Domche, Pape Momar Diop

Go Home - A casa loro

In streaming su Amazon Video

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ALICE NELLA CITTÀ 2018 - PANORAMA ITALIA

Durante una manifestazione di neofascisti contro l'apertura di un centro d'accoglienza a Roma, con l'arrivo di un gruppo di ragazzi dei centri sociali si scatena una rissa che inspiegabilmente degenera in un'apocalisse zombi. Enrico, che è lì con la ragazza e progetta di terminare la giornata portandola a casa sua approfittando dell'assenza dei genitori, vede la morte in faccia e si trova costretto a bussare disperatamente a quel cancello, e a chiedere asilo ai migranti che un minuto prima insultava e voleva cacciare: loro gli aprono, lui entra, nasconde la croce celtica che porta al collo e si dichiara 'compagno'. Fuori, intanto, i morti continuano a vagare alla ricerca costante di sangue fresco.

Traendo spunto dal maestro George Romero, che usava gli zombi come metafora per denunciare le contraddizioni ed il consumismo della società americana, Luna Gualano, giovane regista al secondo lungometraggio dopo Psychomentary del 2014, tenta una strada affine con Go Home – A casa loro, uno zombi movie che definisce - a ragione - un "horror allegorico", perché girato con l'intento di accendere i riflettori su una società, quella italiana attuale ma non solo, sempre più chiusa su sé stessa, e tesa a riversare il proprio odio e la propria paura verso i migranti, i profughi, a discriminare tutto ciò che è 'diverso'. Lo fa con un film che viene dal basso (i fondi sono stati raccolti grazie ad una campagna di crowdfunding), che è recitato in tante lingue anche nel corso della stessa scena - dato che i suoi protagonisti sono in gran parte veri richiedenti asilo, e che, soprattutto, vale perché il racconto c'è, ed è il racconto di persone che cercano di conservare la propria dignità nonostante quotidianamente vivano sotto l'assedio di chi, come degli zombi, è infettato dal virus primordiale dell'intolleranza, oggi più che mai instillato in dosi massicce come un anestetico.
Gualano gira con mano sicura, dimostrandosi brava a flirtare con il grottesco ma anche a far salire l'asticella della tensione nei momenti giusti, coadiuvata da un buon comparto tecnico (i trucchi di Baburka Production sono efficaci nonostante la carenza di mezzi), e da una valida schiera di artisti del sottobosco romano a supporto (Il muro del canto e Piotta, tra i nomi di spicco nella colonna sonora, cui va aggiunto Zerocalcare, autore della locandina del film).

VOTO: ***½

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Noi siamo Afterhours

  • Documentario
  • Italia
  • durata 103'

Regia di Giorgio Testi

Con Manuel Agnelli

Noi siamo Afterhours

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - EVENTI SPECIALI

Dai primi passi mossi nel 1988, quando erano solo un gruppo di amici che suonava insieme, che viveva insieme, che insieme faceva tutto, anche andare a comprare gli strumenti come se fosse una sorta di messa laica, e che aveva trovato naturale la scelta della lingua inglese perché inglesi o americani erano i modelli di riferimento, gli Afterhours di strada ne hanno fatta tanta. Dopo il passaggio alla lingua italiana (con Germi, 1995) hanno attraversato il periodo più duro - arrivando a un passo dallo scioglimento, trovandosi coperti dai debiti e con situazioni anche personali di instabilità - proprio mentre erano in piena gavetta, impegnati a distribuire ossessivamente demo alla ricerca (a lungo vana) di un'etichetta che distribuisse quello che poi si è rivelato il disco della svolta, Hai paura del buio? (1997), oggi riconosciuto come il disco italiano indipendente più importante degli ultimi vent'anni.

