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Festa del Cinema di Roma 2016: le recensioni
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Festa del Cinema di Roma 2016: le recensioni

Come già accaduto lo scorso anno, concludo la mia spedizione all'Auditorium per l'11° Festa del Cinema di Roma (e la parallela 14° edizione di Alice nella Città) estendendo una playlist riepilogativa a beneficio di chi volesse farsi un'idea generale delle opere proiettate ma non avesse la voglia o il tempo di andarsi a cercare i titoli uno per uno.
Qui sotto, trovate riproposte le recensioni dei 20 film che ho visto nel corso della manifestazione, ordinate in base al mio gradimento e con indicata, per ciascuno, la sezione specifica in cui è stato presentato.
Per questioni di spazio, ho omesso di inserire i trailer: per vederli basta andare sulla pagina della recensione originale cliccando sul voto in coda al testo.

Playlist film (aperta ai contributi)

La tartaruga rossa

  • Animazione
  • Francia
  • durata 80'

Titolo originale La Tortue rouge

Regia di Michael Dudok de Wit

La tartaruga rossa

In streaming su Nexo Plus

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE TUTTI NE PARLANO

Dopo la candidatura all'Oscar nel 1996 con il corto d'animazione The Monk and the Fish, e soprattutto dopo la vincita della statuetta nel 2001 nella medesima categoria con Father and Daughter, il regista olandese Michael Dudok de Wit ha attirato l'attenzione di Iaso Takahata, tanto da ricevere dallo stesso, nel 2006, la proposta di fare con lui ed il suo Studio Ghibli il suo primo lungometraggio. Partito nel 2007, il progetto ha attraversato nove lunghi anni di gestazione, dei quali i primi tre solamente per la creazione dello storyboard da cui poi s'è sviluppato il resto: il risultato è un film che rasenta l'eccellenza, e che proprio attraverso lo stile, il tratto grafico e l'attenzione alle tematiche inerenti la natura, giustifica la scelta dello studio fondato da Hayao Miyazaki - notoriamente restio a muoversi al di fuori dal Giappone - di guardare, per una volta, anche oltre i confini patrii.

Realizzato utilizzando attori veri come modelli per dare agli animatori la possibilità di rendere la gestualità dei personaggi al massimo del realismo, ricorrendo per la massima parte dei disegni al 'Cintiq', una penna grafica digitale che imprime direttamente l'immagine su uno schermo, con l'eccezione del 3D per i movimenti della zattera e quelli della tartaruga, e della carta a carboncino per gli sfondi, capace - quest'ultima - di rendere nei campi lunghi uno splendido effetto rumore, La tortue rouge consta in ottanta minuti di pura poesia.
Senza nemmeno il bisogno di servirsi dei dialoghi, Dudok de Wit utilizza la tartaruga ed il suo mito di animale tanto longevo da apparire quasi immortale per mostrare le tappe della vita di un essere umano, evidenziando il progressivo mutamento della sua percezione della natura, che da nemica diventa pian piano complice.

Determinante è anche la scelta dei colori, dove al rosso denso della tartaruga - il rosso del sangue e del fuoco, della rabbia e della passione - che si staglia su tutto, fanno da contraltare i blocchi di sfumature quasi monocromatiche: dal bianco e nero tout court che domina le scene notturne, alle tonalità seppia che si fanno onnivore quando le rocce e la sabbia vanno a confondersi col cielo cupo, fino al verde e all'azzurro che si fanno dominanti, rispettivamente, nel bosco e nel mare aperto con cielo terso. Accompagnato dalle suggestive musiche di Laurent Perez Del Mar, Dudok de Wit trasforma la semplicità in lirismo e conferisce ai passaggi più onirici e surreali un senso di magia e incanto, donando a La tortue rouge, nella sua circolarità di fondo e nella sua narcotica genuinità, il respiro eterno della fiaba d'altri tempi.

VOTO ****½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Nocturama

  • Drammatico
  • Francia
  • durata 130'

Titolo originale Nocturama

Regia di Bertrand Bonello

Con Finnegan Oldfield, Vincent Rottiers, Hamza Meziani, Manal Issa, Martin Guyot

Nocturama

ALICE NELLA CITTÀ 2016 - PANORAMA

Sette ragazzi, tutti francesi e alcuni giovanissimi, si muovono in lungo e in largo per Parigi, si spostano in metro, ne percorrono le strade: ognuno per conto proprio, ma con un occhio sempre rivolto all'orologio e una mano al cellulare, per tenere sotto controllo tempi e orari, e per scambiarsi messaggi in codice. Talvolta si incrociano e fanno insieme brevi tratti, poi si dividono di nuovo. Lo scopo dei loro spostamenti è la ripartizione di buona parte dei quattro chili di esplosivo di cui dispongono su quattro diversi obiettivi sensibili, per generare quattro esplosioni simultanee che li consegneranno alla storia. Il poco esplosivo che resta lo tengono per il centro commerciale presso cui hanno pianificato di nascondersi per la notte - senza più i telefonini e dopo aver preso gli accorgimenti necessari per rendersi irrintracciabili - per farlo detonare nel caso qualcosa dovesse andare storto.

Presentato nella sezione Panorama ad Alice nella Città, nell'ambito dell'XI Festa del cinema di Roma, Nocturama racconta l'esecuzione di un attentato dal punto di vista esclusivo degli attentatori, perlopiù tutti ragazzi se non ragazzini, restando incollato a loro nelle ore che lo precedono ed in quelle immediatamente successive, e tenendo ai margini tutto ciò che accade intorno, la cui descrizione è limitata a quel che passa sugli schermi televisivi a loro disposizione. Bertrand Bonello, regista, soggettista, sceneggiatore e autore delle musiche, non lascia trapelare nulla neanche riguardo le ragioni del gesto. Perché a contare, nella sua storia, sono i fatti: le motivazioni sono un orpello, un accessorio inutile, laddove le stesse dinamiche sociali e l'aria pesante respirata quotidianamente, da sole, bastano a rendere plausibile il concepimento di simili operazioni da parte di una gioventù frustrata, educata all'odio, incattivita e privata di prospettive.

Strutturato per precisa scelta in due sezioni radicalmente diverse tra loro, il film si presenta per tutta la prima parte come una sorta di anti-action frenetico e quasi privo di dialoghi, con i protagonisti in continuo movimento, mescolati alla gente ma quasi sempre solitari e rigorosamente isolati dalle altre solitudini che gli passano accanto, dove a dare il ritmo al loro incedere è uno score minimale e velato di elettronica, per poi mutare fisiologicamente nella seconda, quando lo spazio ampio ma chiuso del centro commerciale diviene il claustrofobico teatro dell'attesa: un microcosmo spaventosamente (ir)reale nel quale la colonna sonora divengono le hit selezionate nel negozio di hi-fi, e nel quale tra corse con i kart e bagni in vasca, e tra pseudo-spettacoli canori ed avances ai manichini, a crescere sono la consapevolezza di aver aumentato fino all'inammissibile la propria distanza dal mondo intorno, e il conseguente terrore di essere giunti ad un passo dalla fine.
Interpretato ottimamente da un cast composto in buona parte da attori non professionisti ai cui personaggi lo script dona con il passare dei minuti un buon grado di definizione, Nocturama è un alienante pugno sullo stomaco, è un incubo terribilmente plausibile, è un disperato grido di dolore nei confronti di un'umanità costretta ad aver paura anche dei propri figli.

