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(Non) dimenticando Fassbinder
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(Non) dimenticando Fassbinder


Il titolo di questa playlist è la storpiatura di un saggio scritto quasi vent'anni fa dal critico e storico del cinema Thomas Elsaesser che titolava, per l'appunto, Dimenticando Fassbinder. Nel saggio, il critico individuava il forte legame che intercorre tra l'opera del celebre cineasta tedesco e il contesto in cui egli operò, ovvero la Germania degli anni Settanta. A Fassbinder piaceva spesso ribadire che i suoi lavori erano «film tedeschi, interpretati da attori tedeschi per un pubblico tedesco», e l'impressionante numero di produzioni - che comprendono non solo film per cinema e televisione, ma anche serial e spettacoli teatrali - tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi anni Ottanta sono la tangibile testimonianza di una volontà, o per meglio dire, di un desiderio febbrile  di raccontare il percorso, storico e culturale, di un paese. Il rischio dell'oblio proposto da Elsaesser è quindi sintomatico: considerare il cinema di Fassbinder fuori da quel contesto può essere un'operazione ardua. Si può rischiare, davvero, di "dimenticarsi" chi fu Fassbinder, e cosa rappresentò la sua immensa, ineguagliabile opera cinematografica.

Il cinema non fu il primo approccio del giovane Fassbinder al mondo dell'Arte. Studiò infatti recitazione, e nel corso dei suoi studi conobbe l'attrice che sarebbe diventata in qualche modo il simbolo stesso del suo cinema, Hanna Shygulla. Durante gli anni Sessanta, ancora giovanissimo, si cimentò nell'esperienza dell'Anti-Theater, dove sperimentò le teorie di Bertold Brecht e Antonin Artaud, iniziando a costituire un nucleo forte di attori e collaboratori che lo avrebbero seguito anche durante la sua esperienza cinematografica.

I primi film di Fassbinder risentono dell'influenza della Nouvelle vague francese, ed in particolare della destrutturazione del polar compiuta da Jean-Luc Godard. A questo modello, Fassbinder integra una rigorosità della messa in scena debitrice di Straub e Huillet, costituita da una precisa fissità della macchina da presa - che raramente si cimenta in carrelli laterali (sempre evidentissimi) -, l'anti-spettacolarità della recitazione e l'uso della musica extradiegetica in maniera straniante. Eppure, fin dal primo, meraviglioso titolo della sua filmografia, gli intenti poetici di Fassbinder paiono assolutamente definiti: "Liebe ist kalter als der tod", ovvero L'amore è più freddo della morte. Nella trilogia gangster (che, oltre al film citato, comprende Gli dèi della peste e Il soldato americano - quest'ultimo, il più compiuto tra i tre), Fassbinder utilizza in maniera quasi pretestuosa il genere americano per concentrarsi, piuttosto, intorno a dei "casi umani". È la "legge del più forte" a regolare le relazioni all'interno di questi microcosmi, sempre ripresi attraverso un austero (e splendido) bianco e nero.  Più indipendenti rispetto al "genere" sono, invece, Il fabricante di gattini e il sottovalutato Perché il signor R è diventato matto? (quest'ultimo, a colori), in cui il regista tedesco comincia ad affrontare la schizofrenia e i malesseri della società tedesca proletaria. Dopo esperimenti più o meno riusciti come Withy (unica - e maldestra - incursione nel western), Rio das mortes (altro polar, questa volta a colori), e Il viaggio a Niklashauser (il suo film più godardiano e politico), chiude idealmente la prima fase del suo cinema con il più metalinguistico dei suoi film, Attenzione alla puttana santa, dove fellinianamente mostra la (ir)realizzazione di un film.