«Se cerchi di controllare tutto ti condanni alla medriocrità, tutto funziona bene ma non ci sono picchi». Partendo da questa frase, che sottolinea la necessità di lasciarsi andare veramente e senza calcoli, rischiando figure barbine ma dandosi la possibilità di esaltarsi ed ottenere risultati memorabili, in Noi siamo Afterhours il frontman Manuel Agnelli (unico sopravvissuto a tutti i cambi di line-up) racconta questa storia e quel che c'è stato anche dopo, accompagnando con i propri pensieri e le proprie riflessioni le immagini del concerto celebrativo dei trent'anni di attività della band, tenuto a Milano il 20 aprile 2018 in un Forum di Assago tutto esaurito: un concerto che egli stesso ha definito un punto di arrivo dinnanzi al quale sarà fisiologicamente necessario cercare nuovi stimoli; un concerto durante il quale, sul palco, ai membri della formazione attuale si sono alternati quelli delle passate, quasi a voler chiudere un cerchio e salvare un'istantanea diversa e unica per ogni momento diverso e unico di un lungo viaggio; il regista Giorgio Testi, che giunge a questo docufilm dopo aver lavorato negli anni con il gotha del rock mondiale (Rolling Stones, Blur, Oasis e Elton John, solo per citarne alcuni) cerca di esaltare questo aspetto suddividendo il tutto in capitoli, ciascuno dei quali corrispondente al titolo di un disco e nel corso di ciascuno dei quali la voce narrante di Agnelli condivide sensazioni e rielabora ricordi attinenti mentre, sul versante visivo, le immagini del live vengono integrate da brevi filmati e scatti d'annata.
Noi siamo Afterhours è la testimonianza dinamica e viva di una notte che resterà uno snodo fondamentale nel percorso artistico di una delle band alternative rock più importanti della storia della musica italiana, capace, con lo scorrere del tempo, di crescere ed evolvere coerentemente e creativamente, divenendo elemento di raccordo tra generazioni di pubblico diverse.

VOTO: ***½

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Beautiful Boy

  • Drammatico
  • USA
  • durata 111'

Titolo originale Beautiful Boy

Regia di Felix Van Groeningen

Con Steve Carell, Timothée Chalamet, Maura Tierney, Amy Ryan, Kaitlyn Dever, Timothy Hutton

Beautiful Boy

In streaming su Rai Play

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Nic è un diciottenne pieno di talento artistico, un bravo studente con progetti di college che fa teatro, scrive, ama la pallanuoto ed il surf. Conduce una vita agiata e vive con il padre David (che da sua madre ha divorziato) in una famiglia felice che lo adora. Eppure, senza una ragione apparente, è caduto nel tunnel della droga. Lo ha fatto progressivamente, iniziando con qualche spinello in tarda adolescenza per poi pian piano provare praticamente tutto fino a diventare schiavo della metanfetamina. Nicholas e David Sheff esistono davvero, ed hanno scritto ciascuno di proprio pugno due autobiografie che viaggiano in parallelo e descrivono gli alti e bassi del rapporto distruttivo del ragazzo con la tossicodipendenza, fatto di fughe, ritorni e promesse tradite, ma anche dell'amore fortissimo che li mantiene sempre e comunque indispensabili l'uno all'altro.

A prendere questi due libri e trasformarli in una sceneggiatura è il regista belga Felix Van Groeningen, quello di Alabama Monroe, qui al suo primo film in lingua inglese, che però sembra far di tutto per complicarsi la vita, scegliendo per la prima mezzora abbondante una struttura diseguale e confusa che rende ostico relazionarsi con la timeline degli eventi e prender confidenza con i protagonisti, nonostante a prestargli il volto siano due attori in stato di grazia: un dolente e frustrato Steve Carrell nel ruolo del padre, e soprattutto Timothée Chalamet, un giovane prodigio per il quale già in Call Me by Your Name ci si era sperticati negli elogi, in quello del figlio. Sono loro due e le storie dei loro personaggi e del loro legame il valore aggiunto (e fino a un certo punto anche l'unico) di questo Beautiful Boy.
Quando poi il racconto inizia a diventare più lineare e l'ansia di accumulare del regista si placa, così come la sua tendenza a sopperire alla confusione e alla mancanza di ritmo dando un ordine alla prima ed instillando artificialmente il secondo attraverso la facile scorciatoia di una colonna sonora a tutto rock (che nella succitata prima mezzora mette in fila Mogwai, Nirvana, Tim Buckley e Sigur Rós), il film trova la sua strada, quella che lo porta, senza strafare e in maniera sincera, seppur con qualche ripetizione di troppo, a voler essere un monito per chi pensa che la tossicodipendenza possa colpire solo chi vive nel disagio, e a mettere in guardia su come il percorso per uscirne non sia affatto scritto ma sia anzi un sentiero selvaggio lastricato di sofferenza.