VOTO ****

Rilevanza: 1. Per te? No

Manchester by the Sea

  • Drammatico
  • USA
  • durata 135'

Titolo originale Manchester-by-the-Sea

Regia di Kenneth Lonergan

Con Casey Affleck, Lucas Hedges, Kyle Chandler, Michelle Williams, Gretchen Mol

Manchester by the Sea

In streaming su Amazon Prime Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Lee si è lasciato andare. Da quando una tragedia lo ha convinto a scappar via dalla piccola Manchester dove è nato e cresciuto (sita nella costa nordorientale degli Stati Uniti), Lee si è dimesso dalla vita attiva. Lavora come tuttofare, in nero, nei sobborghi di Boston, dove vive da solo senza mostrare il minimo interesse per alcuno, al massimo cercando la rissa, la sera, quando va ad ubriacarsi al pub per chiudere degnamente la giornata. Se la morte improvvisa ma comunque attesa del fratello maggiore Joe, malato di cuore, lo induce a tornare nella città natale, la successiva lettura del testamento, che lo designa unico tutore del figlio sedicenne Patrick e ministro con portafoglio dei sui beni, lo costringe a restarci, chiamandolo da un lato a provare a riallacciare il rapporto con il nipote, ma dall'altro a far di nuovo i conti con il trauma da cui era fuggito, personificato dall'ex moglie Randi, che da lì non è mai andata via.

Ci vuole un notevole senso della misura per far sì che le tematiche trattate in Manchester by the sea non lo facciano sfociare nel patetico, o che non rischino, al contrario, di finire disinnescate da un utilizzo non oculato dell'arma dell'ironia: e di senso della misura è evidentemente dotato il regista Kenneth Lonergan, che su due ore e passa di pellicola distende un'opera asciutta e stratificata che si rivela poco a poco, inserendo nel corpo del racconto del presente brevi flashback che progressivamente svelano l'entità e la profondità del dramma passato che ha indotto Lee a cambiare aria: una catastrofe familiare da gelare il sangue a cui Lonergan conduce con mano leggera, muovendosi con naturalezza e levità tra un mare di emozioni contrastanti, utilizzando un umorismo mai indiscreto, affidandosi alla brillantezza dei dialoghi e alla splendida interpretazione di un Casey Affleck caustico e malinconico, che lavora in sottrazione curando tutte le sfumature di un personaggio che pare sentirsi addosso, e il cui dolore sembra vivere in prima persona, nello sguardo avvilito e torvo, nella postura chiusa, nel rifiuto anche solo di provare a cercarsi qualcosa dentro.

Valorizzato anche dall'attenzione al dettaglio per la caratterizzazione dei personaggi di contorno (da sottolineare le prove di Michelle Williams, limitata nel minutaggio ma straziante nella parte di Randi, l'ex moglie di Lee, e di Lucas Hedges, ottimo Patrick, il nipote con due fidanzate, una band e tanta voglia di vivere), Manchester by the sea si presenta come un prodotto solido e duraturo, che parla con pudore di perdita e di amore, riuscendo a lavorare sotto pelle e lasciare, anche dopo la visione, ampie tracce del suo amarissimo realismo.

VOTO ****

Rilevanza: 2. Per te? No

Al final del túnel

  • Giallo
  • Argentina, Spagna
  • durata 120'

Titolo originale Al final del túnel

Regia di Rodrigo Grande

Con Leonardo Sbaraglia, Pablo Echarri, Clara Lago, Javier Godino, Federico Luppi

Al final del túnel

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Da quando un incidente automobilistico gli ha portato via la moglie e la figlia lasciandolo su una sedia a rotelle, Joaquin vive solo, con i debiti fino al collo, in un vecchio palazzo scuro e maltenuto; sta farcendo delle polpette al veleno per far passare a miglior vita il proprio vecchio cane malato, quando alla porta suona Berta, una spogliarellista venuta lì con la figlioletta Betty in risposta al suo annuncio per il subaffitto di una stanza. Poco dopo il loro subentro, dalle mura dello scantinato ode le voci di un gruppo di rapinatori che sta scavando un tunnel per arrivare sotto al caveau della banca adiacente. Proprio quando il rapporto con la nuova inquilina e la sua bambina comincia a sciogliersi, restituendogli un minimo di autostima, spiando i 'nuovi' vicini scopre che anche lei fa parte della banda, quindi elabora un piano per boicottare l'imminente rapina e tirar su pure qualche spiccio.

Al final del túnel è l'esordio nel thriller di Rodrigo Grande, giovane regista argentino proveniente dalla commedia, prodotto dall'altrettanto giovane Pablo Echarri - che interpreta anche il ruolo di Galereto, il cattivissimo capo della banda - e con protagonista un Leonardo Sbaraglia versatile e intenso nel restituire l'ombrosità e le inaspettate doti fisiche e d'ingegno del travagliato Joaquin.

Punto di partenza, nonché elemento determinante di un film che non dà mai motivo di avvertire come eccessive le sue due ore di durata, è la sceneggiatura di ferro scritta dallo stesso Grande, studiata nei minimi particolari, senza lasciar nulla al caso nè aggiungere alcunché di superfluo, coadiuvata da un eccellente lavoro alla fotografia di Felix "Chango" Monti, che dà il meglio nei chiaroscuri delle scene più buie. E se il ritmo cresce con il passare dei minuti, fino a farsi forsennato in una terza e ultima parte densa e avvolgente, Grande dimostra padronanza dei mezzi e versatilità riuscendo ad introdurre, nei momenti in cui la tensione è più alta, elementi umoristici capaci di spezzarla senza togliere alla storia un grammo della sua presa e del suo fascino.

Presentato alla Festa di Roma 2016 nella Selezione Ufficiale, Al final del túnel (bel titolo dalla doppia valenza, perché riferibile anche alla situazione umana del protagonista) è un thriller sorprendente e spassoso che brilla per la pulizia del racconto, l'efficacia della messinscena, e la qualità delle soluzioni visive e narrative.

VOTO ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Noces

  • Drammatico
  • Francia
  • durata 95'

Titolo originale Noces

Regia di Stephan Streker

Con Lina El Arabi, Sébastien Houbani, Babak Karimi, Neena Kulkarni, Olivier Gourmet

Noces

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

A diciotto anni, per la Zahira è giunto il momento di salire sull'altare. Lo hanno deciso mamma e papà, che in quanto all'identità del futuro sposo le hanno concesso la facoltà di scegliere tra ben tre candidati, tutti residenti in Pakistan, di cui favoriscono foto e contatto skype, in modo che possa visionarli comodamente dal pc senza bisogno di partire. Lei, che oltretutto sta anche vivendo l'incubo dell'aborto per una gravidanza indesiderata, non ha alcuna intenzione di smettere di prendere le proprie decisioni e sposare uno sconosciuto, perché al di là del proprio credo religioso è pienamente integrata nella paese occidentale che da anni la ospita. Combattuta tra l'affetto per i propri familiari (che non tollerano risposte negative) e il bisogno di autodeterminare il proprio futuro, lascia la loro casa per rifugiarsi dall'amica Aurore, cercando in lei conforto, e dentro di sé la forza d'animo per prendere la decisione più dolorosa.