A questo punto, il cinema di Fassbinder ha una svolta. Egli conosce personalmente il regista Douglas Sirk, autore di alcuni dei melodrammi hollywoodiani più intensi e strazianti mai realizzati: l'incontro e la scoperta dell'opera sirkiana è l'occasione, per Fassbinder, di riconsiderare profondamente il suo cinema. Non più (o non solo) una riflessione sul mezzo cinematografico (e sui generi) dai caratteri perlopiù avanguardistici - un'operazione rivolta quasi esclusivamente ad una élite spettatoriale -, ma un approccio istintivo, comprensibile, immediato: popolare. E quale genere meglio del mélo può rendere in maniera schietta e senza filtri la "politica dei sentimenti" che, da sempre, è il fulcro della sua opera? Ed è così che, nell'arco di pochi anni, Fassbinder realizza alcuni, intensissimi melodrammi, alternando l'ambientazione proletaria a quella borghese. Il primo fu Il mercante della quattro stagioni, a cui seguirono il teatrale Le lacrime amare di Petra von Kant, il morboso Selvaggina di passo, lo straziante La paura mangia l'anima (che riprende a grandi linee il sirkiano Secondo amore), l'horror-mélo vittoriano Martha, il letterario e raffinatissimo Effi Briest (tratto dal romanzo omonimo di T. Fontane), il politico e scomodo Il viaggio in cielo di mamma Kuster, fino a giungere ai due capolavori assoluti della maturità: Il diritto del più forte (definito da Goffredo Fofi «il più acuto film sugli omosessuali mai girato») e Voglio solo che voi mi amiate, nel quale le riflessioni di Marx e Freud si incontrano idealmente, pur senza intaccare o appesantire la portata terribilmente umana del film.

Il suo cinema inizia qui ad inasprirsi, cominciando ad abbracciare un impianto formale sempre più ricercato e barocco. Nessuna festa per la morte del cane di Satana e di Roulette cinese sono veri e propri "giochi al massacro" di violenza e nichilismo inauditi. E se elegantissimi risultano ancora melodrammi quali Bolwieser, Despair (da una sceneggiatura di Tom Stoppard, e con un superlativo Dick Bogarde) e Il matrimonio di Maria Braun, un film come Un anno con 13 lune pone un altro tassello oscuro e devastante nella sua filmografia: una legittimazione al suicidio che ha sicuramente dei risvolti inquietanti con la propria vicenda umana. Nello stesso periodo gira il mastodontico sceneggiato televisivo Berlin Alexanderplatz, tratto dal celebre romanzo di Alfred Doblin (autore tra i prediletti dal regista), dalla durata di 16 ore. Dopo i ritratti femminili di Lili Marlene (sempre con la Shygulla), Lola e Veronika Voss (che segna anche un ritorno al bianco e nero più contrastato e seducente), vi sarà il film che assurgerà al ruolo di testamento poetico, Querelle de Brest: uno sfarzoso e barocco adattamento del romanzo di Jean Genet in cui l'universo omosessuale del regista assumerà i caratteri del sogno e del desiderio, mai appagato.

Fassbinder è stato probabilmente il maggior regista tedesco del dopoguerra assieme a Wim Wender e Werner Herzog. Nell'arco di poco più di un decennio ha realizzato un quantitativo enorme di opere, riuscendo a mantere sempre il totale controllo sul suo operato. È stato capace di unire un approccio teatrale (e una superba direzione degli attori) ad un uso del mezzo cinematografico raffinatissimo, sospeso tra il classico e il moderno. Ha realizzato un cinema politico nel senso più elevato del termine, rifiutando dogmi e ideologie troppo strette (e procurandosi l'astio da più fronti).
Perché la sua ricerca è stata tanto storica quanto intimistica. È riuscito, infatti, a unire i contrari, in maniera lucida e contraddittoria come, in fondo, era lui stesso, che credeva nella vita tanto quanto la detestava.

«L'uomo è educato in modo tale che ha bisogno d'amore in qualsiasi situazione. Ma non c'è nulla nella sua educazione  che impedisca a chi è più forte in amore di sfruttare l'amore del più debole. In altre parole, è più facile amare che farsi amare.»   Rainer Werner Fassbinder.

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