VOTO: ***

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Il vizio della speranza

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 100'

Regia di Edoardo De Angelis

Con Pina Turco, Massimiliano Rossi, Marina Confalone, Cristina Donadio, Marcello Romolo

Il vizio della speranza

In streaming su Infinity Selection Amazon Channel

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

25 mila abitanti regolari, 25 mila irregolari. Con questi numeri, che dicono tutto, il regista Edoardo De Angelis presenta Castel Volturno, teatro del suo quarto film, Il Vizio della Speranza.
In questo lembo di terra, più precisamente tra la distesa di casupole che affollano le rive del fiume Volturno, la storia intera si snoda: è la storia di Maria, una ragazza che in passato ha subito un durissimo trauma e che lì vive senza prospettive per il futuro, campando alla giornata con solo un cane per amico. Novella Caronte, traghetta donne morte dentro a liberarsi della vita che portano in gembo. Lo fa per conto di Zi' Mari, una 'madama' eroinomane che con questo traffico ci guadagna. Le donne in questione sono profughe o clandestine, oppure semplicemente disperate, la maggior parte sono prostitute che la gravidanza non l'hanno mai desiderata e quindi accettano di buon grado di affittare il proprio utero in cambio di denaro, affinché qualcuno "che i figli li vuole" se li compri.
Maria questo lavoro lo fa per tirare avanti e sfamare la sorella nullafacente e la madre sciroccata, che passano intere giornate in casa a dormire una sul divano e l'altra nella vasca, senza progettare niente per sé. Fino a quando il gesto rivoluzionario di una ragazza africana, che decide di sfidare il destino e fuggire per tenere il proprio bambino, fa scattare qualcosa anche in lei: forse la speranza non è solo un vizio, forse provare a cambiare la propria vita è possibile.

Il percorso di Maria è una parabola dal cuore esplicitamente cattolico concepita in maniera di per sé affascinante, nel corso della quale De Angelis riesce a ritagliare sprazzi di lirismo e tenerezza in un contesto popolato quasi solo di anime perse e desolazione, di vite allo sbando e rifiuti a cielo aperto, cercando di sollevare l'esistenza della protagonista dalla brutalità che le è propria. Purtuttavia, nonostante le belle immagini di De Angelis, il ricco contrappunto musicale fornito dalla colonna sonora di Enzo Avitabile, e le ottime prove degli attori (su tutti la lodevole Pina Turco nel non facile ruolo della protagonista, ed il 'sofferto' Carlo Pengue di Massimiliano Rossi, uno dei pochi uomini in un cast quasi totalmente popolato da donne), il film a lungo andare si sfilaccia, accartocciandosi su sé stesso come le vite disperate che descrive, tra simbolismi religiosi, dialoghi talvolta eccessivi, ed indugi inutili anche su disgrazie non fondamentali nell'economia del racconto (la morte del cane su tutte).

VOTO: ***

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7 sconosciuti a El Royale

  • Thriller
  • USA
  • durata 140'

Titolo originale Bad Times at the El Royale

Regia di Drew Goddard

Con Jeff Bridges, Cynthia Erivo, Dakota Johnson, Jon Hamm, Cailee Spaeny, Chris Hemsworth

7 sconosciuti a El Royale

In streaming su Disney Plus

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Nel 1959, un uomo seppellisce una borsa sotto il pavimento in una delle camere dell'hotel El Royale, per poi finire colpito a morte da un altro uomo. Dieci anni dopo, due uomini e una donna si ritrovano dentro quello stesso hotel - un tempo frequentato da politici e benestanti ma ormai caduto in disgrazia - ad aspettare che qualcuno venga ad accoglierli: la donna è una corista soul, gli uomini si dichiarano uno un prete e l'altro un commesso viaggiatore. Dopo l'arrivo dell'unico dipendente della struttura, un giovane che recita a memoria un panegirico sulle caratteristiche del posto prima di iniziare ad assegnare le stanze, sgommando con la propria automobile giunge una ragazza dai modi spicci e l'aria incazzosa. Nella propria pappardella introduttiva, il custode descrive la peculiarità dell'albergo, ovvero il suo esser stato costruito esattamente sul confine tra California e Nevada, con una linea rossa tracciata sul pavimento che va dal portone d'ingresso al bancone, e due corridoi ai lati dello stesso: calore e sole ad ovest, speranza e opportunità ad est, con tanto di leggi, listini e prezzi diversi a seconda del territorio che si sceglie di calpestare.