Quello messo in scena dal regista Stephan Streker in Noces (presentato in Selezione Ufficiale alla Festa del cinema di Roma 2016), ispirato al cosiddetto "caso Saida", accaduto in Belgio nel 2007, è un dramma che origina da un corto circuito comune a molte ragazze provenienti da quelle latitudini. Al di là del discorso strettamente religioso, ciò che il rifiuto legittimo di una ragazza come Zahira può comportare, è il venir meno al rispetto di tradizioni millenarie con ripercussioni a più livelli: non solo sui rapporti all'interno della famiglia, che nella migliore delle ipotesi disconosce la mela marcia, ma anche su quelli tra la famiglia stessa e l'intera comunità d'origine, presso la quale cade in disgrazia.

Streker dà degli eventi un resoconto asciutto e teso, stando ben attendo a non esprimere giudizi, anzi soffermandosi sul lato umano di tutti i membri della famiglia, per far emergere di ciascuno il grado di sensibilità e le più intime convinzioni. Zahira non rinnega mai la propria religione ma si oppone alla cultura del proprio paese, che a prescindere dalla fede le impedisce in ogni caso di decidere il proprio sposo da sé, nonostante la più grande delle due sorelle abbia ceduto prima di lei, nonostante i genitori reputino il rifiuto un'onta, e nonostante il fratello - spesso a lei complice - le abbia ripetutamente fatto presenti le conseguenze che lo stesso avrebbe, in patria, sul piano sociale. La sua mentalità aperta la porta ad opporsi a quella che vive come un'ingiustizia, a lottare contro un sistema di pensiero che nega la sua dignità di donna, ponendola, suo malgrado, dall'altra parte della barricata su cui i suoi cari si sentono di stare, e dando il la al conto alla rovescia verso una tragedia (in)evitabile.

VOTO ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Hell or High Water

  • Drammatico
  • USA
  • durata 102'

Titolo originale Comancheria

Regia di David Mackenzie

Con Chris Pine, Katy Mixon, Ben Foster, Jeff Bridges, Melanie Papalia, Dale Dickey

Hell or High Water

In streaming su Netflix

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE TUTTI NE PARLANO

Tanner (Ben Foster) entra ed esce di galera, perché tra aggressioni e rapine (nonché l'assassinio fortuito, pare, del padre) è abituato ad oltrepassare continuamente il limite della legalità; il fratello Toby (Chris Pine) invece ha sempre rigato dritto, ma ha accumulato debiti che non riesce a riscattare, e con l'imminente scadenza dell'ipoteca rischia di perdere definitivamente la casa di famiglia e tutto il petrolio che ha sotto, che vorrebbe invece lasciare ai figli per il loro sostentamento futuro. Riuniti dopo il ritorno del primo in libertà, i due progettano una serie di piccoli colpi a delle banche con l'intenzione di fermarsi al raggiungimento della somma necessaria per estinguere l'ipoteca. Ma le loro performance destano presto l'attenzione del ranger del Texas Marcus (Jeff Bridges) che, coadiuvato dal partner Alberto (Gil Birmingham), si adopera per chiudere la carriera lavorativa col botto prima di andarsene in pensione.

Hell or High Water è un ottimo esempio di western moderno, aggiornato ai problemi tipici di questi tempi, alla nuova povertà, alle nuove radici della disperazione, e Mackenzie lo gira con mano invisibile, stando ben attento a non esprimere giudizi e a non dividere preventivamente i personaggi tra buoni e cattivi, anzi a far sì che sia proprio il lato umano della vicenda a far emergere, se non la legittimità, almeno la comprensibilità delle azioni dei due fuorilegge. Il gioco delle coppie al centro del film, benché moralmente sbilanciato in partenza, non vede la forbice allargarsi proprio per la concretezza delle loro istanze: perché se Tanner è da tempo un piccolo criminale, stavolta ruba per una buona causa, mentre Toby ci è diventato per stretta necessità e non ne va neanche fiero, tanto da chiedere espressamente al figlio maggiore di non imitarlo. Il cattivo, quello vero, per loro come per i due tutori della legge, come per tutti i cittadini che si odono esprimere un parere al riguardo, è il sistema che autorizza una banca a sfilare sotto al naso gli averi a chi è in difficoltà. Da qui l'ironia e la genialità nella trovata di Tanner e Toby: rapinare proprio le banche della compagnia che ha in mano l'ipoteca, per riscattarla, paradossalmente, con i suoi stessi soldi rubati.

Un minutaggio inferiore, ma non per questo minore importanza, viene concesso all'altra coppia, quella dei tutori della legge, con l'umorismo caustico e un po' razzista del ranger Marcus – con un grandissimo Jeff Bridges, migliore attore del lotto: aria imbolsita e la parlata greve e pastosa, probabilmente accento texano - contrapposto alla flemma e alle doti di incassatore del partner mezzo comanche e mezzo messicano Alberto. In un film dove prevalgono i colori caldi, in curiosa assonanza con il temperamento focoso dei due personaggi principali, non può non esser segnalata la qualità di una colonna sonora assolutamente in linea nei toni, che si divide tra i brani fisiologicamente più ambientali dello score scritto da Nick Cave e Warren Ellis, ed il country (tra gli altri) dei texani Townes Van Zandt e Waylon Jennings.

VOTO ****

Rilevanza: 1. Per te? No

Land of the Little People

  • Drammatico
  • Israele, Palestina
  • durata 83'

Titolo originale Medinat hagamadim

Regia di Yaniv Berman

Con Ofer Hayoun, Maor Schwitzer, Mishel Pruzansky, Ben Sela, Hen Saban, Keren Kats

Land of the Little People

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Quattro ragazzini sugli undici anni si muovono tra campi incolti armeggiando con degli archi e una balestra rudimentali: inseguono un piccolo cinghiale, che finisce incastrato in una trappola piazzata tra della sterpaglia. Tali, l'unica femmina del gruppo, gli spacca la testa con un masso, poi tutti insieme ne trascinano la carcassa verso la base militare abbandonata che hanno eletto a covo segreto; una volta lì, la gettano nel pozzo, non prima di aver invocato il mostro che dicono abitarla e che con essa intendono nutrire, da loro temuto e venerato come fosse un dio pagano. Intanto fuori inizia la guerra, e gli uomini del villaggio militare dove abitano sono chiamati ad arruolarsi. Tornati alla 'loro' base e trovandola occupata da due disertori che l'hanno scelta come rifugio, iniziano la loro guerra di riconquista, una guerra parallela a quella reale, senza regole e senza quartiere.

Diretto e prodotto, rispettivamente, da un israeliano ed un palestinese, Yavin Berman e Tony Copti, Land of the Little People è un film disturbante e dal pesante sottotesto politico, uno sferzante atto di accusa nei confronti di Israele, paese in stato di guerra civile permanente la cui mentalità militarista concima la psiche dei giovani, abituati a vivere la morte come una delle opzioni possibili e già proiettati a quando, prima o poi, arriverà anche per loro il momento di combattere.

Con i padri impegnati al fronte e le madri troppo prese a guardare la tv per averne notizie, bambini, adolescenti e ragazzi vagano indisturbati tra terreni selvaggi, associandosi in bande che si danno la caccia per farsi del male senza fermarsi nemmeno davanti al legame di sangue, in un'atmosfera da post apocalisse dove non esistono più il senso di collettività ed il bene comune, dove non c'è più morale, dove non c'è più paura di morire; consistendo il loro gioco di bambini nell'addestramento per il futuro, costruendo armi artigianali e testandole sugli animali che gli capitano a tiro, Tali, Chemi, Yonathan e Louie vedono nell'invasione del loro territorio da parte dei due disertori l'occasione per fare un passo in avanti ed arrivare al quadro finale, quello decisivo con le prede in carne e ossa.