L'El Royale, ovviamente, non esiste, ma è stato partorito dalla fantasia dello sceneggiatore e regista Drew Goddard, che, in punta di metafora, riflette nel luogo la doppiezza e l'ambivalenza dei personaggi, e tramuta in incubo quel sogno americano che nell'anno dell'avvento di Nixon, e con la guerra del Vietnam in corso e la Manson Family che ammazza, sta già scricchiolando pericolosamente. Gli "sconosciuti" del titolo italiano (quello originale, di più ampio respiro, è Bad Times at the El Royale), giunti a questo punto sono cinque su sette: gli altri due si uniranno al gruppo in corso d'opera, chi prima - la sorella dell'incazzosa - e chi dopo - un guru hippie belloccio -, ma senza passare dalla reception, nel contesto di un racconto che, dopo una lunga prima parte classica, lineare e convincente, attraversa un segmento centrale nel quale regna la decostruzione, con scene proposte da diverse prospettive e angolazioni per distillare sorprese e centellinare particolari sui singoli "sconosciuti", ma che quando successivamente ritrova la linearità ha perso quota, e si sgonfia inesorabilmente in un finale prolisso e banale.

Arricchito da una colonna sonora da urlo che attinge al meglio di soul, R&B e rock anni '60 e dalle ottime prove degli attori (il finto prete Jeff Bridges e la cantante Cynthia Erivo su tutti), Bad Times at the El Royale è più che godibile per un'ora abbondante, ma taglia il traguardo delle due ore e venti con il fiato corto, probabilmente vittima di un meccanismo che affascina ma alla lunga (essendoci al timone Goddard e non Tarantino) sfianca, e di una sceneggiatura che, seppur puntuale nel suggerire domande per poi dare risposte spiazzanti, ha il difetto di giocarsi troppo presto tutte le carte migliori.

VOTO: ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Monsters and Men

  • Drammatico
  • USA
  • durata 98'

Titolo originale Monsters and Men

Regia di Reinaldo Marcus Green

Con John David Washington, Anthony Ramos, Kelvin Harrison Jr., Chante Adams, Nicole Beharie

Monsters and Men

In streaming su Amazon Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

A Brooklyn, New York, un omone nero, disarmato e benvoluto da tutti, viene ucciso per la strada dalla polizia in presenza di testimoni, uno dei quali riprende tutto con il telefonino. Intorno a questo evento ruota Monsters and Men, primo lungometraggio di Reinaldo Marcus Green, regista afroamericano nato e vissuto nel quartiere. In seguito al brutale assassinio non prende le mosse il consueto film d'inchiesta (non è un fatto realmente accaduto, anche se non sorprenderebbe se lo fosse), e nemmeno un film a tesi sulla violenza razzista delle forze dell'ordine. Dopo aver narrato la vicenda tenendola fuoricampo, Green (che dice di essersi ispirato ad Elephant di Gus Van Sant) concentra il proprio racconto su tre individui (tre neri) che direttamente o indirettamente ne vengono coinvolti, e ciascuno dei quali si trova, in conseguenza dell'accaduto, a dover fare una scelta etica o morale importante che potrà costargli molto.

Il primo è il testimone oculare e autore del video, un ragazzo poco più che ventenne con già una figlia a carico e la compagna di nuovo incinta: dovrà decidere se pubblicare quella prova schiacciante nella speranza che della morte dell'amico venga fatta giustizia, ma sapendo bene che i responsabili lo conoscono, lo minacciano e lo braccano. Il secondo è un ragazzo del quartiere che è passato per lavoro dall'altra parte della barricata: fa il poliziotto e non ha assistito al fatto, ma in vista del colloquio con la disciplinare, che gli chiederà conto dei comportamenti del collega accusato di omicidio, si trova a cercargli attenuanti quando ne parla in casa e a litigare con la collega di pattuglia - che lo difende acriticamente - quando è a lavoro, trovandosi schiacciato tra prospettive opposte. Il terzo è uno studente gran promessa del baseball, che in seguito ad una perquisizione 'finita bene' subita da parte della polizia sente il dovere di impegnarsi per la memoria del morto, rischiando di mettere a repentaglio il proprio futuro la sera prima dalla partita che potrebbe fargli guadagnare un contratto con una grande squadra.