Partendo come un film d'avventura per terminare come un tesissimo slasher, Land of the Little People scuote, spiazza e colpisce al cuore e allo stomaco, presentando la metafora dura e disperata di una società (l'Israele di Netanyahu) che, a furia di affidarsi all'aggressività e alla violenza, partorisce generazioni compromesse e incapaci di elaborare altri tipi di linguaggio.

VOTO ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Sing Street

  • Drammatico
  • Irlanda
  • durata 105'

Titolo originale Sing Street

Regia di John Carney

Con Ferdia Walsh-Peelo, Lucy Boynton, Aidan Gillen, Maria Doyle Kennedy, Jack Reynor

Sing Street

In streaming su Amazon Prime Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE
ALICE NELLA CITTÀ 2016 - PANORAMA

Nell'Irlanda in recessione economica degli anni '80, il quindicenne Conor è costretto a cambiare scuola, passando da una costosa privata ad una pubblica per via delle difficoltà economiche seguite alla perdita del lavoro da parte del padre. L'impatto con il nuovo istituto è traumatico, perché in men che non si dica si trova preso di mira sia da un bulletto delle classi superiori che dal direttore dell'istituto. Sommata questa difficoltà a quelle vissute in famiglia, dove le continue liti tra i genitori rendono l'atmosfera sempre pesante, Conor è in un momento di bassa autostima a cui decide di reagire osando l'inosabile: attratto sin dal primo sguardo da Raphina, la ragazza più bella e sofisticata della scuola, un'aspirante modella di un anno più grande di lui, si mette in testa di fare il passo più lungo della gamba e di conquistarla, e a tal scopo la invita a recitare nel videoclip che sta per girare con la sua band. Il problema, però, è che lui la band proprio non ce l'ha: si industria dunque per tirarne su una all'istante, riuscendo ad assemblare, in poche ore, uno scombinato gruppetto di emarginati volenterosi ma tecnicamente grezzi.

John Carney è uno che la musica ce l'ha nel sangue: giunto al suo terzo film, con Sing Street la pone per la terza volta al centro del proprio racconto, con l'aggiunta (rispetto ai precedenti Once e Being Again) di una nota autobiografica. Anche lui visse l'adolescenza in quella Dublino lì, e anche lui 'scese' dalla scuola privata a quella pubblica per questioni economiche; diversamente, invece, dal protagonista, non visse - pure se probabilmente lo avrebbe tanto voluto - la goliardica avventura in salsa rock che fa di Sing Street una commedia riuscita, fresca e divertente. Arruolati gli attori dopo un lungo casting (il protagonista, Ferdia Walsh-Peelo, nasce come giovane soprano, figlio d'arte), e contattato un autore proveniente proprio da quegli anni per scrivere i sette pezzi originali della band (Gary Clark dei Danny Wilson), Carney ha saputo creare un'opera stimolante e ricca di umorismo, che pesca a piene mani dalla cultura popolare dell'epoca (si cita non solo la musica dei vari Duran Duran, Cure, Hall & Oates, o Spandau Ballet, ma anche il cinema con Back to the Future) e, grazie ad un buon lavoro non solo sui dialoghi ma anche sui testi stessi dei brani, rende a tratti esilarante il viaggio del protagonista alla ricerca del coronamento di un sogno, o anche solo alla scoperta della consapevolezza di sé. Cavalcando gli stereotipi delle commedie sugli anni '80 con la sfrontatezza di una garage band alle prime armi, Carney riesce a non restare in superficie ma a definire solidamente i personaggi, le situazioni ed il contesto familiare, facendo emergere proprio da quest'ultimo il personaggio più riuscito, quello del fratello Brendan, maggiore di sei anni, frustrato esperto musicale e suo primo consigliere.

Presentato nella sezione Panorama di Alice nella città (nell'ambito dell'XI Festa del cinema di Roma) con un mese di anticipo sull'uscita nelle sale, Sing Street dà l'impressione di essere l'esempio di un'alchimia perfetta, uno dei quei casi nei quali che il risultato ottenuto è superiore alla somma del valore dei singoli ingredienti impiegati: un piccolo grande film, dunque, scanzonato e leggero, da guardare senza pensieri battendo ritmicamente il tempo con i piedi.

VOTO ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Train to Busan

  • Drammatico
  • Corea del Sud
  • durata 118'

Titolo originale Bu-san-Haeng

Regia di Sang-ho Yeon

Con Yoo Gong, Dong-seok Ma, Yu-mi Jeong, Woo-sik Choi, So-hee Ahn, Soo-ahn Kim, Eui-sung Kim

Train to Busan

In streaming su Amazon Prime Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE TUTTI NE PARLANO

Un fattorino a bordo del proprio furgone incontra per strada un posto di blocco anticipato da un cartello che parla di quarantena: ha urgenza di fare una consegna, quindi prega l'ufficiale di fargli evitare la deviazione e lasciarlo passare. Questi, mosso a compassione, chiude un occhio e gli dà il via libera. Appena ripartito, l'uomo in un momento di distrazione colpisce qualcosa: scende dal veicolo e constata di aver investito un piccolo capriolo, che giace a terra morto stecchito. Una volta verificato che il mezzo di trasporto non ha riportato danni, torna al posto guida e riparte. Pochi secondi dopo, l'animale compie degli scatti nervosi, poi, di colpo, si rialza.

L'incipit di Train to Busan (titolo originale: Busanhaeng) ne delimita da subito il perimetro: niente di nuovo sotto il sole, ma l'ennesimo film sugli zombie, o meglio, l'ennesima variante sul tema, e senza neanche i sottotesti di critica politica e sociale cari a Romero. Eppure, Train to Busan è un prodotto commerciale di assoluto livello, un horror avvincente che tiene incollati sulla poltrona per due ore e fila dritto come il treno sul quale è ambientato: il treno che da Seul conduce a Busan, sul quale un'umanità varia e composita sta viaggiando ignara del misterioso virus che si sta allargando a macchia d'olio nel paese e che sta per diffondersi anche lì, attraverso una ragazza salita in corsa subito dopo esser stata ferita.

Valorizzato da ottimi effetti di trucco, diretto con mano sicura, e nobilitato da una buona qualità tecnica complessiva, Train to Busan si discosta da molti prodotti affini per l'attenzione riservata in sede di scrittura ai personaggi, stereotipati quanto si vuole ma ben definiti e resi capaci di generare empatia: merito di Sang-ho Yeon, regista e sceneggiatore al secondo film con attori in carne e ossa dopo un inizio di carriera dedicato all'animazione, è aver saputo evitare che la fretta di mettere in scena la carneficina travolgesse il racconto trasformandolo nella consueta sequela di scene splatter fini a sé stesse.

Dal broker separato costretto a rinunciare a una giornata di lavoro per accompagnare la figlia dalla madre, all'uomo rozzo ma di buon cuore salito a bordo con la moglie in avanzato stato di gravidanza, dal battitore di una squadra liceale di baseball con cheerleader spasimante al seguito, fino al viscido e codardo dirigente d'azienda che pensa solo a sé stesso, tutti i passeggeri di questo sfortunato treno sono serviti da dialoghi credibili e dotati di personalità tonde che li rendono adorabili, detestabili, o più semplicemente umani, e che trasformano quello che aveva tutti i crismi per essere la dimenticabile scopiazzatura di altri, in un horror di tutto rispetto che fa il suo lavoro fino in fondo, ripagando la mancanza di originalità con tanta sostanza e la giusta dose di adrenalina.