In un film diviso in tre segmenti che hanno ciascuno un proprio senso, la parte migliore è forse l'incipit: prima ancora che il primo inizi e il testimone (che ne sarà il protagonista) riprenda l'assassinio, quello che diverrà protagonista del secondo (e del quale ancora si ignora la professione) canta serenamente e a squarciagola in macchina Let's Stay Together di Al Green prima di venir d'improvviso fermato dalla polizia. La tensione creata con semplicità da questa scena riecheggia per tutto il primo segmento, probabilmente il più "canonico" ma con altrettanta probabilità il meglio riuscito, per scemare durante il secondo e non pervenire nel corso del terzo (il più debole), in un film di certo ambizioso, che sceglie di evitare i giudizi sommari e cerca di mettere in scena letture e punti di vista diversi che nascono da bisogni e stati d'animo diversi, ma che al di là dei buoni propositi si trascina verso il finale stancamente dando una forte sensazione di inconcludenza.

VOTO: **½

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Boy Erased - Vite cancellate

  • Biografico
  • USA
  • durata 114'

Titolo originale Boy Erased

Regia di Joel Edgerton

Con Lucas Hedges, Nicole Kidman, Joel Edgerton, Russell Crowe, Xavier Dolan, Troye Sivan

Boy Erased - Vite cancellate

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - TUTTI NE PARLANO

A 19 anni, Jared Eamons viene accompagnato dalla madre presso la comunità Love in Action, un centro che ha lo scopo di restituirgli la propria mascolinità partendo dal presupposto che omosessuali non si nasce ma si diventa, e che quando si cade in questo genere di peccato lo si è fatto per compensare l'assenza di Dio. Una volta entrato nella struttura, seguirà dodici sessioni diurne di prova per poi passare le notti con la madre in una stanza d'albergo. Nel frattempo, il cellulare gli viene requisito così come ogni appunto scritto, e gli viene dato l'ordine di non riferire a nessuno ciò che accade durante gli incontri, oltre a quelli di non bere alcool, di non fumare e di non toccare né sé né gli altri, eccezion fatta per delle rapide strette di mano.

Il regista e attore Joel Edgerton (già autore del sopravvalutato The Gift) sceneggia e porta sul grande schermo le memorie raccolte da Garrard Conley nel libro omonimo, Boy Erased, e nel farlo parte dall'ingresso nella struttura, per poi attraverso lunghi e frequenti flashback presentare il padre - un prete battista che officia messa nella chiesa del paesino dell'Arkansas in cui vive da sempre -, andare a riprendere gli episodi che avevano portato Jared a prendere atto del proprio orientamento sessuale, e giungere all'ultimatum ricevuto dal padre stesso, che gli impone la terapia di conversione come unica condizione per rimanere sotto il suo tetto e nella sua chiesa.

Boy Erased vuol toccare tutte le fasi della crescita del protagonista, dall'iniziale disorientamento fino all'accettazione completa del proprio modo di essere, concentrando l'attenzione sulla fase centrale, ovvero quella del conflitto contro il pregiudizio che gli ritorna, castrante, dal padre e per suo mandato dallo pseudo-terapista dittatore (interpretato dallo stesso regista). Fatte salve le buone intenzioni, però, e fatta salva la sacrosanta denuncia di queste strutture anacronistiche e pericolose (quasi in parallelo con quella di Desiree Akhavan nel ben più riuscito The Miseducation of Cameron Post) il film non riesce mai a decollare del tutto, un po' per il ruolo sacrificato e poco più che ornamentale del padre Russel Crowe, un po' per l'acconciatura macchiettistica della madre Nicole Kidman, ma soprattutto per una regia pigra ed incerta che manca della necessaria urgenza comunicativa e si limita ad eseguire scolasticamente il compitino. Lucas Hedges, nella parte del protagonista, svolge un buon lavoro in sottrazione, ma non può tener su la baracca da solo.