VOTO ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Layla M.

  • Drammatico
  • Paesi Bassi, Marocco
  • durata 98'

Titolo originale Layla M.

Regia di Mijke de Jong

Con Nora el Koussour, Ilias Addab

Layla M.

In streaming su Netflix

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ALICE NELLA CITTÀ 2016 - CONCORSO

Layla è un'immigrata di seconda generazione: vive ad Amsterdam, ha origini marocchine ed è di religione musulmana come i suoi genitori, ma diversamente da loro (ormai perfettamente integrati) si sente in dovere di difendere il diritto delle donne di indossare il burka, vietato per legge dal governo: perché detesta i soprusi e disconosce l'autorità. Così la sua fede si intensifica tanto quanto la voglia di libertà, e dopo che un arresto, subito assieme al fratello durante una manifestazione, porta la situazione familiare a precipitare con il padre che la rinnega per il suo estremismo, decide che è il momento di sposare l'amato Abdel e sparire con lui. Scampati per un pelo a un raid della polizia contro un gruppo di giovani jihadisti in Belgio, trovano ospitalità ad Amman, in Giordania, in quel medio oriente nel quale ha sempre sognato di vivere.

Layla non è una radicalista. Layla è un'idealista con uno spiccato senso del rispetto, è una ragazza combattiva che odia i pregiudizi, e che in Allah e in quel viaggio vede la possibilità di sradicarsi da quell'occidente che non le permette di scegliere. Nella sua genuinità, persegue l'utopia del mondo perfetto, convinta com'è che da un lato ci siano i buoni e dall'altro i cattivi. Ma una volta giunta a destinazione, impiegherà poco tempo per capire che la realtà è molto diversa da ciò che aveva fantasticato.
La poco più che ventenne Nora El Koussour è straordinaria nel donare alla sua Layla un'ampia gamma di emozioni, ed è attorno alla sua verve e alla sua espressività che la regista Mijke de Jong costruisce la storia: prima introducendo il tema e i personaggi con tono paradossalmente leggero e quasi scanzonato, poi spostando progressivamente il baricentro, fissandolo ben presto sul dramma. Presentato in concorso ad Alice nella Città 2016, Layla M. traccia il doloroso percorso di questa giovane verso la coscienza della propria identità e la consapevolezza di come la propria religione sia percepita dall'interno, e, su scala più ampia, fornisce un ritratto inquietante di quale sia il livello di incomunicabilità tra due società sempre più ai ferri corti.

VOTO ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Long Excuse

  • Drammatico
  • Giappone
  • durata 124'

Titolo originale Nagai Iiwake

Regia di Miwa Nishikawa

Con Masahiro Motoki, Pistol Takehara, Sôsuke Ikematsu, Haru Kuroki, Kenshin Fujita

The Long Excuse

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Quinto film della carriera cinematografica della regista e scrittrice Miwa Nishikawa (con alle spalle collaborazioni con Kore-Eda, al pari del direttore della fotografia Yutaka Yamazaki), The Long Excuse (titolo originale: Nagai Iwake) è tratto direttamente da un proprio libro concepito appositamente per diventare una sceneggiatura.

Scrittore, peraltro, è anche il protagonista Sachio, cui la vita borghese e ben avviata, senza stenti ma anche senza scosse, ha eroso buona parte della vena creativa; sposato senza gioia con Eri, con la quale si perde in continui battibecchi, ama trastullarsi in sua assenza con la giovane editrice Chihiro. Una mattina, proprio mentre è in intimità con quest'ultima, apprende dalla tv la notizia di un pulmann che cadendo da uno strapiombo in un lago ghiacciato ha causato decine di vittime, salvo ricevere, poco dopo, una chiamata della polizia che lo informa che una di queste è proprio sua moglie. Non provando disperazione né alcuna forma di dolore, decide di simulare comunque sconforto durante il rito funebre, senza però riuscire a piangere.
Rimasto del tutto solo dopo il benservito dell'amante, spaventata dalla freddezza con cui ha accolto il lutto, inizia ad avvertire il senso di perdita e di vuoto, e per riempire di nuovo le sue giornate si offre di aiutare Yoichi, camionista sempliciotto, vedovo della migliore amica di sua moglie - morta con lei nell'incidente -, disperato perché rimasto solo con due figli piccoli cui non può accudire per via del lavoro che lo costringe sempre in viaggio.
Nonostante nulla li accomuni, anzi li dividano il livello culturale ed il ceto sociale, Sachio inizia da subito a passare intere giornate a casa dell'altro, giocando con i figli, trattandoli come fossero i propri (che non ha mai voluto avere), e dispensando loro saggezze distanti da quello che è sempre stato il suo modo di pensare, iniziando a legarsi a loro e progressivamente a comprendere l'importanza dell'amore parentale, della condivisione, del sentirsi utili.

Presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del cinema di Roma 2016, The Long Excuse disegna un delicato viaggio emotivo, il percorso di educazione ai sentimenti di un cinquantenne, che prende il via quando la piena consapevolezza della solitudine lo lascia in balia della propria mai percepita fragilità: un percorso ritardato e lungo ma autentico cui la regista, probabilmente, concede un quarto d'ora e qualche ripetizione di troppo (specie nella sezione centrale).
Tra gli attori, accanto al sempre agitato Pistol Takehara nel ruolo di Yoichi (già visto in Scabbard Samurai di Hitoshi Matsumoto), brilla il redivivo Masahiro Motoki, perso dai radar del grande cinema dai tempi del film premio Oscar Departures, maturo e convincente nel restituire passo dopo passo la metamorfosi del protagonista, o, per dirla in maniera meno enfatica, la propria fisiologica ridefinizione delle priorità.

VOTO ***½

Rilevanza: 1. Per te? No

Una

  • Drammatico
  • USA
  • durata 94'

Titolo originale Blackbird

Regia di Benedict Andrews

Con Rooney Mara, Ben Mendelsohn, Indira Varma, Riz Ahmed, Ruby Stokes, Tara Fitzgerald

Una

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Dopo una notte passata in un night club, a ballare e a scopare con uno sconosciuto, Una si alza, fa la doccia e poi guarda per l'ennesima volta la faccia del cinquantenne Ray su un ritaglio di giornale che ha con sé da un po'. A quindici anni di distanza, pensa sia giunto il momento di tornarlo a trovare. Ora lei ne ha ventotto, ma da allora è rimasta emotivamente in sospeso: dorme ancora nel letto singolo a casa di mamma, impantanata nel ricordo di quella storia, che si concluse con lui in carcere per quattro anni e lei a piangere augurandosi il suo ritorno. Scoperta la sua professione (è responsabile del personale per una società) si reca direttamente sul posto di lavoro con in testa, a girarle, tante domande cui solo lui può dare risposta: perché mi hai abbandonata? sono stata l'unica? è stato solo abuso, o c'era amore?