VOTO: **½

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Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi)

  • Commedia
  • Gran Bretagna
  • durata 91'

Titolo originale Dead in a Week: Or Your Money Back

Regia di Tom Edmunds

Con Tom Wilkinson, Aneurin Barnard, Marion Bailey, Freya Mavor, Christopher Eccleston

Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi)

IN TV Sky Cinema Due

canale 302 vedi tutti

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2018 - SELEZIONE UFFICIALE

Williams ha provato a suicidarsi una decina di volte, ma qualcosa gli è sempre andato storto. Prima di fallire l'ennesimo tentativo, quello dal ponte di Chelsea, dal quale si lancia ad occhi chiusi atterrando però sul tetto di una barca, incontra uno strano tizio che gli dice di essere in grado di aiutarlo e gli lascia un biglietto da visita. È Leslie, un killer professionista, lavora per la Giuld of Assassins (Associazione degli Assassini), e si occupa proprio di far fuori a pagamento aspiranti suicidi come lui. All'appuntamento che William gli chiede si presenta con tanto di brochure con su la lista dei modi in cui si vuole essere ammazzati: si accordano per duemila euro e la classica pallottola in testa, perché le altre soluzioni erano troppo esose. L'esecuzione avverrà entro una settimana, terminata la quale, se sarà ancora vivo avrà i soldi indietro. Peccato che a William le cose inizino di colpo ad andar bene: riesce a trovare un casa editrice disposta a pubblicare il libro che manda in giro da tempo ("Le mie morti", scritto tra un suicido abortito e l'altro), e l'editor che le dà la notizia è una ragazza assai carina di cui si innamora. In poche parole, William non vuole più morire, ma quando cerca Leslie per comunicargli di voler recedere si sente rispondere che non è possibile (anche perché ha già pagato). Gli resta quindi una settimana da vivere pericolosamente, durante la quale sfuggire al killer che lui stesso ha assoldato per essere ucciso.

La prima cosa che salta in mente leggendo la traccia di Dead in a Week (Or Your Money Back) ("morto tra una settimana o ti ridiamo i soldi"), è la somiglianza spudorata con quella del ben superiore Ho affittato un killer di Aki Kaurismaki, che probabilmente un ringraziamento tra i crediti se lo sarebbe meritato. Stante l'impossibilità anche solo di accostare artisticamente i due film, mancando l'esordiente Tom Edmunds della leggerezza di tocco che madrenatura ha fornito in dote al regista finlandese, Dead in a Week è presentato dallo sceneggiatore inglese, qui al debutto come regista, come una commedia dark devota ai film dei fratelli Coen. Togliendo di mezzo anche i Coen (poverini), Dead in a Week può definirsi una commedia dark all'acqua di rose votata al british humor e piuttosto innocua, che scambia la cattiveria con la banalità spinta quando va bene, e quando va male con la gratuità (come nell'imbarazzante minuto passato ad insultare Michael J. Fox).

Per la prima mezzoretta scarsa (fino ai primi spari di Leslie), il film, pur nel suo orizzonte limitato, si lascia guardare e strappa qualche risata: perché le situazioni sono buffe e i personaggi (che non brillano per definizione dei caratteri) calati in un mondo squinternato ma con dei punti di riferimento; passato quel limite, il plot si contorce su sé stesso con l'obiettivo di arrivare ad un timing che conceda il diritto di parlare di lungometraggio, e il sistema mostra la corda, le situazioni e le battute dai e dai diventano prevedibili e un banalissimo fracasso - privo di qualsiasi sottotesto che non sia a livello elementare - domina la scena fino al colpo di coda finale, che è inaspettatamente originale tanto quanto Tom Wilkinson è bravo a mostrare il cuore del suo killer che ama il suo lavoro e vuole uccidere un'ultima persona per non essere costretto ad andare in pensione: ma né l'uno né l'altro sollevano l'operazione dalla mediocrità.

VOTO: **

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Cafarnao - Caos e miracoli

  • Drammatico
  • Libano
  • durata 120'

Titolo originale Capharnaüm

Regia di Nadine Labaki

Con Nadine Labaki, Zain Al Rafeea, Yordanos Shiferaw, Treasure Bankole, Kawthar Al Haddad

Cafarnao - Caos e miracoli

In streaming su Now TV

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ALICE NELLA CITTÀ 2018 - EVENTI SPECIALI

Capharnaüm era l'antico villaggio della Galilea nella cui sinagoga affollata di gente, secondo i vangeli, Cristo iniziò a predicare. Soprattutto nella tradizione dei paesi mediorientali, questo nome è divenuto un sostantivo (in italiano 'cafarnao') che sta ad indicare un luogo pieno di confusione e disordine. Proprio in quest'ultima accezione, Capharnaüm è diventato il titolo del terzo lungometraggio della regista libanese Nadine Labaki, che dice di averlo scelto dopo aver osservato, in un secondo tempo, l'elenco interminabile dei temi che, quando l'operazione era ancora in fase embrionale, s'era ripromessa di trattare fissandoli su una lavagna.
Partendo dal maltrattamento dei minori, Labaki si propone di mettere in scena i nuovi poveri del proprio paese all'interno di un racconto universale che vuole parlare prima di tutto a chi alza muri o si rifiuta anche solo di considerare il diritto ad esistere di chi ha la sola colpa di essere nato al posto e nel momento sbagliato; tutto ruota attorno a Zain, un ragazzino di circa 12 anni che non avendo documenti non conosce neanche la propria data di nascita, il quale, dal carcere minorile in cui è rinchiuso per aver accoltellato un uomo, accusa e cita in giudizio i genitori che a ragione disprezza, colpevoli di averlo messo al mondo senza avere le possibilità per crescerlo adeguatamente: un espediente curioso e spiazzante che serve a dare il via al lungo flashback che ricostruisce la sua infanzia terribile fatta di miseria, sfruttamento e privazioni.

Il razzismo e la discriminazione, il traffico di infanti e le vessazioni subite dai migranti costretti alla clandestinità da legislazioni infami, trovano man mano posto tra le evoluzioni di una storia tristemente verosimile che però, fatto salvo il merito di portare all'attenzione dei più le condizioni esistenziali terribili comuni a troppi dimenticati, non sa far nulla di meglio che procedere come un accumulo sterile di sventure destinate ad approdare ad un epilogo banalmente consolatorio, appesantita altresì da una tendenza all'estetizzazione fuori luogo e fuori contesto.
Perché se da un lato la regista marca la propria vicinanza ai reietti prendendo quasi tutti gli attori dalla strada per portare sullo schermo i loro vissuti carichi di difficoltà di ogni sorta, dall'altro si preoccupa più della potenza delle immagini che della loro effettiva consistenza, imbellettando una serie di brutture ma restando sempre in superficie e tenendosi sistematicamente a distanza da ogni parvenza di analisi, ed apparendo ricattatoria nella scelta dell'oggetto della narrazione, con il ragazzino quasi sempre al centro della scena e per di più accompagnato la metà del tempo da un bimbo di un anno che a malapena cammina (spesso in situazioni agghiaccianti che 'obbligano' alla compassione, talvolta in brevi momenti teneri che arruffianano sorrisi), ed esibizionista in quelle stilistiche, distanti anni luce dalla povertà e dalla disperazione che vorrebbe denunciare, con droni che effettuano riprese aeree mirabolanti alzandosi assieme al suono dei violini dell'invadente e pomposa partitura musicale del marito Khaled Mouzanar (anche tra i produttori): affinché la sofferenza paghi dal punto di vista della resa cinematografica, e alla faccia del pudore che avrebbe invece meritato.
Il tutto, dando la costante impressione di star sin troppo attenta a non apparire scorretta e a non infastidire oltremodo, impressione confermata non tanto dalla già stucchevole escalation retorica dei dieci minuti finali, quanto dall'ultimo fotogramma - programmaticamente liberatorio - che concedendo il primo sorriso ad un bambino che fino ad allora non aveva avuto ragione di farne, autorizza quel pubblico che aveva chiamato a riflettere a sciogliere le righe, a sentirsi di nuovo a posto con la coscienza tenuta in ostaggio per due ore, e a tornare ad ignorarne altri dieci, cento o mille che continueranno a non sorridere mai.