Dopo quindici anni da regista di teatro, Benedict Andrews ha deciso di fare il salto portando al cinema la pièce Blackbird, di David Harrower: titolo, Una; protagonisti, l'ascendente Rooney Mara, fantasmatica e tirata il giusto per trasmettere al tempo stesso la vulnerabilità e la rabbia di Una, e l'indecifrabile Ben Mendelsohn, strepitoso in una prova misurata in ogni dettaglio per dare corpo allo stordimento di Ray. Il tema è quello, spinosissimo, della pedofilia, il punto di vista quello della vittima: vittima di un abuso avvenuto in passato, mai dimenticato ma mai nemmeno vissuto come tale. Nella sua testa di tredicenne, Una stava facendo l'amore, e non riesce più a restare senza sapere se per lui valeva lo stesso, se lo ha fatto anche con altre, o se lo fa ancora oggi, se è sposato, se ha figlie, e se lo fa anche con loro.
Prediligendo spazi bui ed inducendo un'atmosfera tagliente, Andrews si incolla ai protagonisti - che si estraniano dal mondo per entrare in una loro bolla e lì dentro confrontarsi - e, pur flirtando pericolosamente con la morbosità, conduce fino in fondo, con padronanza di mezzi e idee chiare, un film torbido, sospeso e scioccante.

VOTO ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La principessa e l'aquila

  • Documentario
  • USA
  • durata 90'

Titolo originale The Eagle Huntress

Regia di Otto Bell

Con Alma Dalaykhan, Nurgaiv Rys, Aisholpan Nurgaiv

La principessa e l'aquila

In streaming su iWonder Full Amazon channel

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Sui monti Altai, nel nordest della Mongolia, la tradizione vuole che da duemila anni i nomadi Muslim maschi si succedano, di padre in figlio, nel ruolo di "cacciatore con l'aquila", secondo quella che non va letta come un'investitura o una sorta di eredità, ma come una vera e propria vocazione: ogni figlio maschio, quando pronto, ruba dal nido un aquilotto che terrà con sé fino ad un tempo limite di sette anni, termine oltre il quale sentirà il dovere di lasciarlo volare via libero.
Dopo un'intera infanzia passata accanto al padre, cacciatore con l'aquila, all'età di 13 anni Aisholpan ha deciso di sfidare le convenzioni, riproponendosi di diventare la prima donna cacciatrice con l'aquila, nonostante i pareri contrari degli anziani del villaggio, che da sempre reputano le donne troppo deboli e fragili per un simile lavoro e più adatte ai lavori domestici.

Visibilmente (e comprensibilmente) affascinato da un costume così singolare e dal genuino entusiasmo della ragazzina, il regista Otto Bell si è recato in Mongolia con pochi mezzi ed una squadra numericamente ridotta all'osso per seguire e filmare prima le esperienze formative di Aisholpan come addestratrice, e poi i tre momenti salienti del suo "percorso di formazione": il furto di un aquilotto dal nido, la partecipazione trionfale al Golden Eagle Festival, e la caccia invernale alla volpe.
Favorito dallo splendore dei paesaggi ed aiutato da un quantomai calzante commento sonoro new age, The Eagle Huntress è semplice nella dinamica del racconto e forse a lungo andare ripetitivo, ma vale sicuramente una visione in quanto preziosa finestra su un mondo misterioso e seducente, che da un lato svela i dettagli di quella che a quelle latitudini è una vera e propria ragione di vita, e dall'altro testimonia il coraggio e la temerarietà di una tredicenne dal fisico forte ma tutt'altro che mascolina nello spirito, che ha osato sfidare le convenzioni e, forse inconsapevolmente, tirar giù uno dei tanti steccati che impediscono alle donne di agire in piena autonomia.
Presentato nella Selezione Ufficiale dell'XI Festa del cinema di Roma ma passato in precedenza già - tra gli altri - al Sundance e a Toronto, The Eagle Huntress è già stato venduto in tutto il mondo (Italia compresa, dove uscirà con il fuorviante titolo La Principessa e L'Aquila), con rumors su eventuali/possibili/probabili candidature ai prossimi Oscar, e in cantiere una versione animata prodotta dalla 20th Century Fox.

VOTO ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Naples '44

  • Documentario
  • Italia
  • durata 80'

Titolo originale Naples '44

Regia di Francesco Patierno

Naples '44

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Norman Lewis, giovane ufficiale inglese, venne assegnato come supporto, in qualità di traduttore, alle truppe della Quinta Armata Americana che sul finire del seconda conflitto mondiale entrarono nella Napoli martoriata dalla guerra e dalla fame. La sua permanenza durò poco più di un anno, dal settembre 1943 all'ottobre 1944, periodo durante il quale si innamorò di una città sofferente ma ancora affascinante, e della sua popolazione fantasiosa, capace di sopravvivere alla desolazione e agli stenti e adattarvisi utilizzando l'ingegno. Assistette ad epidemie e carestie, all'eruzione del Vesuvio e al miracolo di San Gennaro, vide donne prostituirsi per portare soldi a casa, e uomini attaccar briga contro i soldati dell'esercito alleato, rei di essere ben pagati e quindi percepiti come partiti migliori da quelle in cerca di marito, assistette all'ingrossarsi del mercato nero ed al puppulare di truffatori e piccoli geni nell'arte di arrangiarsi. Lewis annotò tutto in dei diari che poi, una volta affermatosi come scrittore, trascrisse e pubblico nel 1978 nel libro Naples '44.

Conquistato da un libro che è una dichiarazione d'amore per Napoli e per la sua gente e al tempo stesso una denuncia degli orrori della guerra, Francesco Patierno ha deciso di farne un film affidando all'attore inglese Benedict Cumberbatch (Adriano Giannini nella versione italiana) il compito di leggerne interi stralci mentre sullo schermo le immagini di repertorio (reperite tra gli archivi di tutto il mondo) si alternano a spezzoni di film a tema i cui personaggi sembrano talvolta interagire attivamente con il narratore (ad esempio Totò, immaginato ad impersonare l'avvocato Vincenzo Lattarullo, che tirava a campare recitando ai funerali il ruolo del ricco "zio di Roma"), e a brevi riprese nel presente, tra le quali quelle in cui un attore (non accreditato) passeggia interpretando lo stesso Lewis supposto di ritorno nella Napoli odierna, il tutto contrappuntato da una corposa colonna sonora incentrata sulle musiche originali composte ad hoc da Andrea Guerra.
Nonostante l'indubbio impegno profuso in fase di costruzione ed assemblaggio, e nonostante il lodevole intento di mescolare il presente con il passato al fine di stimolare e rinfrescare la memoria, il Naples '44 di Patierno non riesce però ad esser di più che un suggestivo audiobook con commento visivo e sonoro, patendo la pesantezza della riproposizione letterale dei testi scritti ed il didascalismo insito nella natura stessa del progetto.
VOTO ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

I Am Not a Serial Killer

  • Thriller
  • Irlanda, Gran Bretagna
  • durata 104'

Titolo originale I Am Not a Serial Killer

Regia di Billy O'Brien

Con Christopher Lloyd, Laura Fraser, Max Records, Karl Geary, Bruce Bohne, Matt Roy

I Am Not a Serial Killer

ALICE NELLA CITTÀ 2016 - PANORAMA

John Wayne Clover è un sedicenne problematico il cui passatempo preferito è aiutare la madre e la zia nell'obitorio nel quale lavorano, imbalsamando corpi e facendo la conta degli organi. Il dottor Neblin, che lo segue ormai da tempo, ha diagnosticato la sua tendenza sociopatica, avvisandolo di avere tutti i tratti caratteriali per poter diventare un serial killer: di conseguenza, per evitare di perdere il controllo e commettere qualcosa di irreparabile, John si è dato delle regole da rispettare scrupolosamente. Quando un giorno un uomo viene trovato massacrato, ed il suo corpo deturpato e mancante di un rene, John, prima degli altri, intuisce essere proprio l'opera di un serial killer. Le sue indagini lo portano presto ad assistere a distanza all'omicidio successivo: individuato il responsabile nel signor Crowley, un insospettabile vecchietto che abita nel vicinato, John inizia a seguirlo, ossessionato dall'idea di riuscire a fermarlo, ma prima ancora di comprendere quale disegno questi stia mettendo in atto Nel farlo, però, rischia di abbassare la guardia nei confronti di sé stesso e di far uscire il lato mostruoso che da tempo tiene faticosamente a bada.