 VOTO: **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Kursk

  • Drammatico
  • Francia, Belgio, Lussemburgo
  • durata 117'

Titolo originale Kursk

Regia di Thomas Vinterberg

Con Matthias Schoenaerts, Léa Seydoux, Peter Simonischek, Colin Firth, Max Von Sydow

Kursk

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Nell'agosto del 2000, a meno di nove anni dallo scioglimento dell'Unione Sovietica, la Russia era un colosso dai piedi d'argilla, che a causa delle difficoltà economiche aveva svenduto, o manutenuto pessimamente, i pezzi migliori della sua flotta navale. L'elemento di punta della stessa era il sommergibile K-141, detto Kursk, che a dieci anni dall'ultima esercitazione fu mandato in acqua per non riemergere mai più, a causa delle esplosioni ravvicinate di due dei missili che portava nella propria prua. Mentre la maggior parte dei membri dell'equipaggio morì probabilmente sul colpo, altri 23 rimasero vivi ma imprigionati in un compartimento nella poppa, con l'acqua che premeva per entrare e l'ossigeno destinato a finire, a cento metri di profondità nel Mare di Barents. Nei nove giorni successivi, con il mondo alla finestra, la marina russa non riuscì ad agganciare il relitto a causa dello stato fatiscente in cui versavano i già scarsi mezzi di soccorso di cui disponeva, e ciononostante rifiutò le offerto di aiuto di diversi paesi stranieri, abbandonando quegli uomini al loro destino.

Partendo da un libro del giornalista Robert Moore (A Time To Die: The Unltold Story of the Kursk Tragedy) tradotto in sceneggiatura da Robert Rodat (candidato all'Oscar per Salvate il Soldato Ryan), Thomas Vinterberg omaggia la memoria delle vittime di questa tragedia con un film che al lato storico e catastrofico accosta quello sentimentale e intimista, dando ampio spazio ai rapporti umani e familiari (temi a lui cari da sempre). A tal scopo, dopo aver aperto il film mostrando il comandante del compartimento in quelli che saranno tra gli ultimi momenti di gioia trascorsi con il figlioletto e la moglie incinta, passa ai preparativi e ai successivi festeggiamenti del matrimonio di un altro dei marinai, focalizzando l'attenzione sulla clima di solidarietà reciproca che li unisce. Paradossalmente, è però proprio su questo versante teoricamente più vicino alle corde del regista che Kursk vive i suoi momenti peggiori, eccedendo nelle melensaggini e tendendo a fornire delle future vittime un ritratto tanto eccessivamente bonario da risultare respingente.

Ed anche andando avanti con il racconto, la tensione claustrofobica ben costruita nella scena delle esplosioni e nelle successive ambientate in fondo al mare (bellissima quella con in due uomini in apnea) tende a smorzarsi ogni volta che la telecamera riemerge, perché da quando le mogli chiedono notizie sbattendo sul muro di gomma delle autorità russe, l'immobilità che ne consegue si riflette inesorabilmente sul racconto, non essendoci a controbilanciarla un coinvolgimento emotivo mai guadagnato perché mendicato furbescamente tramite i mezzucci di cui sopra.

Inoltre, e non può essere solamente una nota a margine, nonostante il film di Vinterberg possa apparire duro nei confronti degli ufficiali russi in quanto gli riconosce di fatto la responsabilità di aver sacrificato 23 vite umane per evitare allo Stato una umiliazione politica internazionale, in verità è reticente e sa bene di esserlo, perché la conferenza stampa messa in scena durante la quale una moglie che inveiva disperata chiedendo di accettare gli aiuti dall'estero fu avvicinata da due uomini con in mano una siringa e sedata, è avvenuta veramente; peccato però che a tenere quella conferenza non fu un 'ammiraglio' (cui di fatto lo spettatore è portato ad accollare la responsabilità maggiore), ma nientemeno che il primo ministro, ovvero Vladimir Putin, mai neanche nominato in quasi due ore di pellicola, tornato oltretutto comodamente dalle proprie vacanze estive con 6 giorni di ritardo dal dramma. Lo Zar, sicuramente, avrà apprezzato l'opportuna dimenticanza.

VOTO: **

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