Presentato ad Alice nella Città nella sezione Panorama, nell'ambito dell'XI Festa del cinema di Roma, I am not a serial killer, del regista irlandese Billy O'Brien, è la trasposizione cinematografica del primo dei tre libri dedicati dallo scrittore Dan Wells a questa sorta di Dexter in fasce. L'elemento caratterizzante del film di O'Brien è non cercare la suspense a tutti i costi, bensì proporsi quasi come un dramma psicologico incentrato sulla figura del ragazzo - serial killer potenziale - e sulla sua sfida con sé stesso: comprendere e disinnescare lo psicopatico senza diventare come lui.
Partendo da questo assunto, il regista costruisce un racconto malato e cupo, avvolgendolo in un'atmosfera opprimente cui fa da contraltare il ricorso saltuario ad un senso dell'umorismo macabro e bislacco. Il giovane protagonista Max Records (già visto, ancor più giovane, in Nel paese delle creature selvagge), è bravissimo, con la sua aria slavata, a rendere le difficoltà e l'intuito di questo ragazzo capace di empatizzare più con i pazzi che con i sani, e altrettanto si può dire per il veterano Christopher Lloyd (lo scienziato Doc in Back to the future), il cui serial killer ha l'aspetto di un anziano claudicante e all'apparenza inoffensivo.

Ma nonostante, con il suo passo moderato ma costante, il film tenga alta l'attenzione fino a pochi minuti dalla fine, peraltro sostenuto da una buona colonna sonora rock (che culmina con l'immortale Spirit in the Sky di Norman Greenbaum), a far crollare un po' tutto è proprio l'epilogo: confuso, frettoloso, e caratterizzato da una svolta fanta-horror astrusa e fuori contesto. Un vero peccato.

VOTO **½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Tramps

  • Commedia
  • USA
  • durata 82'

Titolo originale Tramps

Regia di Adam Leon

Con Callum Turner, Grace Van Patten, Michal Vondel, Mariola Mlekicki, Mike Birbiglia

Tramps

In streaming su Netflix

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Quando il fratello traffichino Darren lo chiama dal carcere - dove dovrà passare la notte per via di una rissa in cui è stato coinvolto - chiedendogli di completare un lavoro al suo posto, Danny è costretto, suo malgrado, ad accettare, essendo in ballo una ricompensa da 1500 dollari: si tratta di salire su una macchina, arrivare alla stazione del treno, e qui scambiare una valigetta con quella posseduta da un'altra persona. Peccato, però, che una volta arrivato alla stazione Danny prenda quella sbagliata: si trova così di nuovo assieme all'autista dell'auto, una ragazza di nome Ellie, a girare alla ricerca della valigetta appena lasciata.
Viaggiando insieme in lungo e in largo, prima in macchina, poi in treno, a piedi, o su delle biciclette rubate, costretti ad introdursi in case altrui e oltretutto con il timore che i committenti perdano la pazienza e gliela facciano pagare, Danny ed Ellie passano uno accanto all'altra due intere giornate da perfetti sconosciuti, raccontandosi a vicenda mezze verità e cercando di resistere alla reciproca attrazione.

A seconda dei punti di vista, il regista e sceneggiatore Adam Leon definisce Tramps, suo secondo film (presentato nella Selezione Ufficiale alla Festa del cinema di Roma 2016), avventura romantica oppure crime movie senza violenza. Un film dalle due anime, dunque, che convivono bene per una buona metà, ovvero finché la strana coppia continua a vagabondare senza risultato, con un senso strisciante di pericolo che dona al racconto tensione, e l'ottima chimica tra i due attori principali (Callum Turner e Grace Van Patten) che rende le schermaglie dei loro personaggi godibili e interessanti. Peraltro, il continuo movimento cui sono costretti dagli eventi si sposa alla perfezione con la voglia che entrambi hanno di muoversi, di spostarsi, di dare una svolta alle proprie vite: lui commesso di fast food con il sogno di un impiego da chef in un ristorante, lei ex spogliarellista in attesa di una scintilla (e dei soldi) per prendere armi e bagagli e fuggire via lontano.
Ma se sotto il profilo dell'inseguimento sentimentale Tramps tiene e si lascia apprezzare, per di più valorizzato da una buona colonna sonora e da un uso dinamico e funzionale della macchina a mano, è sotto quello della crime story che deraglia pesantemente, precipitando in una voragine di sceneggiatura (che fine ha fatto la seconda valigetta, quella che Danny non ha mai ritirato?) che, inevitabilmente, manda in secondo piano tutto il resto, costringendo a classificare il film sotto la voce "occasioni perdute", e ad augurarsi che, per la prossima occasione, Leon decida di testare le proprie buone doti da regista su un soggetto scritto e sviluppato da altri.

VOTO **½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Moonlight

  • Drammatico
  • USA
  • durata 110'

Titolo originale Moonlight

Regia di Barry Jenkins

Con Ashton Sanders, Naomie Harris, Mahershala Ali, Andre Holland, Janelle Monáe

Moonlight

In streaming su Amazon Prime Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Moonlight vorrebbe narrare il coming of age di un ragazzo focalizzando l'attenzione, sostanzialmente, sui suoi rapporti con due persone: la madre e il migliore amico d'infanzia. E fin qui, nessun problema. Vuole farlo, però, spalmando il racconto su circa vent'anni, ed estrapolando tre momenti 'esemplari' del suo percorso di crescita (riconducibili, ovviamente, uno all'infanzia, un altro all'adolescenza e l'ultimo all'età adulta), ai quali assegna un pari minutaggio, e attraverso i quali pretende di fornire un quadro esaustivo. Tra il ripromettersi e il fare, però, ci sono di mezzo una scrittura imperfetta e una regia fumosa.

Enunciato in partenza lo schema di base, ci sono ora da aggiungere i particolari distintivi: il ragazzo in questione è nero e gay, la madre è tossica e scostante, e il migliore amico, dopo averlo sedotto e innamorato, lo pesta come l'uva eseguendo - per paura di rappresaglie - gli ordini del bulletto della scuola. In sostanza, il quadro delineato è architettato per far sì che anche lo spettatore più truce si senta in dovere di prendere le parti a Chiron, il protagonista, di immedesimarsi nella sua ricerca di un ruolo nel mondo: e non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che il film si regge in massima parte su questa empatia indotta con le cattive. In ognuno dei tre tronconi in cui il regista Barry Jenkins suddivide Moonlight, avviene qualcosa di decisivo nei rapporti del ragazzo con le due persone succitate, ma tutto ciò che gira attorno a questo nucleo appare, a conti fatti, come un assemblaggio di riempitivi, per di più affidando la definizione dei personaggi più alla qualità degli attori (Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes si superano in bravura nelle parti dei 'tre' Chiron) che a sviluppi veri e propri, dispensando un po' di luoghi comuni, buoni per piacere alle masse, e veleggiando sulle ali di un politically correct sfacciato e ruffiano il giusto per poter puntare agli Oscar.

VOTO **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Lion - La strada verso casa

  • Drammatico
  • Australia, Gran Bretagna, USA
  • durata 129'

Titolo originale Lion

Regia di Garth Davis

Con Dev Patel, Nicole Kidman, Rooney Mara, David Wenham, Priyanka Bose, Sunny Pawar

Lion - La strada verso casa

In streaming su Amazon Prime Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Di ritorno da una spedizione col fratello maggiore in giro per racimolare soldi e cibo, Saroo Brierley si perse alla stazione di Burhanpur, salì sul treno sbagliato e arrivò, dopo due lunghi giorni di viaggio, a Calcutta, a 1600 metri dalla sua città, Khandwa. Era il 1986, e aveva cinque anni. Parlava a stento l'indiano e non conosceva il bengalese (la lingua del posto), stentava a pronunciare il suo nome, storpiava quello del suo villaggio, e se gli si chiedeva come si chiamasse la madre, rispondeva "Mamma". Nessuno di coloro che lo cercavano altrove lo trovò, e nessuno di coloro che lo 'trovarono' riuscì a capire quale fosse la sua provenienza. Già abituato agli stenti, sopravvisse alla strada, poi finì in orfanotrofio, fino a quando fu preso in adozione da una coppia di amorevoli australiani che lo allevarono come un vero figlio a Hobart, in Tasmania. Ma la famiglia è la famiglia, e nel 2008, fidanzato e lavoratore, scoprendo l'esistenza di Google Earth iniziò ad utilizzarlo per ricostruire il percorso verso il villaggio dal nome storpiato.
Il resto è storia. Perché Saroo Brierley esiste davvero, e questo racconto incredibile e commovente è al centro della sua autobiografia.

Ma se Saroo Brierley, quello vero, merita stima e tanto di cappello per tutto ciò che ha superato, lo stesso non può dirsi di Garth Davis, che, nel bolso adattamento cinematografico Lion, prova a condensare venticinque anni in due ore e poco più ma lo fa a scapito dei personaggi perché, protagonista a parte, solo la madre adottiva Sue - una sofferente Nicole Kidman - ha una caratterizzazione degna di questo nome: gli altri sono tutti figuranti, compresa Lucy, la ragazza di Saroo, cui presta il volto una Rooney Mara incerta e spaesata. La storia è organizzata in due blocchi, che vista la pesantezza si potrebbero chiamare anche monoliti: specie il primo, con Saroo bambino (interpretato dall'esordiente Sunny Pawar), farraginoso, soporifero e decisamente troppo lungo; il secondo, con Saroo adulto ('The Millionaire' Dev Pavel), è sicuramente più centrato e fluido ma comunque scolastico, oltre che scontato per motivi 'strutturali', tutto improntato al quarto d'ora di attesissima ed applauditissima melassa finale. Condita di lacrime. E di sbadigli.

VOTO **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Maria per Roma

  • Commedia
  • Italia
  • durata 93'

Regia di Karen di Porto

Con Karen di Porto, Andrea Planamente, Cyro Rossi, Diego Buongiorno, Nicola Mancini

Maria per Roma

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Maria vive a Roma, e divide la propria esistenza tra l'impiego di key-holder per un'agenzia che affitta appartamenti ai turisti ed il sogno di realizzarsi nella recitazione. Il suo amico più fedele è Bea, un jack russel femmina di quattordici anni che porta con sé ovunque, sia nel letto che sulla Lambretta con cui copre in lungo e in largo e ripetutamente il centro della città; altro amico inseparabile è il telefono, che squilla in continuazione, prima distraendola dal dovere di accogliere i turisti, con chiamate che la deviano verso scuole di teatro o set improvvisati sotto il Tevere ad alimentare la propria passione, poi rispedendola all'appuntamento di lavoro successivo, impedendole quasi sistematicamente di dare al suo rapporto con la settima arte la continuità che lei vorrebbe.

Maria per Roma, esordio cinematografico dell'attrice e regista Karen Di Porto, è sostanzialmente tutto qui: è il racconto di una giornata tipo, frenetica fino allo sfinimento, di una giovane precaria romana che lotta per affermarsi nella professione che ha scelto, ma che per farlo deve scendere quotidianamente a compromessi con la vita reale, che le impone la necessità di mantenere un impiego fisso che le dia la sicurezza di poter arrivare con le sole proprie forze alla fine del mese.

Di porto adotta uno stile di regia semplice, e gira il centro di Roma restituendo il ritratto di una città caciarona popolata da gente di ogni tipo il cui obiettivo principale, perlopiù, è trovare il proprio posto nel mondo. Il problema, però, è la povertà di una storia che si limita a documentare le tappe del vagare quotidiano della protagonista senza la minima ambizione di puntare un po' più in alto, di accampare qualche critica sociale, o di suggerire una qualsiasi lettura altra che conferisca un po' di corpo ad una struttura ed una sceneggiatura esili fin quasi all'inconsistenza. Maria per Roma resta così una sorta di videodiario fine a sé stesso, con personaggi se si vuole anche ben caratterizzati e qua e là un paio di trovate divertenti, ma che non va - e non vuole andare - oltre un'autoreferenzialità immotivata e respingente.

VOTO **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Birth of a Nation - Il risveglio di un popolo

  • Drammatico
  • USA
  • durata 117'

Titolo originale The Birth of a Nation

Regia di Nate Parker

Con Nate Parker, Armie Hammer, Jackie Earle Haley, Gabrielle Union, Aja Naomi King

The Birth of a Nation - Il risveglio di un popolo

In streaming su Amazon Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE

Nella Contea di Southampton, in Virginia, nell'agosto del 1831, Nat Turner, schiavo predicatore utilizzato dai bianchi per ammansire con le sue parole i neri ribelli, con l'intento di dare la libertà alla sua gente organizzò una sanguinosa rivolta che dopo pochi giorni fu sedata, e poi seguita una violentissima rappresaglia. Lui finì impiccato e fatto a pezzi, e la sua memoria infangata per oltre un secolo.
Personaggio simbolo nella lotta di liberazione dei neri, Nat Turner e la sua storia vengono portati sullo schermo dall'attore Nate Parker, in quella che è una vera e propria sfida per il suo esordio da regista; una sfida accentuata dalla scelta del titolo, che apertamente rimanda a quello - identico - del film di David W. Griffith che nel 1915 (al di là dei meriti tecnici) sostenne tesi razziste e di fatto rilanciò il Ku Klux Klan: The Birth of a Nation.

A prescindere da proclami e provocazioni, il biopic su Nat Turner è indubbiamente sentito, ma la voglia matta di 'radicalizzare' il confronto porta il neoregista ad esagerare, schematizzando e semplificando il racconto fino al limite di una distinzione manichea tra i buoni e i cattivi, dimenticando di fornire di una caratterizzazione decente molti dei personaggi che girano attorno al protagonista, ovvero l'onnipresente sé stesso attore, la cui interpretazione invadente fa il paio con la regia morbosa in un mix letale che porta Nat ad assurgere a figura cristologica, con tanto di visione della sua (ma)donna al momento di morire, e la telecamera a soffermarsi oltre il dovuto sui particolari più cruenti, con l'unico intento di sottolinearne la crudezza per ingenerare rabbia.
In questa sagra del troppo e del troppo poco, The Birth of a Nation appare un polpettone piatto, autocelebrativo, e ridondante nell'affannosa ricerca della parabola a tutti i costi.

VOTO **

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